Tecnica vs natura

Come annotava già Ernst Junger negli anni 50 del secolo scorso:
“Emblema di un percorso verso un abisso sconosciuto, la tecnica viola, mediante la teorizzazione e la possibile applicazione del processo di fecondazione artificiale, persino il tabù del diritto ad avere un padre, ponendosi così al muro del tempo, dove spira il vento inquietante delle svolte epocali. E’ il principio stesso che anima questo nuovo tipo di riproduzione e non la sua estensione a essere più gravido di conseguenze, per il nostro destino, di quanto non lo siano state due guerre mondiali”.
Sono questioni che non riguardano solo i cattolici o i soli credenti, ma che coinvolgono la cultura, l’antropologia, i legami sociali, l’idea di dignità della persona, elementi prepolitici e prereligiosi, su cui si basa l’idea di comunità e, in ultima analisi, l’idea stessa di democrazia fondata sul consenso e la libertà di uomini e donne liberi, liberi anche di amare, ma non di ridurre a prodotto merceologico un bambino.

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Elly Schlein

Probabilmente senza esserne del tutto consapevole, Elly Schlein rappresenta tutto questo, nascosto dietro il libertarismo radicale gradito alle oligarchie che lo finanziano. Trascina le culture politiche che alimentano il PD su una china scivolosa, le modifica geneticamente. Tutti coloro che hanno creduto di costruire il paradiso in terra hanno finito per creare l’inferno. Il paesaggio culturale che rappresenta è un gaio, indifferente nichilismo di matrice tecnocratica, che ha in comune con la sinistra di sempre l’ansia costruttivista, che Del Noce chiamava perfettismo o virtuismo. Con la destra classica condivide la preferenza per il forte, che costringe a uniformarsi a processi di mutamento antropologico decisi dagli architetti della vita altrui.

Da oggi, in Italia tutte le tendenze dissolutrici dell’occidente terminale sono riassunte e ricongiunte in una persona fisica scelta dall’alto – nessuno può credere alla spontaneità dell’operazione politico-mediatica di cui è stata protagonista- per portare avanti un’agenda che ci appare contraria non solo agli interessi del nostro popolo, ma alla ragione naturale. Carl Schmitt insegnò che la specifica distinzione politica alla quale ricondurre le azioni e i moventi politici è la dicotomia tra amico e nemico. Nemica è l’agenda globalista antiumana, non Elly Schlein personalmente. Tuttavia, occorre attrezzarsi per una battaglia che oltrepassa la dimensione politica, diventando metapolitica e biopolitica, visione complessiva della vita, dell’uomo, del suo ruolo nel mondo.

Fonte: Il Pensiero Forte.it

Un gaio nichilismo

L’orizzonte umano coincide col piacere del singolo
È proprio questa l’essenza della “società radicale”, che non può che assumere una forma tecnocratica, inevitabile, per dirla con Del Noce, «in una realtà in cui i valori etico-politici sono sostituiti da criteri strumentali: è la società della massima oppressività possibile, quella il cui fondamento è il principio pragmatico esteso a tutti i rapporti sociali, in cui tutto sembra passare in via privilegiata per il diritto assoluto degli individui al soddisfacimento dei propri desideri». Se la natura diviene, in altre parole, solo un oggetto per l’uomo, e se la società viene pensata solo nei termini dei vantaggi che essa può assicurare al piacere del singolo, allora il problema di un valore “trascendente” della natura e della società – la religione, la morale, la prospettiva nazionale – appare come privo di senso. La sinistra postmarxista raggiunge così la perfetta negazione della trascendenza, il rifiuto dell’esperienza immediata e della consapevolezza della realtà, sia per ciò che riguarda la natura, sia per ciò che riguarda la società: il mondo e l’uomo emergono soltanto come ciò che appaiono e la misura concreta che li avvince al soggetto umano è soltanto il soddisfacimento dei suoi bisogni e desideri. Non c’è, anche in questo, una prefigurazione dell’orizzonte liquido, sradicato, indifferenziato, politicamente corretto e “sostenibile” degli scenari a noi contemporanei?

di Riccardo Arbusti – 01/03/2023

Scuola 4.0

Stavolta la fonte, lo abbiamo visto, non fa nemmeno finta di assumere le sembianze di un prodotto della democrazia. La riforma, che di fatto è una rivoluzione, porta il marchio del PNRR e tanto basta per travolgere nell’orgia digitale, con la forza del ricatto, contenitori e contenuti, persone e cose, storie e identità.
A quei docenti tanto miopi da eccitarsi per il denaro in arrivo, che non andrà certo ad aumentare gli stipendi semplicemente perché la nuova scuola non avrà più bisogno di loro, occorre domandare se si siano presi la briga di leggere il documento di cui si fanno solerti esecutori e se, quindi, se abbiano un’idea della sorte che li attende. Transiteranno per la mansione intermedia di facilitatori tecnologici ed erogatori di istruzione (finta), per approdare presto alla disoccupazione per inutilità sopravvenuta, sostituiti da più efficienti robot: che infatti hanno il pregio di non ammalarsi, non protestare, non cambiare idea, non deragliare dalla strada segnata. L’intelligenza artificiale sta scaldando i motori e, se quella naturale va in vacanza, occuperà tutti gli spazi rimasti incustoditi.
ContiamoCi! (comunicato qui sotto) chiede allora al ministro cosa ne pensi e cosa intenda fare. Chiede a docenti, genitori, cittadini tutti che abbiano a cuore i più giovani e il nostro futuro, di opporsi con forza alle lobby rapaci del digitale smaniose di impossessarsi dei luoghi, delle menti, delle intimità. Chiede di reagire con determinazione a questo sopruso impacchettato in carta regalo, perché lo scempio cui stiamo assistendo non lascerà molti sopravvissuti.

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Il relativismo

Il relativismo è considerato un bene conquistato dall’attuale società del pugno di mosche, in contrasto a quella fondata sui gerarchici, inequivoci, duraturi valori tradizionali. Come in questa sussistevano le solidità identitarie e sociali, all’opposto nell’attuale, transumanistica, dominano i pensieri e le idee propri di un ordoindividualismo a tutto esteso. L’aveva già detto Zygmunt Bauman nel 1999 (1).
La persona, entità base della comunità, che poteva analogicamente relazionarsi a tutto il mondo, è divenuta individuo, entità incapace di comunità se non digitali, virtuali, dall’identità effimera, in quanto aggregata al momento della bisogna, spesso del piacere o dell’interesse personale. Un essere che con due soldi è stato convertito in consumatore e, in quel solo modo, a sua insaputa soppesato. Poi, algoritmicamente anticipato, paurosamente reso prevedibile, digitalmente sempre più sorvegliato.

Lorenzo Merlo in Controinformazione.info

Gli analfabeti loquaci

Sono già lì, belle pronte, tutte le risposte, le versioni ufficiali, diffuse dall’ apparato di comunicazione e intrattenimento, massimo responsabile dell’analfabetismo di ritorno da cui siamo sopraffatti. Il ministero dell’educazione francese è in gravi difficoltà ad arruolare insegnanti. I candidati ignorano la lingua francese, spesso la grammatica e l’ortografia. Non comprendono le domande poste dagli esaminatori, quindi non sono in grado di rispondere. Gli insegnanti di matematica non sono capaci di eseguire i calcoli e applicare le formule che dovrebbero trasmettere agli allievi.
Gli analfabeti di ritorno sono loquaci in quanto convinti di padroneggiare una conoscenza – cultura è parola grossa – sempre più limitata e specialistica, che sembra fornire loro speciali diritti a strologare su qualsiasi argomento. Lo specialismo è l’istruzione settoriale, strumentale del cosiddetto esperto, un soggetto che finisce per sapere tutto su nulla, tanto piccolo è il suo angolino di conoscenza. Il problema – in una società complessa – è che si finisce per ignorare qual è il nostro posto nella catena sociale e perfino che la catena esiste.
Viene ignorata la trasmissione del sapere, eccetto il campo limitato di ciò che riguarda il nostro mestiere o professione. Si parla di cultura della cancellazione, ma è un ossimoro: non vi è cultura senza trasmissione, relazione tra passato e presente. L’analfabetismo raggiunge così i più alti livelli, ammantato di larghezza di vedute, tolleranza e rispetto. In Inghilterra le istituzioni universitarie invitano (ossia obbligano) a non usare la parola Natale, da sostituire con la tortuosa locuzione “festività di fine anno”. Nessun accenno al perché si fa(ceva) festa, al peso, alla storia delle parole. In inglese Christmas è molto chiaro: resta solo la foga di cancellare se stessi, la vergogna di ciò che si è.
Non era così in passato, quando almeno si sapeva di non sapere e si aveva l’umiltà di ascoltare. Oggi un’arrogante ignoranza disprezza ogni approfondimento, rifiuta il confronto, si esprime per luoghi comuni con i termini orecchiati nel linguaggio disincarnato della sottocultura di massa. Il modello preferito è Twitter: centoquaranta battute al massimo, spazi compresi. Di qui l’incomprensione reciproca, l’assertività obbligata, la preferenza per concetti banali, stereotipati, o, al contrario, l’ingiuria e la menzogna sfrontata. Parliamo per slogan senza interesse per la verità: calano dall’alto le parole d’ordine, gli analfabeti loquaci le ripetono stupiti che qualcuno non sia d’accordo, usi altri linguaggi, risponda a criteri, significati e principi che non essi capiscono poiché ignorano le parole e i costrutti mentali con cui sono formulati.
Lo intuì George Orwell: in 1984 il Ministero della Verità, oltre a capovolgere i significati, lavora alla cancellazione del vocabolario. Chi non conosce le parole, non possiede più il pensiero. Il ragionamento non riesce più a esprimere un’opposizione, elaborare critiche (cioè giudizi) e neppure manifestare un consenso ragionato.
Forse oggi non sarebbe possibile un romanzo come La versione di Barney, che pure è del 1997. Barney Panofsky, produttore televisivo di successo, decide di scrivere la sua autobiografia per liberarsi da una vecchia accusa di omicidio. Elabora cioè la ”versione” della sua stessa vita, l’interpretazione di ciò che ha fatto e di quello che è. Nel mondo dal linguaggio distorto e impoverito, esiste la versione unica, da credere e ripetere con i medesimi termini, declinati al presente, con cui ci è stata fornita. La nostra loquacità è tutta al presente, vive nell’istante; ignora il passato e non si cura del futuro.
Soprattutto, evita di meditare. Per questo è in declino la filosofia, esercizio del pensare, porre domande diverse dalle FAQ, cercare risposte, rintracciare significati. In più, la filosofia ha il torto di “non servire”, quindi è disprezzata dall’homo consumens; inoltre utilizza e inventa molte parole, i “significanti”, ciascuno diverso dall’altro, per esprimere compiutamente distinti stati d’animo, idee, sensibilità, risvolti e sfumature, che hanno bisogno di un lessico ricco e preciso. L’odierna ignoranza soddisfatta predilige la risposta rapida – Quick response, QR, il codice digitale simile a una macchia.
Di riduzione in riduzione, domina l’abstract, il compendio semplificatorio. Perché leggere l’Amleto o la Divina Commedia? Meglio un riassunto, possibilmente entro le centoquaranta battute di un “cinguettio”. La prova? Ecco un tweet sui Promessi Sposi: “il matrimonio di una coppia etero di contadini è avversato da un nobile. Nonostante guai e peste, alla fine si sposano.” Tutti abbiamo fretta, ma non si impara né si comprende se non con pazienza e costanza. Molti contenuti in rete, anche su temi complessi, hanno in epigrafe il tempo di lettura, quasi le scuse preventive per far “perdere tempo” al lettore.
Perdere tempo, ecco un mantra contemporaneo: l’analfabeta ha sempre fretta, non può essere importunato con complicazioni, riflessioni, pensieri diversi dall’attimo. Egli sa già tutto quello che “serve”, per il resto c’è lo smartphone, la persona elettronica che lo ha sostituito. Basta una ricerca su Google – rigorosamente limitata alla prima pagina – ed ecco la soluzione, la conoscenza illimitata. Il nome del colosso di Mountain View deriva da Googol, termine che indica un numero pari a dieci alla centesima potenza, la cifra corrispondente a uno seguito da cento zeri. Chi se ne frega, ciò che conta è che, con un tocco sullo schermo, saprò qualsiasi cosa mi interessi, risolverò ogni problema, con un tempo di risposta (il nuovo significato di “latenza”) pressoché impercettibile.
Pazienza se non uso più la memoria, se non ragiono, se non cerco più, nei file dell’intelletto, le risposte alle domande e tantomeno impegno la riflessione, stimolo la ricerca, il pensiero meditante, cioè giudicante. Non è per caso che l’homo sapiens occidentale sta perdendo intelligenza: diminuisce il nostro Q.I. di circa mezzo punto all’anno. Diventiamo più stupidi e più ignoranti, allo stesso ritmo con cui dimentichiamo parole e concetti e non sappiamo più esprimere la complessità dell’animo.
Non perdiamo però nulla in supponenza e loquacità, supportate da una credulità inversamente proporzionale alla conoscenza. Detestiamo i maestri e più ancora chi esprime dubbi sulla “versione di Barney” obbligatoria. Siamo tornati alla caverna di Platone, ombre scambiate per realtà. Sconcerta la convinzione di avere capito tutto, di vivere in un progresso continuo, il fastidio rancoroso con cui viene accolta qualsiasi obiezione o richiesta di spiegazione. Peggio ancora se si cerca di esprimere un concetto estraneo che revoca in dubbio certezze mai discusse nel foro interiore.
Correggi un saggio, recita un proverbio orientale, e questi diventerà più saggio. Correggi uno sciocco, e ti farai un nemico. Nulla è più terribile di un’ignoranza attiva, scriveva Goethe. Ed esibizionista, aggiungiamo noi. Si addice agli analfabeti loquaci una frase di Abramo Lincoln: meglio tacere e dare l’impressione di essere stupidi, piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio.

Roberto Pecchioli

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La sinistra atlantica

Messi in soffitta la lotta di classe, il marxismo e il conflitto servo-padrone, sulle piste della Scuola di Francoforte, la sinistra ha abbandonato le classi subalterne. Per niente rivoluzionarie, scoprì infastidito Adorno: vogliono semplicemente migliorare la loro condizione. Sono conservatrici e condividono con altri gruppi sociali la “personalità autoritaria” da estirpare. Marcuse immaginò la “liberazione” – concetto omnibus assai caro alla sinistra, che diffida delle libertà concrete e le odia – nella forma della sessualizzazione della vita, del vivere esperienze (diventate dipendenze) di ogni tipo senza limiti o vincoli etici, della negazione fine a se stessa. La porta era aperta per l’uomo a una dimensione, il cui esito è il pensiero negativo, il transito verso il soggettivismo e il nichilismo. La trionfante cultura della cancellazione, l’odio di sé che pervade l’Occidente che si spoglia di sé, è l’inveramento del “grande rifiuto”, il vangelo ateo imposto da Marcuse.
L’intellettuale e politico comunista Gyorgy Lùcacs definì un abisso l’esperienza francofortese. “Vissero in una lussuosa suite del metaforico Grand Hotel Abyss, dal quale potevano dedicarsi a contemplare il vuoto che si apriva sotto di loro, la crisi della modernità che stavano accelerando, seduti in comode poltrone tra pasti eccellenti e intrattenimenti artistici”.
Il cambiamento senza fine oscura la visuale. Ad esempio impedisce la vedere l’abisso di sorveglianza totalitaria dell’abolizione del denaro contante, di cui la sinistra è sfegatata sostenitrice, in nome di falsità, come la lotta all’evasione fiscale. La presbiopia progressista impedisce di vedere le grandi evasioni fiscali – società finanziarie, fondi, giganti della tecnologia – concentrando il rancore e l’invidia sociale contro artigiani e professionisti. La sinistra, custode del positivismo giuridico, proclama le “regole” ma nei fatti smantella la presunzione di innocenza, architrave del diritto, per compiacere il femminismo più radicale. “Io ti credo, sorella”, gridano contro la violenza sessuale, un crimine odioso che tuttavia non può portare a condanne senza prove. In Spagna, per il reato di lesioni con uguale prognosi, l’imputato maschio subisce una condanna doppia rispetto alla donna. Si cominciano a richiedere ricusazioni dei giudici sospettati di non credere nella “prospettiva di genere”. Sarebbe ridicolo se non fosse drammatico.

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Non avrai nulla e sarai felice

Oggi, in una notte del mondo in cui reale e virtuale, vero e falso, tendono a confondersi, esperienza e finzione, sogno e labirinto si intrecciano e plasmano un’umanità irriconoscibile.
Il nomade non è interessato alla proprietà, tanto meno alla stabilità; la sua identità mobile è fortissima benché “sui generis”. Egli reca con sé ogni cosa che gli appartiene fintanto che gli è utile: il gregge che lo sostenta, la tenda che lo protegge nel riposo. Ha pochi ricordi, nel senso che noi attribuiamo al termine. La sua meta è il viaggio. Così ci sta trasformando la postmodernità. Viviamo di emozioni, pulsioni, esperienze. La necessità più viva è essere sorpresi: per questo abbiamo bisogno di continue novità. Fintanto che il sistema riuscirà a provvederci di emozioni, saremo alla sua mercé, schiavi alla ricerca di lampi di felicità. Legati, inevitabilmente, alle “non cose”. Accoglieremo con soddisfazione una vita a nolo. Automobile in affitto, case abitate a giorni: il mondo di Uber e Airbnb. Accetteremo rapporti umani strumentali, sempre più veloci per la noia che incombe.
Essenziale resterà la relazione con gli apparati artificiali, specie lo smartphone, porta dell’infinito virtuale, l’unica proprietà che difenderemo gelosamente sino all’uscita del modello successivo, più rapido, più performante, soprattutto più simbolico. I simboli sono “non cose”. Ci leghiamo a d essi, non più agli oggetti della nostra vita. Libri, suppellettili, perfino abiti e gioielli, l’automobile, la casa e la terra, quelli che chiamiamo ricordi e hanno conferito senso e continuità alle nostre vite, sono legami, dunque pesi inattuali, orpelli di cui disfarsi sull’altare delle esperienze.
La libertà a cui aspira l’uomo-cifra è quella del consumo, immediato, costante, illimitato. L’economia dell’esperienza sostituisce l’economia delle cose. Perciò accettiamo e più ancora accetteremo una vita fatta di puntini, di scoppi di adrenalina, ossia di esperienze, desideri, stimoli sempre nuovi. Un moto perpetuo che finirà per estenuare. Jeremy Rifkin fu il primo a cogliere un salto cruciale: viviamo l’era dell’accesso, il concetto chiave della contemporaneità. Lorsignori ci obbligano alla connessione continua, all’ibridazione con gli apparati, a inseguire ogni mutamento, da abbandonare una volta “esperito”. Il cyberuomo non darà importanza al possesso e alla proprietà: il mondo fondato sull’accesso genera un’umanità del tutto diversa.
La lezione di Rifkin è stata recepita ai livelli più alti, che lavorano attivamente per espropriarci di tutto, a partire dalla nostra mente, per tenerci in pugno attraverso le “non cose”. Identità significa innanzitutto duratura relazione con persone, cose, luoghi; il possesso è per natura stabile, si fonda sulla persistenza. Nulla di più estraneo alla dromocrazia (dominio della velocità), al “tempo reale”. La nuova identità è fluida, mutevole, a partire dagli istinti sessuali e dalla percezione di sé. Fatica a immaginare qualsiasi cosa sia “per sempre”.
Ancor meno riconosce l’idea di trasmissione, il lascito che riceviamo e consegniamo alle generazioni successive. Tutti concetti legati alla stabilità, alla categoria di creatura stanziale che l’homo sapiens ha cucito su se stesso. L’uomo digitale non vuole storia e fa a meno della memoria. Vacilla l’idea di cultura, che è accumulo, deposito nel tempo e nello spazio di conoscenze e costumi che oltrepassano gli individui. La cultura trae origine nella comunità. Mercificata, commercializzata, munita del cartellino del prezzo, perde valore e distrugge la comunità, sostituita dalla community.
Tutto ciò inquieta, come la scarsa percezione delle modifiche antropologiche in atto, in attesa del salto ontologico, il passaggio al transumano. La finestra di Overton si spalanca nella direzione dell’uomo – il faustiano Homunculus forgiato dalle officine globaliste – che non ha nulla, dopo aver accettato con apparente indifferenza di non essere nulla. Sarà felice per un po’, di una soddisfazione animale e provvisoria, bisognosa di continue scosse. Poi scoppierà e rivorrà la scintilla divina che si è lasciato estirpare collaborando all’esproprio.
Tornare umani, tornare al reale, rigettare il virtuale, l’illusione fabbricata, la vita a noleggio, il nomadismo interiore e materiale, passerà, temiamo, per esperienze terribili. L’uomo ritroverà la sete di infinito, riprenderà a guardare in alto, a voler essere e voler avere. Ulisse tornerà a Itaca, ma troverà qualcuno ad aspettarlo?

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Prandstraller

Ci si può domandare, a questo punto, come sia potuto accadere che, dopo le aperture in senso liberale realizzate nel decennio ’60, dopo l’incremento della partecipazione politica e la messa in discussione dell’autoritarismo tecnocratico e militare attuata in quel periodo, l’Occidente sia ora di fronte a un tale cambiamento.
Una congrua risposta a questa domanda implicherebbe che fossero presi in considerazione i numerosi fattori, interni ed esterni, che hanno interferito sul cammino dell’Occidente nel recente periodo, togliendogli la baldanza libertaria da cui sembrava animato. Ma se ci si vuole limitare ad una eziologia riferibile alla stessa natura della fase politico-culturale che ha preceduto la svolta invclutiva, si deve osservare che i movimenti degli anni ’60 non hanno avuto né la chiarezza ideologica né la forza d’urto necessarie per intaccare le istituzioni portanti, quelle cioè che fondano l’assetto generale di una società. Benché essi abbiano compiuto un apprezzabile lavoro di destrutturazione, non sono stati in grado di estenderlo al di là di alcune istituzioni sostanzialmente marginali rispetto al nucleo centrale del potere. Hanno intaccato – a vantaggio dell’autodeterminazione individuale – la famiglia, la scuola, l’università, togliendo a queste entità parte dell’impronta repressiva che precedentemente avevano; hanno liberalizzato l’amore, legittimato il privato, garantito nuovi spazi alla circolazione delle idee; valorizzato la marginalità rispetto alla centralità, e messo in evidenza la negatività del potere sul piano etico. Ma questo insieme di risultati non è valso a modificare la struttura dell’impresa e l’assetto politico, i due assi portanti con cui ogni sviluppo civile deve fare i conti. Questi assi sono passati indenni nella bufera degli anni ’60 ed ora si può constatare che hanno rinforzato il proprio impianto autoritario con gravi conseguenze generali.
Minacciate ma non colpite direttamente, tali istituzioni sono riuscite ad attuare le loro vendette negli anni ’70. Certe forme che esse avevano assunto in Occidente ben prima della contestazione realizzavano implicite negazioni del plu-ralismo e ne riducevano grandemente l’attuabilità. La tecnocrazia, i monopoli e il sistema sempre più rigidamente strut-turato dei partiti erano di per sé rilevanti smentite dei principi di questo e ostacoli gravissimi alla sua estrinsecazione concreta. Quelle istituzioni in realtà configuravano un modello antidemocratico nel bel mezzo della democrazia e nella sostanza sabotavano quest’ultima. La piega corporativa assunta in seguito su larga scala dalla società occidentale appare perfettamente in linea con tale sabotaggio occulto ma micidiale. Forza contro forza, compagine di potere contro compagine di potere, la società è andata sempre più accentuando – attraverso un’organizzazione puntigliosa dei suoi corpi interni – caratteri che nulla avevano di democratico, già evidenti peraltro nelle concentrazioni apparse prima che il fenomeno corporativo assumesse un’estensione generale.
Il fallimento degli scopi principali della contestazione -nonostante il successo ottenuto in campi secondari – è comprensibile se si considera, oltre alla debolezza delle forze sociali su cui essa si fondava, il tipo di elaborazione teorica che la sorreggeva. Il primo elemento è troppo evidente per aver bisogno di molti commenti: le forze implicate nei « movimenti » non solo erano numericamente esigue rispetto alla massa della popolazione, ma operavano in settori obiettivamente periferici, o resi tali dalla natura stessa della società industriale avanzata. Gli studenti, le donne e alcune altre componenti attive dei movimenti, in genere non agivano a contatto diretto con i grandi processi produttivi e politici né, tanto meno, nei corrispondenti apparati. La loro protesta, di conseguenza, non poteva avere una specifica incidenza su tali processi. Anche quando – come in Francia – i movimenti giunsero a minacciare l’assetto politico, tale minaccia fu effimera e troppo debole per arrivare ai nuclei sostanziali del potere. Essa comunque non potè coinvolgere la « struttura » vera e propria.
Per quanto riguarda il secondo elemento, ora che si possono vedere le cose con sufficiente distacco, non è difficile constatare che la pars destruens della critica teorica è stata di gran lunga più elaborata della pars construens. Nessun progetto di mutamento applicabile alle istituzioni portanti fu invero delineato dal pensiero critico. I teorici indugiarono al livello dei grandi presupposti, mettendo in luce il carattere alienante e repressivo della società vigente: ma al di là della denuncia di tale repressività (presentata da Marcuse come un fatto pressoché irrimediabile) essi non seppero spingersi. La formazione più filosofica che sociologica, economica e politologica dei più importanti intrepreti del pensiero critico, e inoltre la scarsa volontà di abbandonare una certa metodologia deduttiva che pretendeva di ricavare tutto da alcuni assiomi, hanno favorito l’inclinazione alla denuncia senza alternative pratiche e senza operatività concreta.
A ciò si aggiunga che – mettendo in risalto le potenzialità repressive della cultura occidentale – il pensiero critico ha trascurato di sottolineare e di valorizzare quelle libertarie. L’atteggiamento di Adorno e Horkheimer nei riguardi del-l’illuminismo è in proposito tipico. La oggettiva svalutazione di uno dei più grandi momenti culturali dell’Occidente da essi decretata in Dialektik der Aufklarung (1947) – benché presentata come tentativo di salvarne il vero spirito – ha costituito, per molti versi, un atto suicida, una professione di sfiducia nella ragione occidentale non accompagnata da alcuna alternativa concreta. Non si può non convenire a questo proposito con Jacques Ellul, quando sottolinea che « coloro che sono stati i portatori o i ricercatori dei valori di una civiltà, coloro che vogliono il rinnovamento di una cultura, hanno troppo facilmente respinto, disprezzato il retaggio positivo del mondo occidentale. I nostri intellettuali, travolti da una sorta di delirio di autodistruzione, hanno perduto il senso dell’avventura occidentale, e degli atleti bardati di tutto punto: hanno creduto di potersene impadronire, mentre non facevano che assestargli il colpo di grazia »

GIAN PAOLO PRANDSTRALLER
Nato a Castello di Godego (TV) il 26/03/1926, libero docente in Sociologia Generale nel 1969, Professore incaricato di Sociologia presso l’Università di Padova dal 1969 al 1975, Professore straordinario di Sociologia nell’Università di Lecce nel 1976, Professore Ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna nel 1977.

Burattini senza fili

Per comprendere le ragioni della salienza di questa sfera bisogna comprendere cos’è successo di catastrofico nella cultura contemporanea. Le nuove generazioni non riconoscono alcuna realtà al mondo sociale, culturale, storico, religioso. Tutte queste sfere che hanno rappresentato il centro di gravità delle lotte dei secoli e millenni passati sono scomparse in una dimensione di irrealtà, che non ha più nessun aggancio effettivo con le loro vite.
Questa trasformazione ha naturalmente motivazioni profonde e di lungo periodo, su cui non possiamo soffermarci, dipendenti dall’imporsi progressivo di un’ontologia “naturalista” e di un’etica “relativista” nel percorso di egemonizzazione della ragione liberale.
Sommersi mediaticamente da una tempesta di frammenti “culturali” privi di alcuna connessione e di alcuna rilevanza operativa che gli piovono addosso da ogni parte, essi hanno recepito come lezione fondamentale che storia, cultura, società, politica, ecc. sono dimensioni sfuggenti, inintelligibili e arbitrarie, dimensioni irreali in cui magari si muovono ancora alcuni adulti – sempre meno – ma che non rappresenta qualcosa che è possibile prendere sul serio.
Le loro esistenze sono state integralmente destoricizzate e desocializzate. Il mondo del passato è la noia irrilevante dei libri di storia, e siccome ogni presente è destinato a diventare il passato di domani, anche ogni loro azione presente non si muove più nel senso di “orientare la storia”, perché la storia non esiste.
“Realtà” in modo preminente, legittimata dalla nostra intera ontologia, è solo la “natura”, che si profila come concreta e presente, “vera”.
Sarebbe erroneo però immaginare che ci sia una qualche definita immagine o un’articolata conoscenza di ciò che sarebbe, o dovrebbe essere, “natura”. E qui fa capolino l’aspetto davvero tragico di questa metamorfosi delle coscienza. Da un lato, solo ciò che appartiene alla sfera “naturale” è propriamente “reale” e dunque solo questa sfera può ancora accendere qualche animo o qualche passione. Tuttavia, com’è ovvio che sia, “natura” è in effetti sempre solo l’accesso a determinate idee, storicamente sviluppatesi, di “natura”. Ma essendo scomparsa dall’orizzonte ogni coscienza storico-culturale, lo schermo attraverso cui vedono la “natura” non è percepito come tale: la “realtà” residua, la “natura” per cui vale ancora la pena combattere è di volta in volta un’immaginicola correntemente di moda, senza che di ciò si abbia alcuna contezza. Il sistema culturale della “produzione di contenuti di moda”, agente fuori scena, fornisce uno spicchio di mondo che viene percepito come realtà naturale, massimamente concreta, qualcosa che “rifugge le complessità e fumisterie della storia e della cultura”.
Così, ci troviamo di fronte a soggetti che pensano di “star dicendo la loro” perché lottano per l’autointerpretazione e autodeterminazione dei propri genitali, o perché imbrattano tele contro il riscaldamento climatico, o perché rivendicano i diritti di Bambi.
Naturalmente ciascuna di questa tematiche potrebbe avere modi critici e intelligenti di essere trattata, ma il punto cruciale sta proprio qui: qualunque trattazione critica dovrebbe valutare questi temi in rapporto al sistema di relazioni storiche, sociali, economiche, culturali, ecc. in cui si colloca. Ma proprio questo è ciò che è impossibile, precluso, perché significherebbe entrare in quella dimensione di complessità di cui non solo ignorano l’esistenza, ma misconoscono proprio la rilevanza.
Così, quelle residue energie di giovanile contestazione, in attesa di essere definitivamente spente negli ingranaggi lavorativi, si sfogano su bersagli mobili forniti e alimentati da un apparato mediatico-informativo di cui neppure sospettano l’esistenza. Burattini di altri burattini. Burattini senza fili sì, ma solo perché oggi funziona meglio un telecomando.

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