Non si pa’

Ripubblichiamo oggi questo articolo uscito a ferragosto,  perché, oltre ad essere ancora attuale, si rivela profetico.
NON SI PA’! Appunti di lettura sulla manovra e sul commissariamento dell’italia

di Girolamo De Michelethe new yorker.jpg

Praise be to Nero’s Neptune
The Titanic sails at dawn
And everybody’s shouting
“Which Side Are You On?”
(Bob Dylan, Desolation Row)

Ricordate il film Titanic?
Ricordate cosa succede, quando la nave comincia ad andar giù e il comandante realizza che non c’è possibilità di salvezza?
I viaggiatori di terza classe vengono imprigionati nella stiva, dietro le cancellate chiuse, e destinati a fare la fine del topo. È la condizione che permette ai signori della prima classe di salvarsi, dal momento che non ci sono abbastanza scialuppe per tutti.
Ogni volta che vi dicono che “siamo tutti sulla stessa barca”, dovreste ricordarvi di quella scena. E del brindisi che fanno gli scampati, come ci ricorda la copertina dell’ultimo numero di “The New Yorker”.

Ad esempio, adesso, in questo agosto 2011. La crisi ha impresso una svolta ineludibile: così ci dicono. Il governo italiano è stato sostituito da un governo tecnico sovranazionale (da un “podestà forestiero”) il cui garante, o forse addirittura premier, sembra essere il tecnico bypartisan Mario Draghi: così dice il tecnico bypartisan Mario Monti [qui]. I provvedimenti per raggiungere il pareggio del bilancio, anticipando la modifica dell’art. 81 della Costituzione, non hanno alternative: così ci dice l’ex ministro derubricato a destinatario delle missive del governo tecnico sovranazionale Giulio Tremonti. E poiché siamo tutti sulla stessa barca, i sacrifici sono uguali per tutti: così ci dicono.
Beh, non è vero: ci stanno mentendo. A partire dai due tecnici bypartisan Monti e Draghi, che hanno nascosto finché è stato possibile farlo lo stato reale dell’economia nazionale e globale (e già qualche economista comincia a farsi sfuggire di bocca che la crisi è iniziata ben prima del 2008). Loro, come i loro colleghi europei e americani.taglio_agevolazioni.jpg Per rendersene conto basta ragionare sui “tagli lineari” alle detrazioni Irpef e all’Iva, che in apparenza colpiscono tutti nella stessa misura. In realtà, come mostra il grafico a sinistra, il decimo più povero della popolazione sarà penalizzato di quasi il 6% di reddito, mentre il decimo più ricco appena dell’1%. Ma c’è il “contributo di solidarietà”, dicono. Che riguarda meno del 10% della popolazione. Andiamo a vederlo: un galantuomo che intraprende e porta a casa un reddito di 120.000 € verserà in solidarietà il 5% dell’eccedente di 90.000 €, cioè 1.500 €, corrispondenti all’1.25% del proprio reddito, che aggiunto all’1% di Irpef e Iva rimodulate fa il 2.25%; per un reddito di 150.000 €, il contributo di solidarietà è di 3.000 €, cioè del 2%, che aggiunti a Irpef e Iva fanno il 3%: a fronte del quasi 6% del pensionato, del precario. Per arrivare al 5% bisogna cercare, e trovare, un reddito di 200.000 € (posto che esista uno che un simile reddito lo dichiari per intero): non sentite il rumore dei lucchetti che cominciano a chiudersi attorno alle cancellate?
Potremmo continuare: ma criticare le modalità della manovra è cosa tanto facile che ci riesce persino Bersani da solo, senza bisogno di leggere i testi scrittigli da Crozza.

Chiediamoci piuttosto: in che senso siamo “un paese commissariato”? In cosa consiste il debito nel quale siamo all’improvviso sprofondati? Ed è proprio vero che non c’è altra via d’uscita, se non decidere dove e come tagliare?

Nel suo editoriale sul “Corriere della sera”, Mario Monti ha detto con estrema chiarezza che «Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un “governo tecnico”. Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un “governo tecnico sopranazionale” e, si potrebbe aggiungere, “mercatista”, con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York». Come in Grecia, al governo scaturito dalla volontà sovrana degli elettori (concedeteci l’ironia del rispetto delle forme) si è sostituito un governo che non tiene conto della volontà popolare, né intende risponderne. Stendendo un velo pietoso sulla rivendicazione della salvezza della “primazia della politica” (nel senso che Draghi, Trichet e Junker hanno il buon gusto di lasciare ai nostri governanti la firma sulla finanziaria per l’Italia che ci mandano per lettera riservata?) notiamo che quando la crisi investì la Grecia, e il vicino ellenico sembrava buono per esercizi di accademia politica, questi erano i toni usati da alcuni leader politici – ad esempio Nichi Vendola, che oggi parla più prudentemente di «aprire un negoziato sui vincoli dell’Europa monetaria” come risposta al «commissariamento globale» delle istituzioni politiche europee: una sproporzione tra diagnosi e cura che lascia interdetti almeno quanto gli appelli allo sciopero generale come unica risposta da parte di chi, come Susanna Camusso, ha lavorato con metodo e merito al depotenziamento dello sciopero in uno sciopericchio di testimonianza. Ma una cosa è vera: questo commissariamento non è un fatto di oggi, e neanche di ieri o ieri l’altro: è il dato della crisi dell’autonomia politica al tempo del capitalismo finanziario e della crisi globale. Così, come cura per la crisi causata dal capitalismo finanziario, si propongono i capisaldi del capitalismo finanziario stesso: contratti in deroga, libertà di licenziamento, abrogazione di fatto dello Statuto dei Lavoratori. A voler concedere il beneficio dello stato di minorità (non è mica un’esclusiva di Renato Brunetta), la linea Sacconi-Tremonti è la malattia di cui crede di essere la cura.

Ma in cosa consiste questo intreccio perverso tra debito e crisi? Nell’incravattamento delle amministrazioni pubbliche, nazionali e locali, mediante un sistema di debiti contratti attraverso l’emissione di titoli finanziari. Tra i quali spiccano i “titoli derivati”, uno strumento perverso che ha causato il naufragio della Grecia, i cui governi di centro-destra per dieci anni, “persuasi” dagli emissari della prima banca finanziaria mondiale, la Goldman Sachs, hanno porto il collo alla cravatta dell’indebitamento progressivo. I titoli derivati, infatti, sono una sorta di tavolo da gioco al quale il banco vince sempre, e i giocatori possono solo perdere: come spiegava una puntuale inchiesta di “Report”, alla quale senz’altro rimandiamo (e sulla quale ritorneremo). Allo stato attuale, i derivati costituiscono al tempo stesso la causa del debito (stante i crescenti interessi che maturano) e la causa della crisi: le banche, infatti, hanno le casse piene di “titoli tossici”, cioè inesigibili, e non immettono liquidità sul mercato [vedi qui] – cioè non svolgono la loro funzione, che dovrebbe essere quella di finanziare gli investimenti produttivi per far ripartire l’economia. Il che non è detto che sia un male: la cosiddetta speculazione finanziaria internazionale, cioè in concreto i possessori di titoli finanziari (la speculazione è un’azione, non un soggetto), in questi giorni di lacrime e sangue stanno abilmente lucrando sui flussi di borsa, traendo profitto dalla minaccia di insolvenza: come in Una poltrona per due (chissà se questo Natale sarà rimandato in onda?), aspettano che le borse crollino per comprare a prezzi stracciati, e rivendono il giorno dopo quando il valore delle azioni risale. Su è giù per le montagne russe delle borse mondiali, Goldman Sachs (già sentita, vero?) ha guadagnato nell’ultimo mese abbastanza da superare, per possesso di liquidità, la Federal Reserve.

Andiamo avanti. Chi ha in mano i flussi economici globali? Secondo Andrea Fumagalli (che in questa torrida estate sta conducendo, su Uninomade e Precaria, una puntuale serie di analisi sulla crisi, mentre i suoi più rinomati colleghi si dedicano all’analisi dei prezzi della buvette di Palazzo Madama e Montecitorio, roba grossa), «oggi, non più di dieci Società d’intermediazione mobiliari (il cui acronimo, comunemente utilizzato – Sim – richiama, in modo ovviamente del tutto accidentale, quello di Stato Imperialista delle Multinazionali, usato dalle Brigate Rosse negli anni ‘70) controllano tra il 60% e il 70% del totale dei flussi finanziari in circolazione e il cui ammontare in valore è pari a circa 12 volte il Pil mondiale. Il restante 30-40% è in massima parte detenuto da banche e assicurazioni (oggi sempre più interrelate con le stesse Sim) e da Stati sovrani (quali Cina, India, paesi europei, ecc.). La quota di attività finanziarie mondiali detenuto da singoli risparmiatori è risibile e irrilevante» [qui].
Quanti ai titoli derivati, «nel 1984 le prime dieci banche al mondo controllavano il 26% del totale delle attività , con il 50% detenuto da 64 banche e il rimanente 50% diffuso tra le 11.837 rimanenti banche di minor dimensione. I dati della Federal Reserve ci dicono che dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, circa una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Al I° trimestre 2011, cinque Sim (Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie: J.P Morgan, Bank of America, Citibank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citicorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati: Swaps sui tassi di cambio, i Cdo (Collateral debt obligations) e i Cds (Collateral defauld swaps)» [qui].

goldmanTower.jpgNotate niente? Sì, avete visto bene: c’è di nuovo la Goldman Sachs, «la Spectre che gioca con i derivati sui destini del mondo assoldando e prezzolando tutti (o quasi)» [qui]. Caratteristica di questa banca è la sede nel New Jersey [a destra]: un grattacielo a forma di supposta piantato in mezzo al niente, che dice molto delle relazioni che i signori della GS intraprendono col mondo. Un ex presidente della GS, Jon Corzine, è stato fino all’anno scorso governatore del New Jersey: lo Stato della famiglia Soprano. Come ex dirigenti GS erano due passati segretari al tesoro del governo americano, Robert Ruby (sotto Clinton) e Henry M. Paulson (sotto G.W. Bush). Come, per venire in Italia, a diverso titolo sono stati sul libro paga della GS Mario Draghi (vicepresidente), Mario Monti (International Advisor) e Gianni Letta (membro dell’Advisory Board). E per non farsi mancare niente, anche Romano Prodi e Massimo Tononi (sottosegretario all’economia nel 2006) sono stati retribuiti a diverso titolo dalla GS.
Per non essere da meno, la J.P. Morgan si è limitata a un solo consulente: ma importante. L’ex ministro Linda Lanzillotta, moglie di Bassanini e co-fondatrice dell’API assieme a Rutelli, è stata infatti per 5 anni consulente di questa banca: il suo compito era spiegare ai futuri cravattari che avrebbero strangolati con i derivati i maggiori comuni italiani (a partire da Milano e Torino) i funzionamenti e le dinamiche degli enti locali italiani. Curiosamente, di questa attività di consulenza non c’è traccia nelle biografie dell’on. Lanzillotta: se ne ha notizia solo grazie alla puntata di “Report” già citata.

Ecco lo spessore dei detentori del debito finanziario globale: i Soprano della finanza mondiale, in tutti i sensi.

E adesso andiamo a guardare il debito pubblico italiano: sarà il caso di sapere a chi in questi tre anni di sacrifici abbiamo dato i soldi sottratti alla scuola, ai servizi sociali, ai posti di lavoro, alla sanità. A chi andranno i 45 miliardi di euro della manovra Berlusconi-Tremonti-Sacconi (leggi: Draghi-Trichet-Monti-Napolitano)? A chi paghiamo gli interessi sul debito pubblico?
Con estrema tempestività la Banca d’Italia ha appena pubblicato il Supplemento n. 42 – 12 agosto 2011: “Finanza pubblica, fabbisogno e debito” [scaricabile qui], dal quale traggo questi dati (tabella n. 5). Su un totale di 1.843.015 € di debito delle amministrazioni pubbliche (Stato ed enti locali), il debito riferito a titoli di vario tipo è di 1.548.601 €, così ripartito:

Banca d’Italia: 66.425 (4.29%) titoli_italia.jpg
Banche e Ist. Finanziari e monetari: 499.245 (32.23%)
Altri residenti (famiglie, e soc. non finanziarie): 176.868 (11.42%)
Detentori esteri: 806.063 (52.05%)
Totale: 1.548.601

Più della metà del debito pubblico italiano è in mano a quei signori di cui parlavamo sopra, o a società off shore con sede in paradisi fiscali – e che quindi non versano al fisco neanche quel 12.5% di imposta sulle rendite finanziarie, che diventerà 20%, ma solo dal prossimo gennaio (diamo tempo ai residenti di trasferire la sede all’estero). Se a questi aggiungiamo gli istituti finanziari di vario genere con sede in Italia, scopriamo che il debito pubblico è per quasi l’85% in mano a quegli stessi speculatori che in nome del libero mercato e della libertà d’impresa sono la causa dell’attuale crisi. Il messaggio vagamente terrorista, che parla di un debito per ogni italiano di 33.000 €, è palesemente falso.
Su questo debito, lo Stato paga in interessi una cifra compresa tra i 75 e gli 80 miliardi di euro all’anno. Più della metà dei quali (cioè un’intera finanziaria biennale come quella attuale) agli speculatori esteri. In linea di principio, il miglioramento del bilancio e le maggiori entrate fiscali dovrebbero far diminuire questa voce di spesa, che è la vera origine dei dissestati bilanci nazionali.
Purtroppo non è così.
Se è infatti vero che dovrebbero diminuire i titoli sui quali lo Stato paga gli interessi, è altrettanto vero che gli interessi sono destinati a salire perché è in forte ascesa il tasso d’interesse di riferimento, l’Euribor (acronimo di EURo Inter Bank Offered Rate, tasso interbancario di offerta in euro) – sul quale, per inciso, vi calcolano il mutuo sulla casa. Che era al 0.70% (trimestrale) il 12.12.2009, all’1.01% al 12.12.2010, ed è oggi, giorno di ferragosto del 2011, all’1.54. EuriborChart.jpgMentre per il tasso della BCE, attualmente all’1.50%, si prevedono ulteriori aumenti che dovrebbero portarlo al 2% al nuovo anno, e al 3% nell’anno successivo. In altri termini, siamo usciti da quel felice ma momentaneo periodo in cui i tassi di interesse erano al loro minimo storico. Come mostra il flusso dei loro andamenti [a sinistra], un tasso d’interesse al 5% non è in alcun modo un’ipotesi catastrofista: è una possibilità reale.

Di nuovo, siamo in presenza di una dinamica che vorrebbe essere la cura di quella malattia che essa in realtà è: i provvedimenti presi aiutano le dinamiche del capitalismo finanziario, che sono all’origine della crisi – per meglio dire, sono esse stesse la crisi.

Questo rende piuttosto surreale il dibattito su una finanziaria “giusta”, o “alternativa”, o “equa”: se non nei termini di una disputa su chi – Tremonti? Draghi-Monti? Bersani? – si candida a gestire i diktat della BCE.
Intendiamoci: sarebbe certo apprezzabile una imposta patrimoniale. A condizione di sottolineare che non si tratta di “prendere ai ricchi”, perché la ricchezza che, attraverso l’imposta sui patrimoni, si andrebbe a prelevare è prodotta dal lavoro vivo, dalla cooperazione sociale (vogliamo dire, se la cosa non sembra troppo marxista: dal General Intellect messo al lavoro?) in origine, e poi espropriata dal galantuomini che intraprendono e convertita in beni e patrimoni. Ma una volta prelevata questa ricchezza che il capitale sottrae al lavoro vivo, materiale o immateriale che sia: che ne facciamo? La togliamo a Tronchetti Provera, o a Berlusconi, o alla famiglia Agnelli, per darla… alla Goldman Sachs? Alla JP Morgan? Alle finanziarie off shore?
E soprattutto: togliamo ai ricchi per dare ai ricchissimi, allo scopo di aiutare il capitale finanziario a galleggiare sull’onda di una crisi che è la vera natura del capitale? Il capitale, ricordava ancora il vecchio Marx, non “è in crisi”: il capitale “è crisi”, e come tale genera quelle condizioni di instabilità che sono la ragione stessa della propria rendita. Come la precarizzazione dell’esistenza, ancor più che del lavoro: che non è un incidente di percorso, o una momentanea stortura, ma l’essenza stessa del capitale. I provvedimenti che la BCE ha imposto all’Italia non faranno che accrescere quei tratti della vita e del lavoro – materiale o immateriale, intellettuale o manuale che sia – che sembrano ormai caratterizzare l’esistenza di ognuno: «totale sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita, indistinzione tra produzione e riproduzione, centralità sempre più accertata del lavoro di cura, precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro salariato, integrazione dentro il lavoro salariato di forme di produzione non retribuite e che eccedono il tempo di lavoro, difficoltà a mantenere spazi di autodeterminazione, di soggettivazione e di messa in comune delle esperienze, impossibilità quasi totale a mantenere un senso prospettico, aperto, del proprio tempo di vita ecc., sembrano ormai caratterizzare la vita di ognuno, sullo sfondo del nuovo regime biopolitico di accumulazione» (traggo questo elenco dal libro di Cristina Morini Per amore o per forza]. È bene essere chiari: non c’è generazione, classe, genere, ceto, segmento della società che sia immune da questa cartolarizzazione delle speranze, delle aspettative, dell’intera vita, nella quale ciò che dovrebbe essere un diritto diventa una virtualità, un’opzione, nel migliore dei casi l’obiettivo di una lotta. (grassetto nostro)

den_plirono.jpgCosì stando le cose, che fare?
Una cosa molto semplice: NON PAGARE. Come in Grecia, assumere la parola d’ordine DEN PLIRONO – non voglio pagare! – come conseguenza politica della parola d’ordine europea del 2008 (c’è Europa ed Europa!) Noi la crisi non la paghiamo.
Un governo degno di questo nome – un governo che esercitasse quella “primazia della politica” con la quale Monti fa i gargarismi – dovrebbe (magari di concerto con la Spagna, che è nelle stesse condizioni dell’Italia) porsi nei confronti dei creditori, che giocano in borsa sul rischio del default al mattino, e al pomeriggio invocano politiche che scongiurino il default, in modo molto duro: o il default unilaterale dell’Italia e della Spagna (come ha già fatto l’Islanda; come ha fatto dieci anni fa l’Argentina), o il dimezzamento del debito, e dei conseguenti tassi di interesse, attraverso la conversione dei titoli pubblici – a partire dai derivati – in titoli emessi dalla Banca Centrale Europea e garantiti da un tasso d’interesse fissato a livello politico. Italia e Spagna, a differenza della Grecia e dell’Islanda, sono too big to fail, troppo grandi per fallire: questa estrema debolezza è la vera forza dei due paesi.
Chiariamo un punto: quando Tremonti dice che «se ci fossero stati gli Eurobond questa finanziaria non sarebbe stata necessaria», dice, come sempre, una mezza verità. O meglio: incarta una menzogna in un foglio di verità. Nel documento del Consiglio Europeo che istituiva il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (16-17 dicembre 2010) era infatti scritto a chiare lettere che «Si adegueranno le regole per prevedere la partecipazione dei creditori del settore privato in base a valutazioni caso per caso, in linea con le politiche dell’FMI. […] Per i paesi considerati solvibili in seguito all’analisi di sostenibilità del debito condotta dalla Commissione e dall’FMI di concerto con la BCE, i creditori del settore privato saranno incoraggiati a mantenere le rispettive esposizioni secondo le norme internazionali e pienamente in linea con le prassi dell’FMI». La prassi del Fondo Monetario Internazionale, com’è noto, è quella di concedere prestiti in cambio dell’attuazione di misure economiche e sociali che distruggono lo stato sociale e concedono mano libera al mercato: che è quello che, anche senza gli Eurobond, è stato fatto ieri con la Grecia, oggi con l’Italia (e domani sarà fatto con Spagna e Portogallo).
Cosa diversa sarebbe, invece, l’uso dei titoli europei governati non dal mercato ma dalla politica; la cui condizione di esistenza non è lo strangolamento dello stato sociale, ma la restituzione della cravatta al collo dei creditori – cioè delle Società d’Intermediazione Finanziaria che controllano i flussi creditizi mondiali.

Ma è possibile che un Monti, un Bersani, un Rutelli si facciano portatori della parola d’ordine del “diritto all’insolvenza”? In tutta evidenza, no. È possibile che questa parola d’ordine venga fatta propria da quei personaggi che, a torto o a ragione, sono investiti dalle aspettative di un radicale rinnovamento politico caciocavallo.jpg – Vendola e Landini, per capirci? Chissà. Forse. Finora, non è successo.
Ma è altrettanto certo che i movimenti non possono rimanere appesi a caciocavalleggiare in attesa di sapere se questo o quel possibile o virtuale leader di una sinistra cosiddetta radicale dirà “sacrifici” piuttosto che “default”. Le parole d’ordine, dopo tutto, sono fatte per essere imposte: con le lotte, se occorre.
Ed è altrettanto certo che le parole, da un anno a questa parte, hanno preso il valore e il peso delle pietre: dopo gli scontri in Val di Susa (ma ancor prima: dopo le giornate del dicembre 2010) è chiaro a tutti che espressioni come “acqua e aria sono beni comuni”, o anche: “cultura e istruzione sono beni comuni come l’acqua e la natura”, hanno un senso solo se si è disposti a difendere i beni comuni – meglio: i beni che afferiscono non a Tizio o a Caio, non al singolo né allo Stato, ma al comune – con la necessaria radicalità. Con una certezza: se è vero che non bisognerebbe mai rinchiudere le idee dentro un casco, è ancor più vero che nelle situazioni di pericolo il casco ti salva la vita. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

«Stanno riordinando le sdraio sulla tolda del Titanic», disse nel suo ultimo discorso il leader nero Jeriko One: prendiamone atto, e regoliamoci di conseguenza. Nella consapevolezza che ai viaggiatori di terza classe non basterà conquistare la tolda: dovranno impossessarsi delle scialuppe, e lasciare che ad affondare col Titanic siano i signori in abito da sera, con i loro conti nelle banche in terraferma e l’insopportabile My heart will go on come lamento funebre.
Ognuno ha le sirene che si merita, dopo tutto – e quello che accade ai nostri cuori, sono cazzi nostri.

http://www.carmillaonline.com/archives/2011/08/003994.html

Girolamo De Michele, nato a Taranto, vive a Ferrara. È redattore di Carmilla, e-magazine diretto da Valerio Evangelisti, tra i più seguiti nel web (www.carmillaonline.com). Scrive di filosofia e critica letteraria su diversi giornali, e ha pubblicato saggi di filosofia e ricerca storica. Per Einaudi Stile libero sono usciti i suoi romanzi Tre uomini paradossali (2004), Scirocco (2005) e La visione del cieco (2008). I suoi romanzi sono scaricabili in copyleft su www.iquindici.org

La fine delle utopie

Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta,
ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta:
qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore
e insegue una maturità, si è sposato, fa carriera ed è una morte un po’ peggiore…

Cadon come foglie o gli ubriachi sulle strade che hanno scelto,
delle rabbie antiche non rimane che una frase o qualche gesto,
non so se scusano il passato per giovinezza o per errore,
non so se ancora desto in loro, se m’ incontrano per forza, la curiosità o il timore…

Io ora mi alzo tardi tutti i giorni, tiro sempre a far mattino,
le carte poi il caffè della stazione per neutralizzare il vino,
ma non ho scuse da portare, non dico più d’esser poeta,
non ho utopie da realizzare: stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta…

Si alza sempre lenta come un tempo l’alba magica in collina,
ma non provo più quando la guardo quello che provavo prima.
Ladri e profeti di futuro mi hanno portato via parecchio,
il giorno è sempre un po’ più oscuro, sarà forse perché è storia, sarà forse perché invecchio…

Ma le strade sono piene di una rabbia che ogni giorno urla più forte,
son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte.
Dimmi se son da lapidare se mi nascondo sempre più,
ma ognuno ha la sua pietra pronta e la prima, non negare, me la tireresti tu…

Sono più famoso che in quel tempo quando tu mi conoscevi,
non più amici, ho un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi
e forse ridono di me, ma in fondo ho la coscienza pura,
non rider tu se dico questo, ride chi ha nel cuore l’odio e nella mente la paura…

Ma non devi credere che questo abbia cambiato la mia vita,
è una cosa piccola di ieri che domani è già finita.
Son sempre qui a vivermi addosso, ho dai miei giorni quanto basta,
ho dalla gloria quel che posso, cioè qualcosa che andrà presto, quasi come i soldi in tasca…

Non lo crederesti ho quasi chiuso tutti gli usci all’avventura,
non perché metterò la testa a posto, ma per noia o per paura.
Non passo notti disperate su quel che ho fatto o quel che ho avuto:
le cose andate sono andate ed ho per unico rimorso le occasioni che ho perduto…

Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta,
ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta:
qualcuno è andato per formarsi, chi per seguire la ragione,
chi perché stanco di giocare, bere il vino, sputtanarsi ed è una morte un po’ peggiore…

Altri testi su: http://www.angolotesti.it/F/testi_canzoni_francesco_guccini_1655/testo_canzone_canzone_delle_osterie_di_fuori_porta_42978.html
Tutto su Francesco Guccini: http://www.musictory.it/musica/Francesco+Guccini

L’asino selvatico e l’asino domestico

Un asino selvatico, vedendo un asino domestico in un bel pascolo solatìo, gli si avvicinò per dirgli che era fortunato, così bello grasso e con quel pascolo a disposizione. Ma quando, più tardi, lo vide, carico di bagagli, seguito dall’asinaio che lo pigliava a randellate, esclamò: « No, non ti considero più fortunato, ora, perché vedo che solo a prezzo di gravi pene tu godi la tua ricchezza .

testo greco

Decadence

Venerdì 18 novembre a partire dalle ore 22.30 il Decadence ritorna sotto le Due Torri in pieno centro a Bologna nelle ex prigioni di Palazzo Pepoli, lo spazio che attualmente ospita il Vip Club in via Sampieri 3.

Dopo le disavventure generate dall’atteggiamento dell’Arci Bologna che aveva cancellato il Decadence dalla programmazione del Millenium e da tutti i circoli Arci della città – lasciando disattese le richieste di spiegazioni di oltre 7000 sostenitori che si sono mobilitati spontaneamente sui social network – gli organizzatori non si sono lasciati demoralizzare e dopo aver portato avanti la serata in due location esclusive fuori Bologna, a novembre ritornano nella città che ha visto nascere e crescere il grande appuntamento.

Il Decadence era stato ospitato dal Link il 7 ottobre, dove si è svolto il grande Galà in onore della diversità, evento di sostegno al triste episodio di esclusione arbitraria voluta dall’Arci Bologna. La serata aveva visto oltre 1600 partecipanti esprimere solidarietà alla causa Decadence e si era svolto nella totale serenità che accompagna da sempre l’iniziativa. In seguito, c’è stato l’appuntamento dedicato a Pierpaolo Pasolini del 21 ottobre presso Villa Edwards a Ferrara, antica dimora nobiliare, che in base a recenti studi sembrerebbe corrispondere alla descrizione della decantata Delizia Estense di Quartesana, originaria del 1400. L’ultimo appuntamento è stato il 31 ottobre nel pieno centro storico di Venezia, all’interno del prestigioso Teatro San Gallo dietro Piazza San Marco, un’occasione veramente speciale se si pensa che il capoluogo veneto dove è quasi impossibile ottenere delle location per eventi al di fuori del contesto di carnevale e capodanno, ha accolto con grande
entusiasmo l’evento poco apprezzato dall’Arci.

Gli organizzatori confermano il format itinerante dell’appuntamento che sta girando l’Italia e l’Europa (il 6 gennaio l’evento si sposterà a Rovigo) ma prenderanno in considerazione l’ipotesi di restituire al Decadence una base felsinea – se tutto andrà bene proprio in via Sampieri – per accontentare il grande pubblico di partecipanti e fan emiliani. A fare da cornice al prossimo appuntamento sarà dunque una location storica bolognese, valutata estremamente adatta alle esigenze della serata sia per la posizione che per le qualità estetiche dello spazio. “Abbiamo finalmente trovato una nuova location” dichiara Carlo Valentine, direttore artistico del Decadence e prosegue: “e se il riscontro sarà positivo, questa potrebbe diventare la nuova sede stabile del Decadence. Si trova all’interno delle ex prigioni di Palazzo Pepoli. Attualmente ospita il Vip Club?ma venerdì 18 apparirà ai vostri occhi come non lo avete mai visto! In occasione del Decadence saranno aperte tutte le stanze e i pa
rtecipanti potranno divertirsi?ad esplorare i tre i piani e scoprire due sale da ballo dove, un connubio di interni ?tra moderno ed antico e i soffitti a volta richiamano una “vecchia location” a noi nota; un dungeon con bar e musica in sottofondo; tante aree diverse ?per soddisfare tutti i gusti; corridoi; scalinate; sali e scendi tutti da esplorare”.

Il programma del 18 novembre raccoglie alle armi tutti gli artisti che hanno visto crescere l’appuntamento felsineo e promette di continuare con lo stesso stile e la forza di sempre, accompagnandosi da un claim che ben descrive l’evento: “Un’estrema espressione di eleganza e diversità”.

Ingresso: 13 euro (in lista), 15 euro (intero).

Info: 3387736242 – 3491281461

Tessera: V (costo: 5 euro, valida fino al 31.12.12)

Come arrivare: Via Sampieri si trova in pieno centro a Bologna, proprio sotto le Due Torri. Dunque si può arrivare tranquillamente a piedi o in autobus. A chi desidera arrivare in macchina consigliamo di parcheggiare presso il parcheggio di P.zza VIII Agosto dove potrete usufruire del 30% di sconto obliterando il ticket prima di uscire dal locale. La distanza a piedi è di circa 750 metri.

Info:

www.decadence.cc

Trame

Siamo in una situazione vista tante volte al cinema: una pistola puntata alla tempia che ci costringe a ubbidire; nei film di una volta arrivavano “i nostri”, nelle versioni moderne, fatto il lavoro, si viene uccisi.

Trasferendo la situazione dal debito privato a quello pubblico o “sovrano” , come si preferisce chiamarlo oggi, forse sarebbe opportuno chiarire ulteriormente (come abbiamo fatto notare in alcuni post precedenti) che è una pura invenzione.

Funziona, come tutti gli strumenti di controllo, solo se ci si crede (e in grazia dei poteri e dei privilegi conferiti ai sacerdoti del culto, ovviamente).

La preghiera

Presentazione del libro”Le mie migliori barzellette ebraiche”
Ferrara 9 maggio 2011
Lo presenta Bruno Gambarotta (a destra)

Un ebreo ortodosso compra due belle pappagalline, che però hanno un grosso difetto: non fanno che ripetere” Siamo delle puttane, siamo delle puttane”.

L’ebreo sconvolto si rivolge al rabbino. “Non ti preoccupare figliolo, portale da me. Io ho due pappagalli molto religiosi che pregano tutto il tempo. Vedrai che accanto a loro le tue pappagalline smetteranno di comportarsi così”.

Detto fatto. Le pappagalline vengono portate nella casa del rabbino, ma però continuano a ripetere ” Siamo delle puttane, siamo delle puttane”.

Al che uno dei due pappagalli smette di pregare e si rivolge all’altro: “Yankel, hai visto? Il Signore ci ha finalmente ascoltato!”.

in Daniel Vogelmann, Le mie migliori barzellette ebraiche, p.42