Di Weininger e del suo “Sesso e carattere” abbiamo già parlato, per cui qui citiamo solo Carlo Michelstaedter, classe 1887 , uno dei geni dimenticati del nostro primissimo novecento. Pittore, filosofo e poeta, “La persuasione e la rettorica” si può considerare ad oggi il suo capolavoro maggiore, ma anche in questo caso ci si trova davanti ad una produzione tutt’altro che ridotta, se si considera l’età che il pensatore friulano aveva quando decise di togliersi la vita con un colpo di pistola nella medesima città di nascita (altri due dettagli, peraltro, che sembrano legarlo misteriosamente a Weininger) . Sul gesto scrisse Giovanni Papini che si trattava di un “suicidio metafisico”, prova della straordinaria coerenza del goriziano con “le conseguenze delle sue idee”. Stupefacenti i suoi versi, ancora sottovalutato il suo pensiero, figlio diretto di quello Schopenhaueriano e caratterizzato da un estremo solipsismo. Giocando con contrapposizioni giudicate insanabili per mezzo della sola dialettica, Michelstaedter definisce la retorica una non-filosofia che rende gli uomini schiavi d’una persuasione illusoria. Illusione è il soddisfacimento dei propri bisogni, illusione lo stesso perseguimento d’un ideale. Ecco perché per il giovane Carlo la realizzazione dell’uomo consiste esclusivamente nel “possesso di sé stesso”, mai nella realizzazione esteriore. Ed è un possesso che va conquistato “attimo per attimo” e che non sembra mai definitivo.