Pensiero d’artista

L’arte che rassicura e che dà solo piacevolezza non serve a nulla . E’ solo un rifiuto e come tale destinato alla spazzatura. Anche l’arte “sociale” , quella cioè che si prefigge di voler essere un mezzo di protesta o di denuncia, alla fine è anch’essa poca cosa quando è troppo realistica e descrittiva,  perché non raggiunge mai lo scopo che si prefigge per quanto apprezzabile sia lo sforzo di chi la fa e di chi la guarda. L’arte invece che può rappresentare un motore di cambiamento  è quella che parla direttamente all’individuo, come soggetto di sentimenti, di paure, di angosce, di emozioni. L’artista , inutile girarci attorno, riesce a parlare solo di se stesso  ed è parlando di sé che può essere utile agli altri,  facendo loro da specchio.  L’arte visiva poi parla attraverso le immagini che, come sappiamo, arrivano molto prima delle parole a toccare la parte più profonda di noi  ed è per questo che fa discutere, che divide e che viene spesso anche incompresa. L’arte perché possa stimolare la riflessione e il pensiero  deve essere un po’ pungente, anche un po’ sfacciata (senza però  essere volgare) e non deve necessariamente essere bella e tanto meno estasiante.  Non è vero quindi  che l’arte contemporanea sia tutta brutta e insignificante come la definiscono tanti suoi detrattori. C’è anche qualcosa di molto bello e innovativo che va salvato, in mezzo a tanto squallore, non c’è dubbio.

Paola Paganelli

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Non fu colpa di Garibaldi

Giorgio Ruffolo (1926) è stato segretario generale della Programmazione economica negli anni Sessanta e ministro dell’Ambiente dal 1987 al 1992. Il brano che segue è tratto dal libro Quando l’Italia era una superpotenza, edito da Einaudi nel 2004.

All’inizio del Millennio il Mezzogiorno d’Italia, dal punto di vista della prosperità economica, stava nettamente in testa. Sarebbe stato del tutto naturale che fossero le regioni italiane più vicine all’Oriente e alle sponde dell’Africa settentrionale a trasmettere al resto della penisola che si risvegliava demograficamente ed economicamente gli impulsi del mondo sviluppato, arabo e bizantino. La Sicilia, poi, faceva parte integrante di quel mondo. Palermo era diventata la metropoli dell’islamismo mediterraneo, la più ricca, la più fiorente, la più colta. Invece quello slancio si spense presto. Già alle soglie del Duecento i rapporti tra le Repubbliche del Nord e il Regno del Sud si erano rovesciati.

Di chi la colpa? Potremmo dire, con Amleto, “il re ne ha colpa”. I re normanni non hanno soltanto stroncato la potenza di Amalfi, ma hanno soffocato le nascenti autonomie delle città, costruito le maglie di un rigido ordine feudale, ribadito la preminenza assoluta dell’agricoltura e della pastorizia sulle manifatture e sui commerci. E’ vero che, specie nella parte longobarda, interna, del paese preesisteva al dominio dei cavalieri feudali normanni un’aristocrazia terriera dominante. Non ci fu, dunque, nel Sud, a differenza del Nord, una vera e propria sostituzione di classe dirigente. Ma i Normanni, e poi i loro successori Svevi e Angioini, diedero a quella aristocrazia l’armatura di una solida Monarchia guerriera, bloccando ogni possibilità di sviluppo delle timide borghesie cittadine nascenti.

In un certo senso i Normanni cancellarono nel Sud l’anomalia italiana delle Repubbliche libere, riadeguando l’Italia all’Europa del nord. Ma in questo esagerarono, scegliendo decisamente la via di un’economia estensiva, agricola e pastorale, che faceva del Sud il grande fornitore di grano del Nord, da cui importava i manufatti. Ne traevano grandi vantaggi l’aristocrazia e la monarchia: le rendite fondiarie la prima, le entrate fiscali provenienti da quella e dai dazi sull’esportazione la seconda. Rendite e imposte affluivano copiose alla capitale, a Napoli, dove si concentrava un’aristocrazia oziosa e un proletariato turbolento e parassitario.

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Favorire l’emergenza?

Sebbene la nostra vita quotidiana e i giornali siano pieni di «eventi» ed «emergenze», l’impressione dominante dei cittadini dei paesi industrializzatiè che non accada più nulla: la realtà è fissata e stabile. L’assenza di emergenza è la conseguenza di un mondo dove la politica, la finanza e la cultura sono state incapsulate in parametri prestabiliti. Il problema non è soltanto che questi parametri siano stati decisi in precedenza, ma piuttosto che sono stati concepiti per salvarci dalle emergenze, da tutto ciò che emerge come differente

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In un mondo di emergenze continue in realtà non accade mai niente

di Gianni Vattimo e Santiago Zabala – 14/07/2015 Fonte: La Stampa

Pensando al bene comune

La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove
crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura.

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