La grande bellezza

Basta farsi un giro per Roma. Il centro della città (a partire da Termini) è interamente occupato da una fauna dickensiana: orientali (cinesi, pakistani e indiani), mediorientali, nordafricani, sub sahariani, nuovi poveri. A parte i rari casi di quartieri di pregio (preda di politici, mestatori e cravattari) gli Italiani tendono ad allontanarsi dalle zone centrali della città; schiantati dalla disoccupazione, dalle tasse, dal malgoverno cittadino, essi rifluiscono lentamente verso le periferie o nei paeselli della cintura prossima alla metropoli (Ostia, Guidonia, Bracciano et cetera). Alcuni migrano in provincia.
Trastevere, e numerose zone centrali sino agli anni Settanta potevano ancora definirsi popolari: ora sono connubi atroci fra nuovi ricchi, ospitati negli aviti edifici patrizi, ed economia migrante, da mordi e fuggi (fast food improvvisati, ciarpame cinese all’ingrosso, folle bigiotteria, orribili bancarelle di stupidaggini turistiche). Negozi e rivendite italiane sono state fatte a pezzi. A Piazza Vittorio e dintorni sono semplicemente scomparse. Le mafie d’importazione controllano larghe fette di territorio e la forza lavoro: sono loro a stabilire chi lavora e chi no; in alcuni esercizi commerciali, pure di notevoli dimensioni, gli italiani si sono volatilizzati. Le polizie nazionali sembrano adagiarsi in una sorveglianza a distanza: vi vedo e so, basta che non fate casino. Le auto della polizia locale, invece, per dirla con Gadda, “stazzioneno”, a distanza: basta che non fate casino, sembrano avvertire pure loro.
Solo quando si tratta di italici i poliziotti locali prendono d’acido: recentemente sono entrati nel mio condominio perché chiamati da un inquilino che si lamentava dei fumi d’una caldaia a condensazione. Sono entrati placidi, hanno contemplato oziosamente le caldaie dei balconi prospicienti; quindi, preso atto dell’inutilità delle proteste del tizio, hanno elevato tre o quattro multe: le caldaie contemplate, infatti, non erano a norma. In base alla legge xyz dell’anno zyx. La prima volta che li si vedeva in zona in trent’anni; e anche l’ultima, si spera: trecentocinquanta euri di multa! L’ordine è stato ristabilito. Io mi son salvato: il mio balcone era prospetticamente fuori dalla loro vista da falchi.
Il ceto medio scappa a gambe levate. Alcuni di loro hanno risparmi e risorse e se la caveranno; agli altri non resta che predisporre una (quanto più possibile) dolce discesa nelle classi inferiori, in abitazioni più piccole, con ambizioni più modeste, nella fascia più lontana dal cuore pulsante della città, una sorta di Bisanzio putrescente, una Roma senza papa, svuotata di senso e tradizione, che Guido Morselli per primo intuì con spirito profetico e sincero dolore.
Il fenomeno è lento per l’occhio, ma un buon fenomenologo (stavo per dire: un flâneur, un passeggiatore, un osservatore attento della propria città) lo avverte con forza subitanea.
Il migrante sale la scala sociale, l’Italiano la discende; al migrante va bene tutto, sopporta l’insopportabile (ciò che noi, oggi, non riusciamo più a sopportare), se ne frega della capitale d’Italia e del mondo. Fosse per lui il Colosseo potrebbe sprofondare: chiese, affreschi, antichi laterizi, angoli ottocenteschi a lui dicono nulla; un migrante si sciacqua presso fontane secolari, imbratta targhe settecentesche, caca negli angoli, non timbra biglietti, abbandona i resti del pranzo all’angolo delle sedi vescovili: questa non è la sua patria, sente che non la diventerà mai; è solo un’opportunità per fare soldi, opportunità che, peraltro, la Stato italiano, incredibilmente, gli allunga con incomprensibile (per lui) munificenza, sotto forma di norme e sgravi fiscali vantaggiosissimi (mentre il bottegaio italianuzzo si districa fra bollette, multe e studi di settore omicidiali).
Il tessuto umano si deteriora, la sicurezza, non più garantita da uno strato sociale omogeneo e coeso, si sfilaccia; ognuno campa alla giornata; si forma un proletariato inaudito e menefreghista (migranti, nuovi poveri italiani, disoccupati, piccoli criminali, studenti perdigiorno, laureati specializzati a trecentocinquanta al mese) facilmente addomesticabile (una retata ogni tanto, senza calcare la mano).
L’Italiano medio cerca di resistere. Pensioni e stipendi di genitori e nonni consentono ancora di scavare trincee (grassetto nostro), ma fra qualche anno? Per ora l’italianuzzo, come detto, si limita ad allontanarsi dai centri vitali delle città, ripiegando sulla periferia, sul suburbio o sull’hinterland; i più astuti fuggono verso la campagna e la provincia degli antenati ripercorrendo a ritroso, come in una rotta  catastrofica, i cammini sociali dei propri ascendenti – cammini che, cinquant’anni fa, erano chiari e ricchi di laboriosa speranza.
Dall’inurbazione alla disurbanizzazione.

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Elogio di Giovanni Gentile

Chi avrebbe detto che io, che ho passato tutta la mia vita professionale a studiare le ipotesi di riforma della scuola secondaria superiore, mi sarei ritrovato a condividere il pensiero di Diego Fusaro che ne fa l’elogio!

Il fatto è che (e qui dissento dal Fusaro-Preve pensiero) non tutti i sessantottini parlavano di cambiare il mondo per non studiare (anche se poi credo anch’io che per la maggioranza fosse così), volevano solo studiare ANCHE altre cose.

Ad ogni modo, tornando a Gentile “ci ha lasciato un dono meraviglioso, per il quale dovremmo essergli eternamente grati: il Liceo classico. Come spesso accade, ci si accorge dell’importanza di una realtà a cui siamo abituati solo allorché essa comincia a venire meno, come accade quando manca l’aria: così è per il Liceo classico, la migliore scuola del mondo, concepita dal Gentile ministro dell’Istruzione, fautore della migliore riforma della scuola di cui il nostro Paese abbia ad oggi beneficiato; riforma, certo, discutibile finché si vuole, se si considera che già Gramsci, non senza buone ragioni, la accusava di classismo. Riforma discutibile finché si vuole, sì, ma pur sempre la migliore di cui questo Paese abbia beneficiato.
Resta, d’altro canto, il fatto che il Liceo classico ha reso possibile la superiorità culturale di intere generazioni di liceali italiani rispetto ai loro coetanei di tutto il mondo (provate ad andare in Germania o in Francia per accorgervene). Con l’insegnamento del latino e del greco, ma poi anche con il nobile progetto di formare uomini in senso pieno, unendo tra loro la paideia greca, la raison illuministica e la Bildung romantica, il liceo classico ideato da Gentile resta un unicum nel panorama mondiale e oggi, possiamo dirlo, una vera e propria forma di resistenza al generalizzato “cretinismo economico” (Gramsci) che la cosiddetta mondializzazione sta esportando in ogni angolo del pianeta: cretinismo in forza del quale sempre meno si pensa e sempre più si calcola, in un desolante paesaggio in cui il greco e il latino, la filosofia e l’arte sono liquidati come “inutili” (sic!) dalla stolida ragione calcolatoria che pretende di essere la sola sorgente di senso.

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