E del resto l’alienazione della parola da un’attività concreta se libera il fruttarolo dalla maledizione delle cassette di legno, la rinchiude nella privazione di senso del pensiero unico, come dimostra il fatto che chiunque di noi avesse voglia e disponibilità di pagare le quote di una qualche associazione camerale sarebbe tout court imprenditore anche senza fare nulla.
Una volta, quando ero ragazzo, esistevano gli albergatori, i ristoratori, i commercianti, i baristi, i fruttivendoli, i tabaccai, i meccanici, i gelatai, i tassisti, i costruttori e via dicendo: era un mondo dove la funzione, ovvero il lavoro nella sua concretezza, generava la definizione. Poi al di là di un limes invisibile e tuttavia chiarissimo esistevano industriali, capitani di industria e industrialotti a seconda dei casi. La parola imprenditore ( vedi nota) era quasi sconosciuta al di fuori della letteratura economica e soprattutto non era usata in maniera talmente vaga e onnicomprensiva che quando senti parlare di imprenditore non sai se si tratta di un salumiere o di un creatore di software, del padroncino di un call center, del proprietario di un bar o di una media industria.
La mutazione del linguaggio si è avuta quando il lavoro – non solo quello in fabbrica – ha cominciato ad essere svalutato in favore dei fattori…
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Al di là delle dotte etimologie, io penso che la trasformazione più evidente si riassuma in (im)prenditore; “magnaschei” direbbe Balasso
Gli slogan fiabeschi sul capitalismo e sul mercato coprono perciò una realtà molto più squallida, che vede i mitici e celebrati “imprenditori” sempre pronti a rubare nel piattino del cieco. L’individualismo avventuroso dell’imprenditore si rivela un altro falso propagandistico, una leggenda dietro la quale l’associazionismo imprenditoriale si esprime come una vera e propria forma di criminalità organizzata dei colletti bianchi; una criminalità che è ovviamente allevata e protetta dai governi.
estratto da https://terzapaginainfo.wordpress.com/2015/05/23/pensioni-e-scuola/