E per difetto di un’equa distribuzione della ricchezza, d’ un più giusto riparto dei prodotti, d’un aumento progressivo della cifra dei consumatori, il capitale stesso si svia dal suo vero scopo economico, s’immobilizza in parte nelle mani dei pochi invece di spandersi tutto nella circolazione, si dirige verso la produzione d’oggetti superflui, di lusso, di bisogni fittizi, invece di concentrarsi sulla produzione degli oggetti di prima necessità per la vita, o si avventura in pericolose e spesso immorali speculazioni.
Oggi il “capitale” – e questa è la piaga della Società economica attuale – è despota del lavoro. Delle tre classi che oggi formano, economicamente, la Società – “capitalisti”, cioè detentori dei mezzi o strumenti del lavoro, terre, fattorie, numerario, materie prime – imprenditori, capi-lavoro, commercianti, che rappresentano o dovrebbero rappresentare l’intelletto – e operai che rappresentano il lavoro manuale – la prima, sola, è padrona del campo, padrona di promuovere, indugiare, accelerare, dirigere verso certi fini di lavoro. E la sua parte negli utili del lavoro, nel valore della produzione, è comparativamente determinata: la locazione degli strumenti del lavoro non varia se non tra limiti noti e ristretti; e il tempo, fino a un certo segno almeno, è suo, non in balìa dell’assoluto bisogno. La parte dei secondi è incerta, dipendente dal loro intelletto, dalla loro attività, ma segnatamente dalle circostanze, dallo sviluppo maggiore o minore della concorrenza e dal rifluire o ritirarsi, in conseguenza d’eventi non calcolabili, dei capitali.
La parte degli ultimi, degli “operai”, è il “salario”, determinato “anteriormente” al lavoro e senza riguardo agli utili maggiori o minori che usciranno dall’ impresa; e i limiti fra i quali il salario si aggira, sono determinati dalla relazione che esiste fra il lavoro offerto e il lavoro richiesto, in altri termini, tra la “popolazione” degli operai ed il “capitale». Ora la prima tendendo all’aumento e ad un aumento che supera generalmente, non fosse che di poco, l’aumento del secondo, il salario tende, dove altre cause non si interpongano, a scendere.
Giuseppe Mazzini (I doveri dell’uomo, 1860)
estratto da http://www.appelloalpopolo.it/?p=15400
Abbiamo già fatto notare come ormai resti solo la storia a narrarci la verità sul nostro tempo.
E’ di oggi la concentrazione editoriale di cui l’articolista dice: “Adesso non ci resta che attenderci che il premier ci confermi che si tratta di un nuovo successo dell’amore che guida i nostri atti, non ci resta che guardare al nuovo vincolo come a un segno di pace tra tanti conflitti: il giornale unico è stato creato proprio per combinare allarmi, paure, minacce, con le rassicurazioni che viviamo nel migliore di mondi possibile, a patto di accontentarci della verità che ci somministrano, come un necessario sonnifero.”
Sindrome che, in tempi di globalizzazione, riguarda tutto l’occidente: “Se l’Irlanda può essere esempio di qualcosa è semmai proprio quello uno iato quasi incolmabile fra narrazione economica e realtà, un tratto comune a tutto l’occidente oligarchico e strumento principale per tenere in piedi in qualche modo il disegno di riduzione della democrazia, illudendo l’uomo della strada che la crisi non è consustanziale alla struttura economica del capitalismo finanziario, ma un fatto passeggero e che occorre solo rimboccarsi un po’ le maniche per tornare ai livelli precedenti”.
https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2016/03/03/la-lezione-irlandese/