La coscrizione dimenticata

di LUCIANO DEL VECCHIO (ARS Emilia-Romagna)

Alla fine degli anni ’90, il ceto politico, dopo aver “riformato” in senso privatistico e aziendalistico i settori strategici dell’economia italiana, avviò anche il processo di riforma generale delle forze armate con la legge 14 novembre 2000 n. 331.

Nella relazione che accompagnava il disegno di legge si affermava: «Le forze militari […] oltre al tradizionale e perdurante ruolo di difesa della sovranità ed integrità nazionale, sono chiamate ad una funzione più dinamica per garantire la stabilità e la sicurezza collettiva con operazioni di gestione delle crisi e di supporto della pace. Ciò implica la necessità di trasformare lo strumento militare dalla sua configurazione statica ad una più dinamica di proiezione esterna, con più rapidi tempi di risposta all’insorgere dell’esigenza ed una più completa e complessa preparazione professionale. Il modello interamente volontario è quello che meglio risponde a questa nuova connotazione e funzione dello strumento militare. (…) Non si tratta, peraltro, di abolire la coscrizione obbligatoria, ma solo di prevederla in casi eccezionali, quali quelli di guerra o di crisi di particolare rilevanza, che richiedano interventi organici.»

In quegli anni un’insistente campagna di stampa, accogliendo strumentalmente le tesi dei movimenti pacifisti e antimilitaristi, descrisse l’esercito popolare di leva, fino allora ovvia e indiscussa istituzione nazionale, come un organismo vessatorio della libertà personale, oppure inutile perché sottraeva ai giovani tempo al lavoro o agli studi, e quindi da sciogliere il prima possibile. La società italiana fu gradualmente pilotata a sentire avversione contro la leva obbligatoria e convinta della necessità di abolire un dovere che i padri costituenti, con la nascita della Repubblica, avevano riaffermato nell’articolo 52 della Costituzione.

Durante il secondo governo Berlusconi (11/6/2001-23/4/2005) fu emanata la legge 23/6/2004, n. 226, che sospendeva a partire dal 2005 le chiamate al servizio militare di leva, che formalmente rimase obbligatorio, ma di fatto fu abolito perché trasformato da istituto ordinario a straordinario, da rendere operativo solo in determinate circostanze, molto congetturali se non fantasiose, come ad esempio la dichiarazione di guerra dell’Italia a un paese terzo.

La coscrizione obbligatoria costituiva per il cittadino un periodo di formazione dal punto di vista caratteriale e dello spirito perché educava alla disciplina, al senso del dovere, al sacrificio, alla cooperazione di gruppo e, non ultimo, all’amor di patria che, sotto le armi, non era un discorso né vacuo né retorico. L’opportunità di conoscere coetanei provenienti da aree lontane e disagiate del Paese e, tramite legami di amicizia, realtà diverse da quelle quotidiane, coltivava nei giovani l’idea di una comunità, il sentimento di appartenenza a un Paese che il condiviso dovere della difesa educava a sentire proprio.

Erano aspetti importanti per la coesione sociale e nazionale, che riceveva forza e sviluppo anche dall’alta frequenza di situazioni di sicura integrazione linguistica che offriva la vita di caserma. Inoltre, il servizio militare non addestrava solo alle armi ma, potendo essere prestato anche presso corpi dello stato preposti ai servizi civili, assicurava un flusso continuo di giovani che, a seconda delle necessità, erano impiegati per compiti i più vari: dall’ordine pubblico alla protezione civile. Impediva infine che la parte delle forze armate costituite da non coscritti creasse una sorta di casta, o di corpo separato dalla vita nazionale.

Con il superamento della coscrizione obbligatoria la legge 226/2004 determinava una progressiva riduzione degli effettivi e riformava anche Il servizio civile che diventava del tutto volontario. La legge venne poi integrata nel d.lgs. 15/3/2010, n. 6 (codice dell’ordinamento militare) che sancì definitivamente l’avvenuta modifica delle funzioni e dei compiti delle forze armate: “Lo strumento militare è volto a consentire la permanente disponibilità di strutture di comando e controllo di Forza armata e interforze, facilmente integrabili in complessi multinazionali, […] è finalizzato, altresì, alla partecipazione a missioni anche multinazionali per interventi a supporto della pace” (art. 88 – Principi in materia di organizzazione). “Le Forze armate hanno altresì il compito di operare al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità alle regole del diritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte.” (art. 89 c. 2- Compiti delle Forze armate).

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3 pensieri su “La coscrizione dimenticata

  1. Fra le altre posizioni scomode professate da Zemmour, c’è anche quella riguardante la femminilizzazione della società, esposta nel volume “Le premier sexe”, pubblicato in italiano con il titolo “L’uomo maschio”. Secondo lo scrittore, la cultura moderna vorrebbe indurre l’uomo ad essere di fatto una femmina e l’ideologia gender è uno dei principali motori di questo processo. Anche riguardo a questa opinione, che non appare però legata al contendere nella cacciata dalla radio, il buon Zemmour si è inimicato non poche persone à la page.
    http://www.barbadillo.it/76263-esteri-via-da-radio-rtl-zemmour-censurato-dai-media-francesi/

  2. La Svezia pacifista e neutrale, che aveva abolito la leva obbligatoria nel 2010, l’ha ripristinata quest’anno. Emmanuel Macron ha deciso di riportarla in vigore in Francia dall’anno prossimo. Per il resto d’Europa, la leva è tuttora obbligatoria in Norvegia, Germania, Svizzera Austria, Danimarca, Finlandia, Lituania, Polonia, Grecia e Cipro. La leva militare obbligatoria sulla quale ha aperto il dibattito il ministro Salvini più che una posizione tardo romantica e passatista sembra dunque l’ adeguamento a ciò che già fa la maggioranza dei paesi europei, anche quando non ha i chilometri di coste incustodite sul mare dell’Italia. Dal punto di vista psicologico però, è la situazione critica della condizione giovanile a riproporre una riflessione sul servizio militare oggi. Il dato che riassume tutto è sempre quello dei “Neet”, i giovani dai 20 ai 34 anni che non lavorano né studiano: in Italia sono il 25,7%, più di 1 su 4 (in Europa la media – già non buona- è del 14,3% ). Un quarto della popolazione giovanile che non studia né lavora mostra una gioventù bloccata, ferma, senza progetti né vitalità, e un paese che fatica a smuoverla da lì: il fenomeno è in atto infatti da molto tempo. Anche le famiglie non riescono a spingere questi ragazzi in un atteggiamento attivo verso il mondo, anzi hanno in parte nutrito la loro posizione passiva. Comportamento umanamente comprensibile, ma alla fine dannoso per i ragazzi stessi, che devono essere messi in acqua per imparare a nuotare. Neppure la scuola li attrae anche perché finora la “laurea” tanto decantata non ha garantito loro l’ingresso nella vita. Hanno più di una ragione, ma intanto stanno fermi. Si tratta di un rischio altissimo, per loro e per il paese. Cosa c’entrerebbe, però, la leva e il “militare? Molto, perché la leva militare è la struttura e l’esperienza che storicamente si è maggiormente dedicata (più della scuola) a questi problemi, che sono innanzitutto di carattere fisico e comportamentale. Valori e obiettivi, personali e sociali, possono essere riconosciuti e perseguiti solo in uno stile di vita diverso da quello confusamente edonistico e disorientato che ha negli ultimi 14 anni aggravato questo problema. Occorre fornire ai giovani un’esperienza formativa capace di staccarli dall’immobilismo depresso in cui moltissimi di loro si trovano, e rimettere in moto la loro esistenza, oggi ferma. Depressione e ansia sono in testa ai disturbi psichici giovanili, in tutta Europa, lo conferma l’Organizzazione mondiale per la Sanità. Antropologia culturale ed etologia hanno già rilevato da tempo che i giovani occidentali hanno urgente bisogno di spinte e proposte più forti e convincenti di quelle ricevute, finora dirette allo sviluppo intellettuale (non semplice, in una società senza valori superiori che lo ispirino), e al successo economico, che in una società opulenta non è più una motivazione sufficiente. Se osservata con uno “sguardo selvatico” però, attento ai fondamenti dell’esistenza, la questione è più semplice di quanto appaia. Il fatto è che per entrare nella vita occorre muoversi. Cioè letteralmente, camminare, come esortava 150 anni fa il filosofo libertario Henry Thoreau nel suo saggio “Camminare”. Per farlo però, nella nostra società sedentaria dove ci si muove solo se trasportati, occorre che qualcuno ci spinga fortemente a farlo. Ciò richiede non solo un addestramento fisico ma, prima ancora, svegliarsi al mattino, possibilmente alla stessa ora, quindi andare a letto non troppo tardi la sera precedente, senza aver assunto sostanze che, come minimo, ti rendono più faticosa camminata e respirazione, e difficile anche un obiettivo semplice, come appunto svegliarti e andare. La medicina classica e tradizionale, da Ippocrate e Galeno in poi, ha sempre conosciuto gli effetti benefici del movimento e quelli malsani della sedentarietà, ma tutto è cambiato nel novecento, quando si è cominciato a prescrivere riposo e immobilità “per evitare l’infarto”, mentre contemporaneamente si diffondevano gli strumenti tecnici per sostituire il movimento umano con quello delle macchine. Del tutto controtendenza, già allora la posizione di Maria Montessori che spiegava che il movimento fisico “collega l’uomo con il mondo”. Le ricerche più recenti (come quelle di Lancet) hanno ora dimostrato che la sedentarietà e mancanza di attività contribuiscono a produrre e aggravare oltre il 40% delle malattie mortali e che il movimento e l’attività fisica hanno un ruolo determinante nel curare la maggior parte dei disturbi psichiatrici, a volte prodotti e sempre peggiorati dall’inattività. Nella leva militare marcia, sport, e regolarità negli orari delle diverse attività sono sempre stati importanti; ora si sa però che sono indispensabili all’equilibrio e al benessere personale e sociale. Tutte le esperienze educative di punta l’hanno riscoperto negli ultimi anni soprattutto negli altri paesi. Persino da noi l’educazione fisica, da qualche anno imbalsamata in lauree triennali dal nome pomposo di Scienze motorie e sportive, sta per essere finalmente introdotta dall’attuale governo anche nelle scuole elementari . C’è però un aspetto più propriamente “militare” nella lotta per rimettere entusiasmo e ordine nella vita dei giovani (e quindi anche degli adulti) in Italia. Si tratta della necessaria lotta contro l’addomesticamento nella vita occidentale, denunciato già da Konrad Lorenz e dalla sua scuola. Bollando come “male” ogni forma di aggressività il manierismo politicamente corretto ha infatti impedito di riconoscere ed educare aspetti del tutto naturali della vita, con il risultato di moltiplicare esplosioni di violenza incontrollata pericolose e inutili. Il togliere significato ad ogni conflitto e diversità impoverisce sia l’individuo che il gruppo. L’aggressività va educata a trovare il suo equilibrio, come accade in natura, e non rimossa o confusa con la patologia. Per questo occorre anche ristabilire la gerarchia dei valori umani, dove per tutelare i diritti individuali è necessario, prima, riconoscere i doveri verso gli altri e la società. L’ordine (come ricordava Elias Canetti), crea chiarezza. Nell’uomo il conformismo da addomesticamento indebolisce l’ordine specifico dell’istinto, diretto al mantenimento e moltiplicazione della forza vitale, e promuove disordini comportamentali sregolati e autodistruttivi, incapaci di autogoverno. Occorre oggi oggi ritrovare il significato positivo del limite. Si tratta di un sapere in parte istintivo, che l’individuo libero trova dentro di sé e nelle tradizioni del gruppo, se gli sono state trasmesse. Nella società “di allevamento” (come la chiama Lorenz) di consumatori ingordi e indisciplinati dava però fastidio, ed è infatti oggi quasi perduto. Si potrebbe forse ritrovarlo in un’esperienza come la leva militare: comunitaria, obbligatoria e legata a una forte struttura simbolica. L’altra battaglia che il servizio militare obbligatorio potrebbe infine lanciare, anche se difficile da vincere in pochi mesi, è quella contro l’epidemia oggi più diffusa (assieme alla depressione cui è spesso legata): il narcisismo, il vedersi e volersi al centro del mondo e non sopportare di non esserlo. Si tratta di un disturbo psicologico devastante perché condanna allo scacco e infelicità permanente, ma ormai è talmente diffuso in Occidente che si è discusso per anni se inserirlo ancora nel DSMV, il manuale diagnostico più utilizzato, oppure lasciar perdere e promuoverlo a normalità. Il servizio militare può liberare i giovani dalla falsa posizione di protagonista immaginario e offrire finalmente la possibilità di “servire” gli altri e il paese accettando le fondamentali esperienze della fatica, del limite, e dell’ordine. Dopo anni di suggestioni di finte onnipotenze, finalmente ci si può allenare a diventare davvero forti, muovendo i muscoli e seguendo le opportune regole. Forse poco romantico, ma piuttosto utile. (da La Verità)
    CLAUDIO RISE’

  3. Io che, per i casi della vita, avevo colorature e marcature tedesche profonde, da militare ho scoperto gli italiani e mi sono scoperto uno di loro. A livello personale avevo fatto come Garibaldi, l’unità d’Italia. E non salti ora fuori il solito rampognoso a parlarmi delle nequizie dei garibaldini, del Mazzini e del Garibaldi massoni (altra massoneria quella), magari pagati dagli inglesi (e bene fecero), dei Savoia chiaviche colonialiste, dei briganti del Sud e degli ottimi Borbone. Tutto giusto, ma l’unità d’Italia andava fatta, storicamente, moralmente, politicamente, economicamente, culturalmente. Lo chiedeva la sua lingua. L’avevano chiesto Dante e Leopardi. L’hanno chiesta quelli della repubbliche insorte da Roma a Napoli a Milano, a Venezia. E chiedono di conservarla, mantenerla, coltivarne le radici, senza le quali non si hanno fioriture e passa il glifosato mondialista. Quello che non fa prigionieri.

    Un tempo la battaglia per l’esercito di popolo e contro il mercenariato dei professionisti la combattevano quelli che la pensavano come il mio compagno carrista Marcello. Quelli che sono contro l’esercito di popolo sono anche quelli che inneggiano alla cessione della sovranità di popolo a Juncker e a Draghi. Diceva Calamandrei, oggi ricordato dal “Fatto Quotidiano”: “L’esercito di popolo, questo è Garibaldi”. La cui rivoluzione non poteva essere un pranzo di gala. Poteva essere fatta meglio. Come ogni cosa. Ma guai se non ci fosse stata.

    Pubblicato da Fulvio Grimaldi
    https://davi-luciano.myblog.it/2018/08/15/sulla-diatriba-leva-si-leva-no-cittadini-al-servizio-militare-o-civile-della-collettivita-o-mercenari-al-servizio-dei-signori-della-guerra/

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