Ritorno a Keynes

di PIER PAOLO DAL MONTE (chirurgo e saggista)

«C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe dei ricchi che ha scatenato questa guerra, e la stiamo vincendo» così affermava Warren Buffet al New York Times nel 2006. Questa dichiarazione di vittoria dovrebbe far riflettere. Dovremmo domandarci che cosa sia successo, negli ultimi decenni, per farci apparire questa vittoria talmente ovvia da non provocare reazione alcuna. Certo, sarebbe superficiale e inesatto parlare, come fanno gli aedi sempliciotti à la Francis Fukuyama, di “fine della storia”, versione lievemente più elaborata del thatcheriano T.I.N.A. (“there is no alternative” – non c’è alternativa); tuttavia, appare evidente che in questo determinato periodo storico si sia affermata una versione particolarmente aggressiva e totalitaria di un capitalismo” (termine peraltro piuttosto sfuggente alle definizioni) che, in altre epoche, era dovuto venire a patti con istanze politiche che ne attenuavano il dominio sulla società.

Scheda-radicals.1114a14e1910c4b919c437ae511c26c698Il dopoguerra, nelle varie nazioni europee, (“in certe parti più, e meno altrove”) è stato caratterizzato da una sorta dinuovo patto sociale” che, per brevità, e quindi con una certa imprecisione, potremmo definire  “modello BeveridgeKeynes”. Un modello caratterizzato da una ripartizione più equa del rapporto salari/profitti (e quindi un benessere sociale diffuso) e da una serie di tutele sociali dei cittadini da parte dello Stato, ossia quello che, con un inutile anglicismo è definito Welfare State: sanità e istruzione pubbliche, sistema pensionistico, contrattazione collettiva, ecc. Queste “patto sociale” è stato oggetto, negli ultimi decenni, di un attacco senza quartiere da parte di quello che un tempo si chiamava “padronato”, reminiscenza quasi ottocentesca per definire i poteri economici dominanti.

Questi ultimi si sono avvalsi di efficienti fantaccini reclutati all’uopo: i principali partiti politici dei paesi occidentali, le istituzioni internazionali (Imf, Wto, ecc.),  gli organi di gestione autocratici (parlare di “governo” ci pare un po’ esagerato) di quell’entità ibrida chiamata Unione Europea, nonché di vari corifei di regime come gli intellettuali organici, il “clero universitario regolare” (definizione di Costanzo Preve) e i vari mezzi di comunicazione  (media whores o presstitutes, per usare un anglicismo che, in questo caso, non è inutile). Non v’è quindi da stupirsi se, almeno temporaneamente, questa guerra sia stata vinta dalla classe alla quale appartiene il miliardario summenzionato. Questa vittoria è andata di pari passo con una mutazione che non è stata solo politica e ideologica ma, soprattutto, antropologica.

Tant’è che oggi, soprattutto per coloro che si ritengono appartenenti alla confusa area sinistreggiante, le “ideologie” sono state sostituite con l’idolatria per una forma totemica di mercato”, considerata il summum bonum, il termine di riferimento di ogni azione politica e il fine ultimo della società. Il vitello d’oro al quale si devono sacrificare gli esseri umani, le comunità, la storia e la natura.

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Un pensiero su “Ritorno a Keynes

  1. Di Jacques Sapir, 18 gennaio 2017

    Le recenti dichiarazioni di Donald Trump, e la sua politica di pressione sui grandi gruppi industriali attraverso messaggi inviati via Twitter; ma anche dichiarazioni “molto francesi”, come quelle di Arnaud Montebourg sul “produrre francese” hanno riproposto la questione delle moderne forme di protezionismo. Nel dibattito che si apre oggi intorno alla campagna per eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, è chiaro che questo problema occuperà una posizione di primo piano. Un certo numero di candidati dichiarati – o di candidati alla candidatura – hanno preso posizione su questo tema. Ma in realtà, questo dibattito c’è già stato.

    Nel 1930, dopo la Grande Depressione, un certo numero di economisti sono passati da posizioni tradizionaliste a favore del “libero scambio” verso una visione più protezionista. John Maynard Keynes era uno di questi, e certamente quello che ha esercitato l’influenza più significativa. Può essere utile quindi tornare a questo dibattito, e alla conversione di un uomo che comunque credeva nel libero scambio, per cercare di capire che cosa gli fece cambiare idea.

    L’importanza del contesto

    Il saggio di J.M. Keynes sulla necessità di una autosufficienza nazionale di cui vogliamo occuparci è stato pubblicato nel giugno 1933 sulla Yale Review. Si può pensare che questo testo sia stato scritto tra la fine del 1932 e i primi mesi del 1933. È quindi perfettamente contemporaneo alla elezione di Franklin Delano Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti.

    Questo testo si rivela di lettura stranamente attuale e inquietante [1]. Oggi, come nel 1933, le ragioni per dubitare del libero scambio si accumulano. Gli esperti della Banca mondiale hanno drasticamente rivisto al ribasso le loro stime sui “guadagni” derivanti dalla liberalizzazione del commercio internazionale [2] , benché siano stati calcolati senza tenere conto dei possibili costi. Allo stesso modo, uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (United Nations Conference on Trade and Development, UNCTAD) dimostra che il ‘Doha Round‘ dell’Organizzazione mondiale del commercio (Quarta conferenza interministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio, tenuta a Doha nel novembre del 2001, ndT) potrebbe costare ai Paesi in via di sviluppo fino a 60 miliardi di dollari, mentre porterebbe loro solo 16 miliardi di guadagni [3]. Lungi dal promuovere lo sviluppo, l’Organizzazione mondiale del commercio potrebbe quindi contribuire alla povertà globale.
    Perfino gli investimenti diretti esteri, a lungo considerati come una panacea per lo sviluppo, sono ora messi in discussione [4]. I meccanismi di concorrenza cui si affidano molti paesi per cercare di attirarli hanno evidentemente effetti negativi in materia di protezione sociale e ambientale [5] .
    http://vocidallestero.it/2017/01/24/trump-e-lattualita-di-keynes-il-nostro-futuro-e-nel-protezionismo/

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