La finestra di Overton

Joseph P. Overton (1960-2003) ha elaborato un modello di rappresentazione delle possibilità di cambiamenti nell’opinione pubblica, descrivendo come delle idee, totalmente respinte al loro apparire, possano essere poi accettate pienamente dalla società, per diventare infine legge. La cosa più inquietante è che queste idee nascono spesso da un piccolo gruppo e a vantaggio solo di pochi, con danni per tutti gli altri

Secondo Overton, qualsiasi idea, anche la più incredibile, per potersi sviluppare nella società ha una finestra di opportunità. In questa finestra l’idea può essere ampiamente discussa, e si può apertamente tentare di modificare la legge in suo favore. L’apparire di questa idea, in quel che potremmo chiamare la “finestra di Overton”, permette il passaggio dallo stadio di “impensabile” a quello di un pubblico dibattito, prima dalla sua adozione da parte della coscienza di massa e il suo inserimento nella legge.

Non si tratta di lavaggio del cervello puro e semplice, ma di tecniche più sottili, efficaci e coerenti, si tratta di portare il dibattito fino al cuore della società, per fare sì che il cittadino comune si appropri di una certa idea e la faccia sua. All’inizio è talvolta sufficiente che un personaggio pubblico o politico la promuova in modo caricaturale ed estremo, e che poi il resto della classe pubblica e politica smentisca con grande foga. Ecco, l’idea è nata, e la danza dei furbetti può cominciare. Il soggetto è lanciato, e si può discuterne per il bene di tutti e sgombrare il campo dagli equivoci!

Secondo questa teoria, una finestra è l’intervallo di idee che possono essere accettate dalla società in un determinato momento e che vengono apertamente manifestate dai politici senza che questi ultimi passino per estremisti. Le idee evolvono secondo i seguenti stadi:

1/ inconcepibile (inaccettabile, vietato)
2/ radicale (vietato, ma con delle riserve)
3/ accettabile (l’opinione pubblica sta cambiando)
4/ utile (ragionevole, razionale)
5/ popolare (socialmente accettabile)
6/ legalizzazione (nella politica dello Stato)

L’uso della finestra Overton è il fondamento della tecnologia di manipolazione della coscienza pubblica finalizzata all’accettazione da parte della società di idee che le erano precedentemente estranee e consente l’eliminazione dei tabù. L’essenza di questo metodo sta nel fatto che l’auspicato mutamento di opinione deve perseguirsi attraverso varie fasi, ciascuna delle quali sposta la percezione ad uno stadio nuovo dello standard ammesso fino a spingerlo al limite estremo. Ciò comporta uno spostamento della stessa finestra, ed un dibattito polemico ben governato permette di raggiungere la fase ulteriore all’interno della finestra.

Dei gruppi di riflessione
producono e diffondono opinioni all’esterno della Finestra Overton, per rendere la società più ricettiva verso l’idea in corso. Quando un gruppo di riflessione vuole imporre una idea considerata inaccettabile dall’opinione pubblica, utilizza la Finestra per tappe. Prendiamo ad esempio l’idea del “ritorno alla schiavitù”. Lo spostamento della Finestra Overton in direzione di un cambiamento dell’atteggiamento verso la schiavitù può passare per i seguenti stadi:

Stadio 0 : in questo stadio il problema è inaccettabile, non è discusso nella stampa e non è ammesso dalla gente,

Stadio 1 : il tema evolve da “assolutamente inaccettabile” a “vietato ma con delle riserve”. Si afferma che non bisogna avere alcun tabù, il tema comincia ad essere discusso in piccole conferenze durante le quali degli stimati economisti fanno delle dichiarazioni di carattere “scientifico”. Il soggetto cessa di essere tabù e viene introdotto nello spazio mediatico. Risultato: il soggetto inaccettabile è messo in circolo, il tabù è desacralizzato, il problema non suscita più la medesima reazione, che comincia ad articolarsi in diversi gradi.

Stadio 2 : il tema della schiavitù passa dallo stadio del radicale (vietato, ma con delle riserve) allo stadio di accettabile. Continuano ad essere citati economisti e sociologi e vengono create espressioni eleganti (1) : non si parla più di schiavitù propriamente detta ma, diciamo, di una realtà obiettiva nella quale sempre più gente ha difficoltà a sopravvivere e che bisogna tentarle tutte pur di salvarla. L’obiettivo è di disconnettere il significato della parola dal suo contenuto nella coscienza sociale.  Nel frattempo, reportage televisivi cominciano a mostrare che le “crudeltà” della schiavitù non sono mai state realmente dimostrate.

Stadio 3 : La Finestra Overton si sposta, trasferendo il tema dall’ambito dell’accettabile a quello del ragionevole/razionale, ciò che deriva dalla “necessità economica”. Si afferma che la sottomissione all’altro è geneticamente predeterminata. Inoltre, in caso di carestia (“situazione non risolvibile”), deve essere riconosciuto all’uomo il diritto ad una scelta. Non bisogna nascondere l’informazione che ognuno può scegliere tra il morire e il servire un padrone che gli darà da mangiare. Occorre anche considerare che uno schiavo è liberato da ogni preoccupazione di ordine materiale.

Stadio 4 : da utile a popolare (socialmente accettabile). La discussione non verte solo sull’esempio di personaggi storici o mitici, ma anche ponendo l’accento sulla durezza dei tempi nei quali la schiavitù era la sola possibilità di sopravvivenza. La schiavitù comincia a essere ampiamente discussa nei programmi di informazione, nei dibattiti televisivi, nei film, nelle canzoni e nei clip. Per rendere il tema popolare, si cita spesso ad esempio un personaggio storico celebre che a suo tempo era stato schiavo, prima di diventare una persona importante.

Stadio 5 : da socialmente accettabile alla legalizzazione. Il soggetto è oramai lanciato, viene automaticamente riprodotto nei media e negli show-biz, e raccoglie consensi politici. Giunti a questa tappa, “l’umanizzazione” dei fautori della schiavitù viene utilizzata per giustificarne la legalizzazione. Possiamo davvero noi giudicare ciò che è bene per ciascun individuo? Uno schiavo ha sempre un tetto per dormire ed è interesse del suo padrone che si mantenga in buona salute. Fortunatamente vi sono delle persone ricche che possono prendersi cura di altri, mentre altre persone sono incapaci di gestirsi da soli e occorre dunque guidarli. Anche se tutto questo può sembrare a qualcuno “amorale”, è necessario, perché una società funzioni, che ognuno trovi il posto che più gli è congeniale.

Stadio 6 : da tema popolare, la schiavitù diventa legale. Si crea una base normativa, compaiono delle lobbie, vengono pubblicati degli studi che sostengono il tema della legalizzazione. Un nuovo dogma appare: “per superare le crisi, la schiavitù è spesso la sola soluzione per i più poveri”. La legge è approvata, la schiavitù diventa luogo comune nelle scuole e nei giardini di infanzia e la nuova generazione non riesce a capacitarsi di come si sia potuto pensarla in modo diverso: per salvare i più deboli e per garantire ad essi la sussistenza, la schiavitù è una buona soluzione!

Molte idee contemporanee sembravano assolutamente inconcepibili solo qualche decina di anni fa e sono poi diventate accettabili per la legge e agli occhi della società. Pensioni, sicurezza sociale, salari, il lavoro domenicale o i sistemi di video sorveglianza generalizzati. Non credete che questa evoluzione abbia seguito lo scenario sopra descritto? Credete davvero che queste riforme si siano ispirate al bene comune o non piuttosto che siano state adottate nell’interesse di qualcuno?

http://www.ossin.org/uno-sguardo-al-mondo/analisi/1696-come-sono-riusciti-a-farci-accettare-la-liberta-di-licenziamento-e-molto-altro

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Universitaly

Universitaly di Federico Bertoni è un saggio politico. Il suo oggetto immediato è la metamorfosi inquietante dell’università pubblica in Italia; ma, come in ogni vero esercizio saggistico, l’oggetto è in realtà pretesto per un discorso più generale. Bertoni, mentre discute di università e di ricerca, sta in realtà costringendo il lettore a riflettere su una questione di fondo, inaggirabile benché ovunque elusa: se si manomettono le forme istituzionali di educazione pubblica di massa è la qualità stessa della nostra democrazia a essere a rischio. Questo è il nodo attorno a cui il saggio ruota. E il decalogo che chiude il volume – le dieci pratiche di resistenza a cui il testo invita – andrebbe letto come un piccolo manifesto portatile di disobbedienza civile. Ma andiamo con ordine.

Universitaly si apre con una domanda spiazzante: «perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota di significato le azioni quotidiane?». La risposta non è semplice e il testo prova ad articolarla in tre mosse. La prima si intitola esperienza. Federico Bertoni è professore di letterature comparate e teoria della letteratura all’Università di Bologna. È dunque un insider. Per spiegare come si insegna e come si fa ricerca oggi, il primo passo è quello di descrivere in presa diretta la vita quotidiana di un professore italiano. Bertoni si diverte a mostrare la follia della routinenella quale è imprigionato; ma il tono generale della scrittura è amaro. In questa prima parte del volume lo seguiamo mentre cerca di dribblare il sovraccarico di burocrazia, la mole di email senza fine, le richieste sempre più astruse degli organi di valutazione della ricerca, gli intimidatori comandi dei centri informatici, la scrittura a ritmo fordista di abstract, le lettere di presentazione per gli studenti, eccetera… Ma il lavoro del professore universitario non dovrebbe essere quello di fare ricerca e di insegnare? Sembrerebbe di no. È stato costruito, in meno di due decenni, un esorbitante apparato normativo che per funzionare richiede un lavoro continuo. Ed è precisamente questo il lavoro per cui viene selezionato oggi un professore universitario. Ricerca e docenza passano in secondo piano.

La seconda mossa del saggio si intitola narrazione e ha il compito mostrare al lettore i dispositivi che producono il discorso sull’università, vale a dire quella rappresentazione aggressivamente demolitoria del sistema pubblico alla quale da oltre due decenni siamo quotidianamente sottoposti. A iniziare dalle classifiche di rating mondiali: tutti sappiamo che il nostro sistema non eccelle in queste classifiche. Pochi però si interrogano sul senso di una comparazione che valuta realtà quasi incomparabili. È sensato analizzare allo stesso modo una piccola università privata come Harvard, che ha poco più di 15.000 studenti e che da sola ha un finanziamento pari al 40% dell’intero sistema pubblico italiano, con una università statale come, per esempio, quella di Bologna, dove gli studenti sono quasi 100.000 e le risorse finanziarie, rapportate alle sue dimensioni, sono decisamente scarse? E come mai, nonostante questa disastrosa posizione, l’emigrazione scientifica italiana ha assunto ovunque posizione di rilievo proprio perché molto ben preparata? Non è forse che i conti non tornano del tutto?

Il discorso sull’università ipnotizza però la discussione pubblica soprattutto con tre concetti: merito, eccellenza e valutazione. Sono tre termini tossici. Perché impediscono di ragionare seriamente sul significato politico di un’istruzione universitaria di massa. Bertoni giustamente ricorda che «la meritocrazia tende a premiare chi può accedere a grandi risorse, opportunità, orizzonti sociali e culturali, reti di relazioni. Non c’è bisogno di essere raccomandati dal potente di turno per essere favoriti nella competizione: basta nascere in una “buona” famiglia, crescere in un ambiente sereno, avere i mezzi per viaggiare o studiare le lingue, disporre di una grande biblioteca, rientrare in un sistema ramificato di scambi e di relazioni sociali». Ed è per questa ragione che «merito è solo un altro nome per privilegio». Il secondo termine tossico è eccellenza. Presentata come obiettivo da conquistare grazie al merito, l’eccellenza non è altro che una martellante strategia retorica. Si vuole compensare, in realtà, il senso profondo del fallimento istituzionale dello Stato, nascondendo cause e responsabilità politiche. L’ultimo concetto ipnotico è quello di valutazione: il dispositivo che deve certificare l’eccellenza. Queste sono, fra le pagine del libro, quelle più importanti, un vero e proprio microsaggio di retorica, di politica e di psicologia sociale. Bertoni interpreta la valutazione come un dispositivo di potere che impone, in chi lo subisce, una sorta di auto-coercizione volontaria con effetti pratici immediati: è dal buon funzionamento di questo dispositivo, infatti, che dipendono fondi di ricerca, acquisizioni e posti di lavoro.

L’ultima mossa del volume prende il nome di politica. Bertoni avanza un’analisi impietosa di come l’università si sia progressivamente trasformata in una consumer oriented corporation senza alcuna forma di opposizione da parte di un corpo docente per lo più irresponsabile perché incapace di difendere il nesso humboldtiano ricerca-educazione, ripensandolo all’altezza del presente. A questo quadro già di per sé sconfortante si aggiunga poi una dosa massiccia di esterofilia, aggravata, nel caso della ricerca umanistica, da un senso di inferiorità verso le scienze pure e il loro delirio di onnipotenza. Come se ne esce? Il libro si chiude con dieci azioni semplici e due libri. Anzitutto dieci piccole pratiche di resistenza quotidiana capaci di mantenere viva un’idea altra di università come istituzione in grado di «promuovere una buona qualità media dell’istruzione collettiva, di fondare il progresso del Paese nell’estensione dei diritti e delle opportunità sociali». Quindi la lezione di due libri di Luigi Meneghello: I piccoli maestri (1964) e Fiori italiani (1976). Entrambi insegnano cosa produce l’uso sbagliato dei libri: uno scollamento sempre più grave fra conoscenza astratta ed esperienza del mondo. Quanto una buona università dovrebbe con ogni forza scongiurare.

A margine, una riflessione. È possibile pensare la trasformazione attuale dell’università come risposta politica a un problema di fondo, che potremmo identificare nel nesso fra qualità dell’istruzione di massa e conflitto sociale potenziale? Uno studio degli archivi della Fulbright Commission, sugli anni Settanta italiani, potrebbe forse rivelare risposte inaspettate. In questi anni ci siamo tutti dimenticati che l’istruzione pubblica resta uno dei campi privilegiati della battaglia per l’egemonia.

Universitaly, La cultura in scatola, Laterza, 2016

di Daniele Balicco Alfabeta2

Individualismo

“L’individualismo come fenomeno di massa non è un fatto psicologico congiunturale,  che renderebbe i nostri contemporanei eccezionalmente egoisti o portati a ripiegarsi in sé stessi.  E’ un fatto di struttura  che mette l’attore individuale,  coi suoi diritti ma anche i suoi interessi, in primo piano, con l’esclusione  del resto – il politico specialmente, che non ha più altro ruolo se non al servizio dei diritti e degli interessi individuali.  Ne risulta un programma che si può riassumere così:  la  libertà totale di ciascuno e l’impotenza completa di tutti”.

La citazione, forse un po’ difficile, è di Marcel Gauchet. Storico e filosofo della storia, una  delle poche grandi menti rimaste in un’Europa dove il pensiero non serve più, 70 anni,  Gauchet mi pare colga bene il  “capolinea” in cui si  è ficcata la civiltà europea, e che angoscia e paralizza nel profondo – il senso di aver perso la strada. “ La dinamica  dei diritti individuali –  dice –  diventa la macchina per dissolvere la capacità collettiva di governarsi,  detto altrimenti, della democrazia”.

Il trionfo dei “diritti individuali”  è vissuto ovviamente dai più come  una grande liberazione, invece che una crisi – e crisi terminale; soprattutto, ci sembra un fenomeno di liberazione  spontaneo. Invece, spiega Gauchet, esso è indotto;  è il risultato di una “ipertrofia”  della dimensione del diritto; in concreto, dei diritto degli individui a spese delle altre dimensioni della vita collettiva.

E   questa ipertrofia ha degli autori: le oligarchie che  hanno  formato “la costruzione europea: essa è animata da una volontà post-politica, quella di ridurre la democrazia all’esercizio più largo possibile delle libertà individuali; che sono sì un elemento; ma la democrazia consiste essenzialmente e  prima di tutto nella capacità di fare scelte collettive. La filosofia delle istituzioni europee, ossessionate dal  superamento delle nazioni, consiste a suggerire ai cittadini: sfuggite all’autorità dei vostri stati. Il loro messaggio subliminale è che esse non hanno a che fare se non con individui, sui quali nessuno stato deve esercitare un’autorità indebita”.

E non è un caso che questa ipertrofia dei diritti individuali coincida con la globalizzazione: “La quale dà a chi se lo può permettere di giocare il ‘fuori’ contro il ‘dentro’.  Per esempio di trarre il massimo profitto dall’organizzazione di origini – per esempio un’alta istruzione gratuita – riducendo al minimo le obbligazioni  –  per esempio le imposte pagate”.

Ben  sappiamo, abbiamo degli esempi grandiosi di multinazionali specialiste  in questo gioco.  “Ciò non accresce il sentimento di un destino comune da  cui accettare le costrizioni in vista di un meglio collettivo”.

Leggi tutto su http://www.maurizioblondet.it/europei-vi-siete-ridotti/

Convivialità

La legge della frantumazione del discorso conviviale non è solo legata al numero dei commensali, all’eventuale presenza di eminenze (capaci da sole di capovolgere la fenomenologia corrente), ma anche alle condizioni di ambiente. Se c’è rumore, se nella stanza, sulla terrazza, nel patio, se nel dehors del locale c’è molta gente, se sono presenti addirittura due o più tavolate, la frantumazione può diventare totale, nel senso che ciascun commensale, impossibilitato a comprendere anche una sola parola del vicino/a se non urlata all’orecchio, viene ridotto a pura scheggia del mondo vivente e si ritira nel proprio monologo interiore concentrandosi sul cibo. Ammesso che stia riuscendo a mangiare e non è detto. Perché altra caratteristica della tavolata è l’attesa. Non è raro vedere tavolate di quindici persone in attesa da ore, dunque ridotte a uno stadio terminale di fame, dove si raccattano le palline di mollica di pane, confezionate nella noia assoluta dei discorsi, per divorarle senza parere.

Volendo modestamente porre qui alcune basi preliminari a una Teoria Generale della Tavolata (TGT), butto giù qualche primo appunto.

  • Innanzi tutto un consiglio: non partecipare mai a pranzi/cene su base rettangolare con più di 8 commensali.
  • Quello al centro del lato lungo si chiama Posto della Solitudine ed è meglio evitarlo, a meno che non siate un asociale, oppure abbiate problemi di udito. Perché lì non vi filerà nessuno, dico nessuno, nemmeno il/la vicino/a che vi darà parzialmente le spalle perché a sua volta proteso verso uno dei due fuochi.
  • tutti terranno costantemente d’occhio il display dei loro cellulari (rapide digitazioni, tenui sorrisi allo schermo) e gli spostamenti delle bottiglie di vino, di solito scadente/molto scadente/pessimo.
  • Non cercate di sedervi vicino a una/o che vi interessa o addirittura vi piace: non ci riuscirete.
  • «Non fa niente ci stringiamo» si deve dire quando una tavolata, già formata e compattata al limite, viene raggiunta da due o tre ritardatari, in quel momento la gamba del tavolo che supponevate esistere alla vostra destra o alla vostra sinistra si palesa in tutta la sua sorda indifferente datità.
  • Dato per assodato il principio di infinità comprimibilità della tavolata, nella costipazione generale le vostre cosce sono costrette a stare fortemente unite, con gravi conseguenze sul vostro benessere inguinale, che, come si sa, è premessa per ogni possibile attività umana.

Francesco Pecoraro

liberamente estratto da http://www.leparoleelecose.it/?p=24166

Il romanzo

Citazione

il romanzo è il genere che, conquistando la capacità di narrare qualsiasi storia in qualsiasi modo, arriva a raccontare, con una ricchezza e un peso inediti, l’esistenza delle persone come noi, cioè qualcosa che per i moderni è diventato cruciale e che fino a quel momento aveva avuto un posto minore nella società e nella cultura europea.

Guido Mazzoni in “I nomi propri e gli uomini medî ”

http://www.leparoleelecose.it/?p=24142