Universitaly

Universitaly di Federico Bertoni è un saggio politico. Il suo oggetto immediato è la metamorfosi inquietante dell’università pubblica in Italia; ma, come in ogni vero esercizio saggistico, l’oggetto è in realtà pretesto per un discorso più generale. Bertoni, mentre discute di università e di ricerca, sta in realtà costringendo il lettore a riflettere su una questione di fondo, inaggirabile benché ovunque elusa: se si manomettono le forme istituzionali di educazione pubblica di massa è la qualità stessa della nostra democrazia a essere a rischio. Questo è il nodo attorno a cui il saggio ruota. E il decalogo che chiude il volume – le dieci pratiche di resistenza a cui il testo invita – andrebbe letto come un piccolo manifesto portatile di disobbedienza civile. Ma andiamo con ordine.

Universitaly si apre con una domanda spiazzante: «perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota di significato le azioni quotidiane?». La risposta non è semplice e il testo prova ad articolarla in tre mosse. La prima si intitola esperienza. Federico Bertoni è professore di letterature comparate e teoria della letteratura all’Università di Bologna. È dunque un insider. Per spiegare come si insegna e come si fa ricerca oggi, il primo passo è quello di descrivere in presa diretta la vita quotidiana di un professore italiano. Bertoni si diverte a mostrare la follia della routinenella quale è imprigionato; ma il tono generale della scrittura è amaro. In questa prima parte del volume lo seguiamo mentre cerca di dribblare il sovraccarico di burocrazia, la mole di email senza fine, le richieste sempre più astruse degli organi di valutazione della ricerca, gli intimidatori comandi dei centri informatici, la scrittura a ritmo fordista di abstract, le lettere di presentazione per gli studenti, eccetera… Ma il lavoro del professore universitario non dovrebbe essere quello di fare ricerca e di insegnare? Sembrerebbe di no. È stato costruito, in meno di due decenni, un esorbitante apparato normativo che per funzionare richiede un lavoro continuo. Ed è precisamente questo il lavoro per cui viene selezionato oggi un professore universitario. Ricerca e docenza passano in secondo piano.

La seconda mossa del saggio si intitola narrazione e ha il compito mostrare al lettore i dispositivi che producono il discorso sull’università, vale a dire quella rappresentazione aggressivamente demolitoria del sistema pubblico alla quale da oltre due decenni siamo quotidianamente sottoposti. A iniziare dalle classifiche di rating mondiali: tutti sappiamo che il nostro sistema non eccelle in queste classifiche. Pochi però si interrogano sul senso di una comparazione che valuta realtà quasi incomparabili. È sensato analizzare allo stesso modo una piccola università privata come Harvard, che ha poco più di 15.000 studenti e che da sola ha un finanziamento pari al 40% dell’intero sistema pubblico italiano, con una università statale come, per esempio, quella di Bologna, dove gli studenti sono quasi 100.000 e le risorse finanziarie, rapportate alle sue dimensioni, sono decisamente scarse? E come mai, nonostante questa disastrosa posizione, l’emigrazione scientifica italiana ha assunto ovunque posizione di rilievo proprio perché molto ben preparata? Non è forse che i conti non tornano del tutto?

Il discorso sull’università ipnotizza però la discussione pubblica soprattutto con tre concetti: merito, eccellenza e valutazione. Sono tre termini tossici. Perché impediscono di ragionare seriamente sul significato politico di un’istruzione universitaria di massa. Bertoni giustamente ricorda che «la meritocrazia tende a premiare chi può accedere a grandi risorse, opportunità, orizzonti sociali e culturali, reti di relazioni. Non c’è bisogno di essere raccomandati dal potente di turno per essere favoriti nella competizione: basta nascere in una “buona” famiglia, crescere in un ambiente sereno, avere i mezzi per viaggiare o studiare le lingue, disporre di una grande biblioteca, rientrare in un sistema ramificato di scambi e di relazioni sociali». Ed è per questa ragione che «merito è solo un altro nome per privilegio». Il secondo termine tossico è eccellenza. Presentata come obiettivo da conquistare grazie al merito, l’eccellenza non è altro che una martellante strategia retorica. Si vuole compensare, in realtà, il senso profondo del fallimento istituzionale dello Stato, nascondendo cause e responsabilità politiche. L’ultimo concetto ipnotico è quello di valutazione: il dispositivo che deve certificare l’eccellenza. Queste sono, fra le pagine del libro, quelle più importanti, un vero e proprio microsaggio di retorica, di politica e di psicologia sociale. Bertoni interpreta la valutazione come un dispositivo di potere che impone, in chi lo subisce, una sorta di auto-coercizione volontaria con effetti pratici immediati: è dal buon funzionamento di questo dispositivo, infatti, che dipendono fondi di ricerca, acquisizioni e posti di lavoro.

L’ultima mossa del volume prende il nome di politica. Bertoni avanza un’analisi impietosa di come l’università si sia progressivamente trasformata in una consumer oriented corporation senza alcuna forma di opposizione da parte di un corpo docente per lo più irresponsabile perché incapace di difendere il nesso humboldtiano ricerca-educazione, ripensandolo all’altezza del presente. A questo quadro già di per sé sconfortante si aggiunga poi una dosa massiccia di esterofilia, aggravata, nel caso della ricerca umanistica, da un senso di inferiorità verso le scienze pure e il loro delirio di onnipotenza. Come se ne esce? Il libro si chiude con dieci azioni semplici e due libri. Anzitutto dieci piccole pratiche di resistenza quotidiana capaci di mantenere viva un’idea altra di università come istituzione in grado di «promuovere una buona qualità media dell’istruzione collettiva, di fondare il progresso del Paese nell’estensione dei diritti e delle opportunità sociali». Quindi la lezione di due libri di Luigi Meneghello: I piccoli maestri (1964) e Fiori italiani (1976). Entrambi insegnano cosa produce l’uso sbagliato dei libri: uno scollamento sempre più grave fra conoscenza astratta ed esperienza del mondo. Quanto una buona università dovrebbe con ogni forza scongiurare.

A margine, una riflessione. È possibile pensare la trasformazione attuale dell’università come risposta politica a un problema di fondo, che potremmo identificare nel nesso fra qualità dell’istruzione di massa e conflitto sociale potenziale? Uno studio degli archivi della Fulbright Commission, sugli anni Settanta italiani, potrebbe forse rivelare risposte inaspettate. In questi anni ci siamo tutti dimenticati che l’istruzione pubblica resta uno dei campi privilegiati della battaglia per l’egemonia.

Universitaly, La cultura in scatola, Laterza, 2016

di Daniele Balicco Alfabeta2

2 pensieri su “Universitaly

  1. È quello che si chiama un ‘full statement of the case’, come nel “Dr. Jekyll and Mr Hyde” di Stevenson: alla fine Jekyll racconta tutto. Difficile capire perché abbia avuto l’esigenza di sfogarsi. Io però ho risposto (Deconstructed Harry) e a buon diritto: vivo la situazione da vent’anni (e capii subito che le mie copie di “Mimesis” di Eric Auerbach e de “La letteratura europea e il medioevo latino” di H. R. Curtius non mi sarebbero servite gran che, professionalmente (e dovrebbero essere bibbie).

    Comunque, così ho commentato:

    L’università americana ha tempi molto stretti di giudizio e di passaggio in ruolo: cinque anni, in cui bisogna insegnare dai quattro ai sei corsi all’anno, svolgere compiti amministrativi (ristrutturazione programmi, ecc.), promuovere la disciplina e, naturalmente, produrre un libro e quattro articoli. Altrimenti sei licenziato e devi trovarti un altro posto. La theory consente di produrre molto in poco tempo (e non è mai abbastanza). La “fretta sudaticcia” condannata da Nietzsche è il realtà parte del sistema (fondato sul conformismo, si sa). Inoltre, le grandi crisi e i grandi mutamenti interiori che possono arrivare da una seria lettura filosofica è proprio quello che si vuole EVITARE A TUTTI I COSTI. La filosofia blocca il sistema, la theory lo manda avanti. È un motivetto musicale a cui far ballare gli studenti. Poi qualcuno si ricorderà quant’era bello ballare e qualcun altro andrà a scuola di danza e diventerà professore (e si torna all’inizio).
    Andrea Malaguti

  2. IL DECALOGO

    È dunque con questa minima attrezzatura strategica che si può tentare di reagire. Se una delle astuzie del sistema sta nel manipolare in modo insensibile e capillare le forme della percezione e la pragmatica dei gesti quotidiani, finché il negativo diventa normale e non lo vediamo più, bisogna contrapporre alla microfìsica della bètise una microfisica di piccoli gesti resistenti, tecniche e pratiche che, rispetto alla vita universitaria, si possono distribuire schematicamente in quattro sfere d’azione: politica, amministrazione, ricerca, didattica. Parto dunque dallo spazio generale della politica, per quel poco di agibilità che ormai concede, e con qualche ironia provo a ricalcare un modello collaudato: il decalogo. Ovviamente non sono comandamenti ma consigli, suggerimenti che rivolgo innanzitutto a me stesso, o forse semplici strategie posturali per risollevare un po’ l’orizzonte percettivo di chi vive piegato nello «stato di minorità».

    1. Non aver paura. La piramide del potere che ho descritto si regge su un assunto psicologico fondamentale: la paura. Intimidazione e ricatto, come in altri ambiti sociali, sono abituali strumenti di governo. Spesso purtroppo con ricadute pratiche effettive, tanto più gravose quanto più ci si trova in basso nella scala dei ranghi feudali, resa ancora più solida e gerarchica dalla Legge Gelmini con l’introduzione di figure di ricercatori a tempo determinato. A volte però la minaccia è più gridata che reale, ed è qui che c’è un possibile spazio di interposizione, perché il potere si regge proprio sull’arrogante certezza che chi sta in basso non reagirà, avviluppato nella massima più fasulla di tutti i tempi, quella di don Abbondio: il coraggio uno non se lo può dare.
    2. Prendi la parola. La recente stretta autoritaria ha svuotato sempre più il nesso organico tra linguaggio e politica.Ormai la gente è letteralmente terrorizzata solo all’idea di aprire bocca. Non solo gli spazi del dissenso, ma anche quelli della semplice espressione di sé vengono sistematicamente controllati. È questo quindi uno dei primi nessi da ricucire. La postura emotiva viene dal punto precedente, e le forme sono molteplici: parla, esponi la tua opinione; intervieni quando vedi qualcosa che giudichi sbagliato; se puoi scrivilo in pubblico, anche sui «social media»; alza la mano nelle ultime sedi deliberanti se vedi approvare nel silenzio generale un provvedimento che non condividi, di’ la tua, e se necessario vota contro. Una volta si chiamava democrazia.
    3. Parla con loro. Resistere all’inesorabile svuotamento della politica, all’università e altrove, significa ricostruire il senso di una comunità e di un orizzonte condiviso. C’è solo un modo per combattere quel devastante sentimento di solitudine di cui ho parlato: spezzare la convinzione paranoica di essere gli unici ad avere certe idee, mentre il resto del mondo suona come l’orchestra del Titanic e naviga euforico verso l’abisso. Dunque cercare innanzitutto i propri simili, che saranno molti più del previsto, persone con storie diverse ma che mettono lo stesso impegno nel lavoro, credono in una certa idea di cultura, vivono frustrazioni analoghe, e che magari guardano la realtà presente con gli occhi della vera politica: immaginarla altrimenti. Poi allagare il cerchio comunicativo,mobilitare l’opinione e la forza di reazione, aprire un vero canale di comunicazione con i colleghi della scuola, cercare di uscire anche dai muri dell’accademia per far capire a tutti che il degrado di questa istituzione riguarda tutti, non solo ricercatori e docenti. Sono i motivi primari per cui ho scritto questo libro. C’è ancora moltissimo da fare.
    4. Non farlo. Nella sfera amministrativa il discorso è più delicato. Un docente universitario, Renzi permettendo, è un funzionario pubblico che ha doveri istituzionali ben precisi, anche quelli nei confronti di una macchina amministrativa che può non condividere ma alla quale è legato da una serie di obblighi, peraltro regolati da un apparato giuridico intricato e non sempre univoco. Credo che l’unica possibilità sia una forma di intelligenza strategica e congiunturale: discriminare i compiti fondamentali (primi fra tutti quelli didattici) da quelli posticci e spesso pretestuosi; respingere le ingiunzioni burocratiche che appaiono particolarmente stupide, inutili o dannose; e dunque opporsi, rallentare, al limite non collaborare, anche adottando la divisa scettica e minimalista del Bartleby di Melville: «preferirei di no». Tecnicamente si chia mano «forme di lotta diverse dallo sciopero», tra cui rientra appunto la «non collaborazione». Esempio semplice e attuale, di cui ho ampiamente parlato: la valutazione. Se non condividi un sistema e soprattutto la sua pragmatica, puoi e devi combatterne l’applicazione: così ti rifiuti di selezionare le tue pubblicazioni per l’esercizio nazionale di valutazione (Vqr); non dai la tua disponibilità come revisore; e quando ti accuse ranno di danneggiare il tuo dipartimento e tutta l’istituzione, risponderai con la forza delle idee. Al cliché che qualcuno ti cucirà addosso, «nessuno mi può giudicare», obietterai rovesciando uno degli slogan più diffusi e pericolosi, ossia meglio una cattiva valutazione che nessuna valutazione. E tu, testardo, dirai di no: se non c’è una buona valutazione, allora nessuna valutazione.
    5. Non abituarti. Una fondamentale pratica di resistenza può svilupparsi negli interstizi funzionali del sistema, approfittando della natura stessa dei meccanismi governamentali, che in genere non sono coercitivi ma persuasivi: per funzionare hanno cioè bisogno di consenso, magari non unanime ma maggioritario; devono essere assimilati, fatti propri, tra sformati in categorie percettive e operative pressoché automatiche. La forma di resistenza sarà dunque «un’opposizione reticolare di disinnescamento, smascheramento e anche boicottaggio di norme e prassi per lo più interiorizzate, ossia in primo luogo un condiviso lavoro su di sé»23. Se cominciamo a smontare certe procedure, considerandole non ovvie ma strane, addirittura in contrasto con i nostri due fondamentali comandamenti istituzionali, cioè studiare e insegnare, allora forse l’università potrà fare davvero quello per cui viene finanziata (anche se sempre meno e sempre peggio) con denaro pubblico.
    6. Rallenta. Nell’ambito della ricerca, le pratiche di resistenza si possono esercitare contro gli effetti distorsivi imposti dai sistemi di contabilizzazione, smercio e accumulazione indiscriminata dei «prodotti». L’incremento forzato del volume produttivo, il ritmo di lavoro sincopato e frenetico, l’idea di un «rigore metodologico» con cui finalizzare meccanica mente un obiettivo chiaro a un risultato facilmente misura bile, snaturano l’essenza stessa della ricerca e della scoperta scientifica, non solo in campo umanistico ma anche e forse ancor più nell’ambito delle scienze naturali. Con questi cri eri, probabilmente, molte grandi scoperte nella storia dell’umanità non sarebbero mai state fatte. La ricerca è fatta anche di spreco, intuizioni casuali, punti morti, false piste e sentieri interrotti, e soprattutto della curiosità con cui ci si mette in viaggio senza intravedere chiaramente la meta finale. Se non ci ostiniamo a credere in questo, e dunque a pubblicare un po’ meno, impegnarci in lavori di ampio respiro, seguire strade meno battute, infischiarcene di indici e parametri, la catastrofe cognitiva sarà inevitabile. Non ci saranno più scoperte da fare e conoscenze da condividere, ma solo merci da vendere al miglior offerente.
    7. Smaschera, Una forma di resistenza più elaborata consiste nell’architettare espedienti, anche in forma di beffa mediatica, per smascherare la stupidità del sistema che governa il mercato intellettuale della ricerca. Cito solo un caso celebre, quello di Ike Antkare, uno scienziato inesistente, creato dal nulla attraverso articoli generati da un software automatico e una sapiente manipolazione degli indici di calcolo delle citazioni, divenuto in breve tempo lo studioso più produttivo e influente della sua disciplina24. Secondo calcoli attendibili, il suo h-index sarebbe superiore a quello di Einstein.
    8. Gioca al rialzo. Nell’insegnamento, le pratiche di resistenza sono ancora più spicciole e quotidiane. L’azione primaria è disinnescare l’equazione tra l’estensione a una più ampia “massa” di studenti e l’abbassamento della qualità, errore molto frequente e indotto dalla natura stessa della riforma Berlinguer. Si possono fare ottime lezioni, anche “difficili”, in un’aula con centinaia di persone dalla provenienza più svariata. L’esperienza contraddice in pieno il luogo comune: gli studenti non rifiutano i contenuti complessi, ma solo il modo confuso e generico di esperii. Anzi apprezzano il tentativo di portarli un po’ più in alto del previsto, di far capire che esiste qualcosa di meglio a cui possono ambire, non solo i migliori ma tutti quanti, anche se non è formulato a chiare lettere negli «obiettivi formativi» dell’insegnamento. A volte ovviamente non funziona, si sbaglia il tiro, loro non rispondono o semplicemente non capiscono; ma il gesto decisivo è giocare al rialzo, dar loro fiducia, e crescere insieme
    9. Non trattarli come clienti. Si può resistere anche a certi meccanismi aberranti che regolano il funzionamento quotidiano della consumer oriented corporation. Il rispetto per gli studenti non ha nulla a che fare con il precetto secondo cui «il cliente ha sempre ragione». Posso violare una clausola mercantile ma fare qualcosa di buono per la conoscenza, ad esempio contestando nei fatti il concetto stesso di credito in quanto unità di calcolo del tempo, senza temere di ricevere un punteggio negativo alla voce «il carico di studio dell’insegnamento è proporzionato ai crediti assegnati?». Nel mio campo, tra l’altro, questa contabilità ha sostanzialmente causato l’estinzione di interi autori o generi letterari (ormai chi avrebbe il coraggio di fare un corso su Proust?). Così l’anno scorso me ne sono infischiato: per la laurea triennale ho progettato un corso sul romanzo ottocentesco, genere mediamente molto ponderoso, e pur facendo una minima selezione per campioni ho messo insieme un programma di più di tremila pagine di romanzi, a cui si aggiungevano i testi critici. Risultato? Gli studenti erano ancora più numerosi dell’anno precedente, hanno seguito con estrema attenzione (perfino le lezioni sui Promessi sposi) e nessuno si è lamentato della mole.
    10. Insegna il dissenso. Combattere questa università dei numeri e del mercato significa anche strappare l’insegnamento a una logica di mera fornitura di servizi dietro compenso per restituirlo alla sua natura conflittuale, di interazione dialettica con un’alterità. Lo suggeriva anche Bill Readings: abitare le rovine significa ridisegnare la «scena educativa», costruire una «comunità del dissenso» in cui il paradigma pedagogico non sia fondato sulla trasparenza e sulla pura trasmissione delle informazioni ma sul confronto, sulla contraddizione, sul dialogo non conciliante, sull’eterogeneità dei soggetti e dei pensieri, sulla natura stessa degli studenti in quanto soggetti (temporaneamente) resistenti ai ruoli sociali, agli inquadramenti professionali e alla tradizione culturale che li precede. Il nostro primo dovere di insegnanti non è compilare griglie ed eseguire procedure formalizzate ma sviluppare il senso critico, insegnare a decostruire i meccanismi ideologici che ci governano, fornire gli strumenti per mettere in discussione il nostro stesso sapere, facendo capire agli studenti che tutto ciò che succede nei recessi segreti del castello accademico li riguarda da vicino, e riguarderà i loro figli. La posta in gioco è molto alta. Non possiamo fallire.

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