All’epoca, ero al liceo anch’io e Dario Fo e Bob Dylan erano parte della mia vita quotidiana fin dalla scuola media: uno era in televisione, l’altro sul giradischi. Ma non piango di nostalgia: Dario Fo era molto spesso ammirevole, ma forse non lo apprezzavo fino in fondo. Bob Dylan faceva di tutto per non farsi capire, pensavo: storpiava l’inglese, parlava di naso (e a volte col naso) e la cadenza ti restava in testa, le parole mai (devo i miei fondamenti di inglese parlato a cantautori molto più tersi). Però li ho riletti entrambi e li ho apprezzati molto più tardi; si tratta di premi senza dubbio meritati, data la produzione testuale. E poi, io sto sempre dalla parte dei giullari, dei jesters, dei fools shakespeariani che hanno il coraggio di dire la verità nei confronti del potere (e non dovrebbero farlo solo loro) e Fo e Dylan almeno molto spesso l’hanno fatto. Quindi, bravi entrambi: premi meritatissimi.
Mi si perdoni però l’osservazione di chi ormai ha una certa età e ne ha viste, se non tante, almeno alcune: ho una grande nostalgia del valore della cultura scritta e della letteratura in senso stretto. Era bello dover affrontare Pascoli in classe e leggere Gregory Corso o Emile Zola sotto il banco, mentre il professore interrogava gli altri (anche il professore che portò in classe le poesie di Allen Ginsberg, quello che mi sta leggendo adesso). Se leggevamo di frodo era perché leggevamo anche a scuola; e in fondo Corso o Zola (o Thomas Hardy, che piaceva molto a un mio compagno di classe) erano le ricadute di Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Manzoni e gli altri. La letteratura era parte della nostra vita quotidiana. Il mio liceo aveva una biblioteca scolastica continuamente in uso; ora mi dicono che sia chiusa (e quando due anni fa portai una sporta di Penguin Classics in dono, mi dissero che non si sapeva dove sarebbero finiti).
Oggi sotto il banco ci sono i videogiochi, che più spesso che mai non sono creativi; anzi, spesso tendono ad appiattire le storie sul modello di Terminator. Lo dico perché me ne hanno raccontato uno, intitolato Inferno: Dante va all’inferno a liberare Beatrice e per farlo deve ammazzare tutti i mostri che gli si parano davanti e riportarla in superficie viva. Vince chi lo fa nel minor tempo. Insomma, la solita storia del guerriero che salva la damigella in pericolo (pericolo di che cosa, poi?), quindi una storia maschilista e sciovinista, il tutto in meno di un minuto.
Ovvio, la Commedia è altra cosa. Intanto, è Beatrice che salva Dante dalla dannazione quasi sicura: la “selva oscura” dell’inizio è stata paragonata alla selva dei suicidi del canto XIII, quindi molto probabilmente Dante stava per compiere un gesto inconsulto e fatale (altro che guerriero ammazzatutto). Poi, Dante non ammazza proprio nessuno: anzi, quando vede i dannati (come poi quando vedrà i penitenti e i redenti) cerca di farsi raccontare le loro storie e cambia molto nel corso del viaggio-poema (ci sono chiare differenze tra il Dante che compie il viaggio e quello che lo racconta, per dirla in soldoni). E il bello di Dante che cambia è che, leggendolo, cambiamo anche noi; e forse per cambiare veramente e nel profondo c’è bisogno della lentezza della lettura (anche se le terze rime della Commedia spingono verso la fretta).
Ergo, una prece per Dario Fo e un complimento a Bob Dylan, com’è giusto, ma anche un rimpianto per un’epoca in cui si leggeva di più e più volentieri, e in cui la lettura era anche una forma di comunicazione. Perché si legge da soli, ma poi quando si parla ci si riconosce, si hanno più cose da dire e più emozioni da dare. Mi riservo di leggere le poesie di Bob Dylan: forse ho perso parecchio (come avevo perso parecchio quando non conoscevo bene il teatro di Dario Fo). Per ora rimango con le canzoni, dove a volte c’è un po’ di mistica (“Blowing in the Wind”) e a volte affiora qualche brivido di crudeltà: la voglia di dare il benservito a una donna, di non farsi conoscere e di non rendersi disponibile solo per la voglia di rinfacciarle il passato: “Don’t think twice, it’s all right.” Non so se non ho voglia di ripensarci, Bob; non so se mi va di seguire il tuo consiglio…
Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo affatto al piacere dei dissipati che consistono in bagordi, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano male, ma alludiamo all’assenza di dolore nel corpo, all’assenza di perturbazione nell’anima. Non dunque le libagioni e le feste ininterrotte, né il godersi fanciulli e donne, né il mangiar pesci e tutto il resto che una ricca mensa può offrire è fonte di vita felice; ma quel sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, e che scaccia le false opinioni, per via delle quali grande turbamento si impadronisce dell’anima. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 127-132).