Nelle librerie d’occasione e sulle bancarelle dell’usato comincio a vedere intere biblioteche che hanno un’aria familiare: sono i libri che leggevo, che avrei voluto leggere, che mi pareva necessario leggere, a venti-trent’anni. Mi fa una certa impressione vederli riapparire all’improvviso e tutti assieme. Opere che fecero o che contribuirono a fare – e che ancora rappresentano – la cultura della mia generazione, anno più anno meno.
Sono i lavori dei nostri padri e maestri, molti dei quali oggi quasi completamente dimenticati, nel senso di calati al di sotto dell’orizzonte culturale contemporaneo, ammesso che ne esista uno. Credevamo che la verità fosse racchiusa nei libri: bastava procurarseli, aprirli, leggerli. Avevamo il mito della scrittura saggistico-filosofica e cercavamo anche noi, segretamente, di scrivere. Erano per lo più frammenti di vagheggiate opere complesse. Non andavamo mai oltre la seconda pagina di quadernoni a spirale, lasciati poi intonsi e inevitabilmente ritrovati a distanza di anni.
Il mio primo pensiero è che i titolari di queste biblioteche non se ne siano volontariamente sbarazzati: non è il tipo di libri che dai via (oppure sì?). È più plausibile che siano invece morti. La mia generazione comincia ad andarsene. Lo dimostra la morìa di artisti pop-rock del secolo scorso, avanguardia di un’estinzione naturale, che probabilmente comincia a saldare il conto di una giovinezza di eccessi.
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