
Palmyra
Il paesaggio urbano sembra inanimato ed inerte durante i bombardamenti, sventrato dalle linee nemiche e da quelle alleate, calpestato e deturpato. I monumenti e gli edifici raccolgono storie, memorie, racconti, identità, modi di dire, tradizioni, stili, abitudini, etiche professionali ed esistenziali. Gli ingredienti necessari per il dispiegarsi della vita, nella dimensione sociale, civile, culturale ed anche religiosa. Il paesaggio, nel corso di una guerra, sembra il terzo incomodo, un ostaggio ferito per dimostrare che la posta in gioco è alta, una vittima involontaria della gara per ottenere l’egemonia, un’egemonia sottile, messa in pratica dalle dimostrazioni ai danni del simbolo di una nazione, ruolo perfettamente incarnato dal paesaggio urbano nelle sue diverse forme. Ne sanno qualcosa i quartieri di Milano nel corso della seconda guerra mondiale, contesi e sospesi tra i fuochi delle bombe incendiarie. Non è però l’unico episodio di violenza contro le città ed il paesaggio urbano e culturale che le abita. Diversi sono infatti gli episodi che rientrano nella categoria semantica di Urbicidio, assemblata da un filo rosso, perverso e intricato. Un filo rosso, rosso sangue. Un lungo filo rosso che lega il sacco di Roma per mano dei Lanzichenecchi del 1527, che ha depredato la città eterna di secoli di influenze cosmopolite, il bombardamento di Dresda nel 1945 fino ad arrivare a periodi più recenti come la sorte di Mostar durante la guerra di Bosnia, l’attacco alle Twin Towers oppure la presa di Palmira da parte del Isis nel 2015.
Il neologismo “urbicidio”
Tecnicamente, nel linguaggio delle scienze sociali e della geografia politica si tratta di Urbicidio. Urbicidio, un termine di conio recente, diffuso e implementato da un gruppo di architetti bosniaci in seguito alle violenze contro il patrimonio artistico delle città. Borgdan Bogdanovic, sindaco di Belgrado e docente di architettura si è trovato a spaziare tra i meandri concettuali e filosofici che fanno da impalcatura all’urbicidio. Bogdanovic è un intellettuale poliedrico: fondatore dell’approccio antropologico legato all’architettura, si è sempre trovato in posizioni perennemente conflittuali con il partito di Slobodan Miloseviç. Diventa presto il portavoce del gruppo di architetti che, in opposizione alle violenze delle milizie bosniache “serbizzate”, tenta di porre resistenza soprattutto dal punto di vista culturale per poi puntare ad una resistenza sul piano giuridico che trasferisse i casi di urbicidio nel novero di veri e propri crimini di guerra. Da altre latitudini gli fa eco Martin Shaw, studioso di sociologia della guerra, che delinea una definizione più diretta del paradigma. L’urbicidio rappresenta una sotto-categoria di genocidio e come tale deve essere considerato. Urbicidio, ovvero delitto contro la città ed il suo patrimonio culturale. Una città, con il patrimonio culturale che essa ospita al proprio interno, diviene dunque un obiettivo strategico, non più “vittima” di effetti secondari di strategie belliche ma sensibile bersaglio da ferire per poi assoggettare il nemico. Abbattere la città significa cancellare i monumenti, gli edifici, i palazzi del potere, privare di memoria il paesaggio politico. Nelle logiche di guerra, oltre ai civili, anche alle città ed al patrimonio culturale nel complesso, è riservato il doloroso destino di ritrovarsi sotto tiro.
Ci si trova in una duplice sfera di significati. La prima, di ordine strategico, consiste nello sferrare un attacco al centro nevralgico dell’economia o del potere (la sorte che ad esempio è toccata a Londra durante la seconda guerra mondiale). Il secondo significato riguarda invece l’aspetto culturale che intrinsecamente appartiene alla città, figure non solo storiche ma spesso mitiche. Le grandi capitali, a scanso di equivoci retorici, producono situazioni culturali, avanguardie, movimenti, resistenze e reazioni. Attaccare la città significa attaccare, quasi per un’assurda proprietà transitiva, lo Stato, di cui essa ne diventa gioco-forza il simbolo, soprattutto in una logica di guerra, in cui la profanazione del simbolo stesso, obbliga in qualche modo l’avversario ad un indebolimento psicologico che lo induce inevitabilmente alla resa. Il valore semantico del patrimonio culturale assume dunque un aspetto peculiare e specifico per qualsiasi entità politica raggiunga la dimensione statale, diventando il simbolo delle varie forme che l’evoluzione di quel determinato stato ha raggiunto nel corso del tempo. Il valore identitario dei monumenti è, per certi versi, innegabile, così come la sua distruzione per motivi politici volta ad attaccare lo Stato nelle proprie viscere politico-culturali., sono episodi di attacco al simbolo politico e culturale incarnato dai monumenti, rappresentativi del patrimonio culturale di un’intera nazione.
Guerra simmetrica e asimmetrica
La categoria dell’Urbicidio trasporta il dibattito dal piano della guerra simmetrica a quello della guerra asimmetrica, proiettando lo scontro non solo tra eserciti regolari ma tra milizie i cui obiettivi diventano i luoghi del vivere sociale e civile. Il contesto urbano, o meglio, il paesaggio, si personifica ed entra a pieno titolo nel conflitto, mandando in crisi l’apparato di regole del diritto internazionale ma rimanendo nell’ambito dei crimini di guerra. Il passaggio da guerra nelle città a guerra alle città sembra aver acquisito una rapidità sconcertante. Sono diversi gli esempi che dimostrano la pervasività di tale azione che dimostrano come il distruggere architetture e oggetti d’arte diventi una pratica per annientare un popolo nel simbolo e nei simboli che rappresentano maggiormente i punti di contatto tra diverse etnie (come nel caso della Bosnia Erzegovina) o diverse religioni (come nel caso del Mali).
Il confine del crimine di guerra
La violazione dell’area urbana (e dei simboli ad essa connessi) nel corso del conflitto, trasporta la pratica dell’Urbicidio nella sezione dei crimini di guerra, dato il coinvolgimento dei civili in prima persona. La definizione del crimine di guerra non è cosa facile, non soltanto perché in determinati casi si tratta di atti consentiti dalla legislazione dello stato di chi li mette in pratica ma anche perchè la definizione stessa di crimine di guerra dipende da convenzioni che non sempre tutti gli Stati in questione hanno firmato ed inoltre non vi è una codificazione specifica data da una normativa comunemente accettata, anche se la decisione della Corte Penale Internazionale del 2016 si muove in questa direzione. Del resto, come può un attacco feroce e deliberato contro monumenti e città non essere considerato un crimine di guerra? L’unica definizione di crimine di guerra (in cui la violenza contro la città sembra collocarsi perfettamente) comunemente accettata sembra essere una definizione che fa leva sul senso comune secondo cui sono crimini di guerra tutte le atrocità commesse nei confronti delle popolazioni civili. Il compiere violenze contro una città e contro il suo patrimonio artistico è un attacco all’identità stessa della popolazione (o delle popolazioni) che abitano la città stessa e il territorio e il fatto di colpirla nei simboli che ne caratterizzano la storia, la tradizione e la cultura equivale a sferrare un colpo di immane ferocia al carattere del popolo stesso.
L’offensiva dello Stato islamico su Palmyra avviata il 9 dicembre sorprese totalmente la guarnigione dell’Esercito arabo siriano. Era il momento dell’assalto finale su Aleppo da parte dell’Esercito arabo siriano, e tutti i mezzi da ricognizione russi schierati in Siria operavano nella zona di Aleppo. Mentre i pianificatori militari degli Stati Uniti progettavano l’accerchiamento di Mosul, sembrava strano che lasciassero un corridoio libero allo Stato islamico, a nord-ovest di Mosul, per Rabiya, valico al confine tra Iraq e Siria. Il 2 dicembre, gli Stati Uniti ordinarono alle truppe irachene di ridurre le operazioni a Mosul e fermare l’offensiva l’11 dicembre. Questo permise a una colonna di blindati dello Stato islamico di lasciare la città. Nel cuore della notte, la colonna si diresse verso nord-ovest, attraversando il confine con la Siria nel territorio occupato da combattenti curdi delle SDF coordinati da istruttori delle forze speciali delle forze armate statunitensi. I terroristi dello Stato islamico raggiunsero Raqqa senza problemi, coprendo in 10 ore una distanza di oltre 460 chilometri. E il giorno dopo erano a Palmyra. La coalizione anti-SIIL degli Stati Uniti, che compiva voli da ricognizione 24 ore su 24 ore sul territorio occupato dallo Stato islamico in Iraq e Siria, aveva firmato un protocollo di cooperazione con la Russia sullo scambio di informazioni relative a riconoscimento e attuazione di attacchi su bersagli a terra. La coalizione non rilevò il movimento della colonna dei veicoli dello Stato islamico tra Raqqa, Mosul e Palmyra o “mancò” di avvertire i colleghi russi.
La pianificazione dell’offensiva su Palmyra fu altamente professionale dato che lo Stato islamico ha ufficiali di stato maggiore del livello di uno dei più potenti eserciti della NATO. Il movimento fu organizzato su diverse colonne in viaggio da Raqqa alla periferia di Palmyra. Così, circa 4000 terroristi dello Stato islamico, a bordo di Toyota armate di mitragliatrici, blindati, artiglieria e carri armati, si dispiegarono in segreto, di notte, a 200 km entrando direttamente in battaglia. Lo Stato islamico creò un equilibrio di forze chiaramente a suo favore, manovrando e attaccando di notte con un’efficienza esemplare. Ciò dimostra che i membri dello Stato Islamico non sono ribelli contro il governo di Bashar al-Assad, ma mercenari ben addestrati, armati e costantemente informati dai loro sponsor sui movimenti dell’Esercito arabo siriano. Informati sul dispiegamento delle truppe siriane un paio di giorni prima dell’offensiva, i commando dello Stato islamico travestiti da profughi civili s’infiltrarono nella periferia di Palmyra. I membri di tali gruppi si posizionarono nei pressi dei posti di blocco dell’Esercito arabo siriano attendendo l’arrivo delle colonne dello Stato islamico. Con tali commando, lo Stato islamico poté facilmente aprire le brecce attraverso cui le colonne poterono entrare a Palmyra. Anche così i soldati dell’Esercito arabo siriano avrebbero resistito a lungo se dotati di apparecchiature per la visione notturna, come i terroristi dello Stato Islamico. Avendo equipaggiamento superiore e informazioni accurate, le subunità dello Stato Islamico manovrarono con estrema precisione, riuscendo ad avvolgere e isolare le difese dell’Esercito arabo siriano. Ci si può chiedere dove lo Stato Islamico abbia acquistato migliaia di visori notturni nell’ultimo mese.
Dopo la rioccupazione di Palmyra da parte dello Stato islamico, gli istruttori russi dispiegati in Siria ne trassero le conseguenze e consegnarono ai soldati dell’Esercito arabo siriano in lotta per la liberazione della città, apparecchiature per la visione notturna Fara-1, 1PN90-3 e Aistjonok, in dotazione alle brigate di fanteria motorizzata russe. Il radar mobile Fara-1 è accoppiato a mitragliatrici da 7,62 mm, 12,7mm e 14,5mm, e rileva, di notte o in caso di nebbia, singoli elementi armati a una distanza di 2000 m e veicoli a 4000 m, guidando con precisione il tiro delle mitragliatrici. La videocamera termica 1PN90-3 è sempre fissata su mitragliatrici da 7,62mm, 12,7mm e 14,5mm e può rilevare un soldato a una distanza di 200-500 m. Il radar portatile Aistjonok viene utilizzato dalle batterie di artiglieria, e traccia la traiettoria dei proiettili, calcolandone le coordinate fino a una distanza di 20 km, anche se si tratta di artiglieria mobile. Il radar segue i propri proiettili, potendo apportare correzioni dopo lo sparo. Può essere installato su veicoli, ed è simile al radar statunitense AN/TPQ -50.
https://aurorasito.wordpress.com/2016/12/30/come-lo-stato-islamico-occupo-palmyra/
Il “diritto alla” città va ricollocato sullo sfondo storico di un processo di decolonizzazione molto imperfetto, le cui conseguenze durano tuttora. Qualcosa di diverso da quello del tempo in cui lo slogan fu coniato, negli anni sessanta con il libro omonimo di Henri Lefebvre. All’epoca si trattava ancora della società industriale avanzata, in cui il conflitto sociale veniva spostando il suo baricentro dalla fabbrica alla città nel suo insieme, considerata come il campo su cui esercitare un’egemonia della classe operaia (l’Italia, con il grande sciopero del 19 novembre 1969 sul diritto alla casa, in questo senso fece scuola). Oggi, invece, nella società cosiddetta post-industriale o post-fordista, la metropoli europea appare il luogo in cui si viene consumando una resa dei conti con il vecchio colonialismo. In questa chiave vanno lette le stesse frenesie dell’islamismo radicale – in un modo, quindi, geopolitico anziché religioso.
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