Empatia

In “La conversazione necessaria- La forza del dialogo nell’era digitale (Einaudi 2016) ” Sherry Turkle, a suon di ricerche qualitative e interviste vis a vis, racconta di come uno dei caratteri fondamentali dell’uomo, l’empatia, si stia estinguendo a causa del deficit d’attenzione dovuto all’iperconnessione, all’eccesso informativo, all’impossibilità di sentirsi qui e ora, ma sempre altrove. «Negli ultimi 20 anni, tra gli studenti universitari, si è rilevato un calo del 40% negli indicatori dell’empatia – un decremento avvenuto per la maggior parte nell’ultimo decennio. Si tratta di una tendenza che i ricercatori attribuiscono direttamente alla presenza dei nuovi mezzi di comunicazione digitali». Come si possono capire le sfumature di uno sguardo, di un gesto, se non riusciamo a concentrarci su chi ci sta di fronte, se siamo in continua attesa di uno stimolo esterno, di una notifica dello smartphone? Come possiamo comprendere il prossimo se siamo sommersi dal rumore del comunicare? Come costruire la nostra identità se non conosciamo pause, se non abbiamo il tempo per elaborare e maturare?

Giulio Sangiorgio in Film TV #29 del 18-7-2017

A quanto evidenziato sopra, noi che seguiamo da sempre i libri della sociologa americana, non possiamo non rilevare come la stessa funzione sia stata inserita fin dal 1975 nei film trasmessi in TV,  in cui la pubblicità non serve per vendere improbabili (e inutili) oggetti, ma semplicemente per impedirti di riflettere sul carattere dei personaggi e su te stesso.

Per cui la frittura dei cervelli dei giovani data da molto prima dell’epoca digitale e, purtroppo, le generazioni che ne sono esenti sono in estinzione.

NOTA: Più o meno negli stessi anni si sono moltiplicati i film di azione, dove un montaggio veloce ha espletato la stessa funzione della pubblicità anche nelle sale cinematografiche (e non entriamo qui nella logica dei videogiochi e dei loro stretti rapporti col cinema).

Dormire

Ieri pomeriggio, reduce da una passeggiata, in seguito al gran caldo, ho deciso di prendermi un gelato.
Mi sono comprato un cono, i miei due gusti preferiti: fragola e pistacchio.
Sono uscito dalla gelateria per andarmi a sedere su una panchina.
L’unica che si trovava all’ombra era occupata da una signora al telefono e da una bambina molto piccola, intorno ai 5 anni.
La panchina era piuttosto larga.
Mi sono avvicinato e ho chiesto alla signora se potevo sedermi.
La signora, indaffarata al suo cellulare, mi ha fatto cenno con la testa di accomodarmi senza problemi.
Mi sono seduto e ho iniziato a gustarmi il gelato.
Ho sollevato lo sguardo e i miei occhi hanno incrociato, per un breve attimo, quelli della bambina.
Mi ha sorriso con un’aria divertita e complice e ha dato una poderosa linguata al suo cono: identico al mio. Lo si intuiva dai colori del suo gelato, verde pastello e rosso fiamma.
Gli stessi gusti.
Anch’io le ho sorriso.
Quest’inattesa comunione di gusti mi ha dato subito una sferzata di buon umore.
La signora, nel frattempo, era tutta presa dalla sua telefonata, che sembrava davvero piuttosto importante.
La bambina, mentre leccava il gelato, era assorta e seguitava ad osservare con enorme attenzione il suolo.
Dalla mia distanza, non vedevo nulla di interessante, e non riuscivo a comprendere che cosa stesse attirando la sua attenzione.
A tratti, infatti, la vedevo chinarsi e oservare il lastricato.
Ad un certo punto, la bambina ha tirato la manica della mamma e le ha chiesto.
“Mamma, le formiche, dormono?”
La madre non ha risposto.
Dopo qualche secondo, la bambina ha riformulato la stessa domanda.
“Non ne ho idea” ha risposto la madre, visibilmente infastidita.
Ma la bambina voleva ottenere una risposta.
Glie lo ha chiesto altre quattro volte.
“Piantala di fare domande, adesso andiamo, e non fare la noiosa come al solito” ha risposto la madre con tono scocciato, senza smettere di parlare al cellulare.
La bambina si è rabbuiata, ma dopo un po’ si è piegata di nuovo in due ad osservare quella che -lo avevo capito- doveva essere una fila di formiche al lavoro.
“Mamma, ma quando vanno a dormire, dove vanno?”
La madre non ha risposto.
La bambina ha insistito, finchè la madre ha sbottato “Stai zitta, non devi fare domande, sto facendo una cosa importante, piantala di fare domande stupide”.
La bambina si è appoggiata allo schienale rabbuiata.
Ho visto che aveva le lacrime agli occhi.
Si sentiva umiliata.
Io non avevo mai smesso di osservarla.
E a un certo punto l’ho immaginata in un pomeriggio caldo del 2044, distesa sul lettino dello psicoanalista, che piangeva ricordando quel pomeriggio della sua infanzia, al quale, parlando con la dottoressa, all’improvviso, attribuiva l’origine della sua patologica timidezza e la difficoltà nel parlare con gli uomini.
“Quando ero piccola, a casa, quando parlavo, nessuno mi ascoltava. Mia madre mi sgridava sempre e non rispondeva mai alle mie domande” immaginavo che avrebbe detto.
Mi sono sentito parte in causa.
Mi sono ricordato che quella bambina mi aveva riconosciuto come compagno di percorso esistenziale perchè aveva subito notato che condividevamo la stessa struttura di papille gustative e avevamo scelto lo stesso gusto di gelato: in qualche modo eravamo anche fratelli.
Allora, mi sono alzato in piedi e mi sono avvicinato.
L’ho guardata.
Aveva gli occhi pieni di lacrime.
Io non avevo la minima idea di che cosa facciano le formiche, ma sentivo che urgeva una qualunque risposta.
“Le formiche dormono d’inverno” le ho detto “è per questo che sono formiche e si danno tanto da fare; portano il cibo nel formicaio e poi, quando arriva l’autunno, s’addormentano e si sentono tranquille perchè hanno tanto cibo utile quando farà freddo. Quelle pagliuzze che trasportano sono importanti, per loro sono essenziali, servono a costruirsi un lettino comodo”.
La bambina mi ha guardato raggiante.
Con il polso si è asciugato il nasino.
La madre mi ha fulminato con uno sguardo come se si trovasse davanti a Igor o vittima di un attentato dell’Isis.
Con uno scatto si è alzata in piedi, ha preso la bambina per la mano e ha cominciato a strattonarla per portarla via.
“Andiamo a casa perchè si è fatto tardi” sempre senza mai smettere la sua telefonata.
La bambina ha cominciato a saltelare con difficoltà seguendone il passo, perchè la madre camminava veloce.
Si era girata due volte per guardarmi.
Io lo sapevo che attendeva un segnale, un gesto, un segno di qualsivoglia genere, tale per cui si potesse sentire rassicurata sulla sua complicità con me.
Avrei voluto correrle dietro, fermare la madre, strapparle il telefono dalla mano e dirle di dare subito una risposta a sua figlia.
Invece non ho fatto nulla.
Sono rimasto lì in piedi come un baccalà, mentre la signora camminava a passo spedito strattonando la bambina che cominciava a fare i capricci, strascicando i piedi, piagnucolando.
Sono ritornato a casa di malumore.
Mi sono sentito un traditore.
Davanti a una Libera Pensatrice potenziale, che aveva bisogno di aiuto, mi ero fatto prendere dalle necessità del rispetto formale della distanza tra estranei, nel mondo adulto, e non avevo mosso un dito per offrirle un qualche sollievo.
Ieri notte ho impiegato un lungo tempo prima di addormentarmi, senza mai smettere di pensare a quella bambina e alla mia vigliaccheria di anonimo adulto.
Poi, prima di chiudere gli occhi, ho cominciato a pensare alle formiche chiedendomi dove andassero a dormire, e se dormivano oppure no.
E’ stato il quesito più intelligente e originale che mi sia sentito rivolgere negli ultimi tre anni della mia vita.
E’ stato il regalo di una bambina di cinque anni che non rivedrò mai più.
Mi ha regalato un’idea, una condivisione, la conferma di quanto sia divertente la curiosità libera e condivisa. Quando è sincera e appassionata.
Volevo condividere con voi questa mia breve esperienza.

C’è qualcuno che sa dirmi se le formiche dormono?
E se dormono, dove vanno a dormire?

di Sergio Di Cori Modigliani
http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.com/2017/07/ma-le-formiche-dormono-oppure-no-e-se.html

Cuori in fuga

Tant’è vero che alla base dell’intera faccenda non c’è la stoltezza di chi non sa che farsene dei giovani più brillanti, che pur andrebbe combattuta. C’è il disegno oligarchico di governi che scuciono miliardi di euro per salvare istituti finanziari con l’acqua alla gola e ritornarli poi a banchieri senza scrupoli, ma non iniettano quei miliardi necessari per creare lavoro, fare politiche industriali, ridare linfa a un sistema economico atrofizzato e restituire dignità a quei milioni di persone che, emigrate o meno, sono cresciute in quegli anni 80-90 nell’inganno di poter accendere un mutuo e crescere a loro volta dei figli in maniera dignitosa nel proprio Paese. D’altronde, anche le questioni “baronili” passano per questo snodo: è solo nella scarsezza di risorse che possono vegetare ed espandersi i despoti che centellinano arbitrariamente i posti disponibili.

Il fenomeno dei cuori in fuga colpisce tutti, indistintamente. Colpisce i nostri genitori, che si vedranno privati dalla più preziosa delle compagnie, specialmente negli anni più critici della loro esistenza; colpisce noi, costretti a lasciare tutto e tutti e a soffrire di una malinconia strisciante; colpisce i nostri figli, che cresceranno pensando all’Italia come al Paese esotico di mamma e/o papà, senza magari saper cucinare nemmeno una pasta.

estratto da http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59224

Ars longa, vita brevis

Vita brevis, ars longa, occasio praeceps, experimentum periculosum, iudicium difficile è una locuzione in lingua latina il cui significato letterale è “la vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione fuggevole, l’esperimento pericoloso, il giudizio difficile”.

La frase non appartiene alla letteratura latina, ma è una traduzione successiva di un aforisma di Ippocrate di Coo (Aforismi, 1, 1), il cui originale è:

«Ὁ βίος βραχύς, ἡ δὲ τέχνη μακρή, ὁ δὲ καιρὸς ὀξύς, ἡ δὲ πεῖρα σφαλερή, ἡ δὲ κρίσις χαλεπή»
(Ho bíos brachýs, he de téchne makré, ho de kairós oxýs, he de peîra sphaleré, he de krísis chalepé).

L’aforisma è spesso citato in forma abbreviata Ars longa, vita brevis, con evidente richiamo a Seneca (De brevitate vitae 1, 1): “Inde illa maximi medicorum exclamatio est: «vitam brevem esse, longam artem»” (“Da ciò deriva quella celebre esclamazione del più grande dei medici: «la vita è breve, lunga l’arte»”), anche se il filosofo latino, traducendo, opera il chiasmo, dando rilievo maggiore al contrasto degli aggettivi.

Si tratta, in ogni caso, di una sintesi di saggezza morale che riunisce in un breve testo alcuni concetti cardine sia della filosofia che della metodologia ippocratea (sempre attenta a ribadire l’importanza dello studio e la difficoltà dell’analisi diagnostica) sia, più in generale, dell’antichità (la brevità della vita e la fugacità del tempo).

Nella sostanza, il messaggio è questo: in tutte le arti, la vita di un uomo è insufficiente per raggiungere la perfezione, che suppone l’esercizio progressivo di più generazioni.

Seneca, invece, nel riprendere l’aforisma, afferma polemicamente che la brevità non è connaturata in maniera ineluttabile alla vita, ma discende dall’insensatezza dell’uomo che disperde il suo tempo nei mille rivoli di inutili occupazioni.

Contributori di Wikipedia, ‘Vita brevis, ars longa, occasio praeceps, experimentum periculosum, iudicium difficile’, Wikipedia, L’enciclopedia libera, 10 marzo 2017, 21:40 UTC, <//it.wikipedia.org/w/index.php?title=Vita_brevis,_ars_longa,_occasio_praeceps,_experimentum_periculosum,_iudicium_difficile&oldid=86446431> [in data

21 luglio 2017

]

Discorso sopra un’insalata

Del resto improvvisazione e pressapochismo di quella che orgogliosamente si definisce imprenditoria, sono anche le stigmate dei clienti che il pensiero unico tende a far diventare dilettanti della vita, persone che si devono arrangiare nella precarietà, in mansioni via via sempre più semplici e che sono funzionali nella misura in cui rimangono subalterni e ignari di ogni rivendicazione di diritti.

il Simplicissimus

scolapasta_618Metà luglio, un caldo impastato al brusio incessante dei turisti, i ventilatori che cominciano a buttare nuvole di acqua spray per fare Vietnam, pozze d’ombra di strade famose che guardano a Trinità dei Monti quasi fosse un trompe l’oeil nella sua essenza di immagine che pervicacemente rifiuta di incarnarsi anche sotto la fatica dei gradini. E’ in questo luogo, nel dedalo attorno a via Condotti, che lunedì scorso si inaugura l’ennesima mangiatoia che esprime i diritti tracotanti del presente e dei suoi tavolini: un furgone scarica cassette di verdure fresche o già grigliate in qualche misterioso luogo dove per le ultime generazioni nasce il cibo e vengono invitati per primi proprio i commercianti della zona.

Uno tra questi decide di farsi un insalata con ortaggi e verdure a larghe falde che sceglie in proprio e che vengono depositati in un ciotola solennemente consegnata all’affamato al termine della composizione. Ecco adesso…

View original post 487 altre parole

Curzio Malaparte

Curzio Malaparte interpretato da Marcello Mastroianni nel film "La pelle"

Curzio Malaparte interpretato da Marcello Mastroianni nel film “La pelle”

Presentiamo un brano tratto da ‘Donna come’ di Curzio Malaparte, opera del 1940, ristampata da Arnaldo Mondadori sino al 1959 e poi dimenticata (fino al 2002 quando ci fu una ristampa per Vallecchi). Quest’opera oggi meriterebbe un’analisi nuova al fine di riascoltare una voce essenziale ed elegante; una voce storica che creò una scrittura unica, vera, coinvolgente.

Di recente abbiamo segnalato le vicende dell’archivio Malaparte. Domenica 16 giugno, il Corriere della Sera riferisce che, dall’archivio, è venuto fuori un testo in lingua francese dedicato Gino Bartali, atleta amato dallo scrittore toscano. Il testo non è firmato ma, secondo lo storico Matteo Noja, è da attribuire alla penna di Curzio. Anche per questo, rinnovare l’interesse sull’opera  malapartiana, che esprime ancora esperienze ed estetiche da codificare.

Indichiamo anche la pubblicazione di Giuseppe Panella, ‘L’estetica dello choc’ (2014), da poco ristampata dall’ editore Clinamen di Firenze. Il lavoro critico di Panella inquadra il tema della letteratura malapartiana e del suo ‘effetto choc’, un effetto  che costringe il lettore a confrontarsi con un’estetica letteraria intensa e con la bellezza distrutta dagli eventi del secolo breve. 

Da ‘ Donna come me’ – Capitolo ‘Città come me’

“Gli uomini li vorrei d’alta statura, e magri, dal viso  bruno, dai capelli neri e lisci. Intelligenti e furbi, lavoratori e sobri, cui piacesse il vino, ma con misura e, direi, con arte, perché l’allegria non voltasse mai in tristezza o in furore. Amanti di svaghi onesti e avidi più di pace che di ricchezza. Ma una certa segreta inquietudine mi piacerebbe metterla negli spiriti, ché gli uomini troppo soddisfatti, troppo sicuri di sé e degli altri, si rilevano incapaci di grandi cose.  Li farei inquieti e incerti del futuro, senza, tuttavia, rammarichi  o nostalgia del passato. Il rispetto delle tradizioni non dovrebbe mai giungere  al punto di farli nemici del nuovo. Gelosi, ma di donne, di cavalli, di cani, non di ricchezze , di potenza o di fortuna. Una gelosia non fosse né politica né sociale, bensì solo morale, e si volgesse  contro i più  intelligenti e i più audaci. Come si conviene in ogni città onesta, dove nessuno è profeta.

Le donne le sceglierei d’alto seno, di fianchi generosi, di belle spalle rotonde: e di bocca larga, segno di natura franca, aperta, cordiale, le labbra tagliate al riso e al canto. Gli occhi un po’ a mandorla. La fronte libera  e nobile, i capelli scuri, con qualche riflesso di rame intorno alle tempie. La gloria di una città sono le donne, la forza dei popoli nasce tutta dal loro grembo. Così le vorrei  generose forti: ché se un uomo, partendo per la guerra , lascia a casa una donna gretta, arida e vana, si mostrerà cattivo soldato. Ma se lascia a casa una donna una donna forte e coraggiosa , affronterà il nemico con furore, sembrandogli quasi di dover difendere la sua casa, il suo letto, i suoi bambini.

Di bambini vorrei che la città fosse piena , intenti a giochi, ai ruzzi, alle incruente battaglie. Che l’aria suonasse da mattina a sera delle loro risa, dei loro gridi, delle loro voci serene.  Una città che piacesse ai bambini. E vorrei che tutto vi fosse ingenuo e infantile: che la gioia libera e pura dell’infanzia, che l’innocenza di quell’età meravigliosa e segreta si vedesse nelle pietre, nelle foglie, nel colore del vento, nel lastrico delle strade, nelle facciate delle case, s’udisse nel cinguettio degli uccelli, nello stormire delle fronde, nel mormorio delle fontane, fine nelle voci degli uomini e nel canto delle campane.

Anche vorrei che la sera, in qualche stradina dietro le carceri, le ragazze  di una casa dalle persiane accostate uscissero sulla soglia a godersi il fresco, e spandessero intorno, nell’aria tiepida, un oscuro odore di crema e di rose sfatte. Le ragazze mezze nude, vestiste di camicie corte, trasparenti, o di vestaglie di trine e di galloni di raso. Tristi e sboccate, di quelle da pochi soldi, che ti sorridono grattandosi la schiena.

Una casa come questa ci vuole, in una città per bene: come ci vuole il Municipio, il Tribunale, le carceri, l’ospedale, il camposanto e il Monte di Pietà. Ma quel che proprio ci vorrebbe, e non se ne può fare a meno, è una macchia scura sul lastrico di qualche vicolo o meglio ancora in mezzo alla Piazza del Comune. Una goccia di sangue, e nessuno sapesse com’è piovuta, chi c’è morto, e perché. Una goccia rossa, appena sbiadita: e ne il sole, né il vento la potessero asciugare, né tutta l’acqua d’autunno riuscisse a lavarla. Che fosse come una macchia sulla coscienza della città: poiché una ragione di rimorso e di paura ci dev’essere, in una città, se si vuole che sia perfetta”.

http://www.barbadillo.it/67543-cultura-la-bellezza-delle-donne-e-il-sangue-della-citta-perfetta-secondo-malaparte/

Tu per chi tieni?

Ricordo perfettamente la prima volta che mi fecero questa domanda: ero davanti alle scuole elementari in attesa di entrare in classe, probabilmente era un lunedì, e le discussioni vertevano tutte sul calcio; la domanda mi colse alla sprovvista, visto che io non mi ero mai interessato alla cosa, e così dissi la prima squadra che mi venne in mente.

Da allora però, per non farmi trovare impreparato, mi premurai di seguirne i risultati e, per abitudine, lo feci fino al 1970, quando le vicende calcistiche smisero definitivamente di interessarmi.

Questo per dire che l’atteggiamento degli italiani verso la politica è analogo: in questi giorni seguono le cronache del loro partito preferito con lo stesso spirito di parte senza neppure la giustificazione di una partita che ne fissi inequivocabilmente il punteggio.

La contraddizione è che ormai nessuno va più allo stadio (lo dimostra la crescente astensione alle elezioni) ma non rinuncia a sprecare i suggerimenti su come condurrebbe lui la squadra.

Intanto chi gestisce il campionato aspetta l’esito, tanto, chiunque vinca, non cambia nulla.

Parità di genere: equità o ingiustizia?

di Emanuele Franz – 08/07/2017Parità di genere: equità o ingiustizia?

Fonte: Ereticamente

C’è un principio buono che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo, e un principio cattivo che ha creato il caos, le tenebre e la donna.”

Pitagora, VI sec. A.C

Come mai tradizioni e scuole di pensiero fra loro distanti nel tempo e nello spazio sono pervenute alle stesse conclusioni? Per il pensiero indù la donna è ammessa sono ai misteri iniziatici inferiori, ma non a quelli superiori; per la metempsicosi greca, sostiene il Filosofo Platone, l’anima si incarna nel corpo della donna per espiazione di colpe commesse nella vita precedente. La misoginia fu ampiamente radicata nelle civiltà più nobili che l’umanità abbia conosciuto. Perché? Sosteneva Aristotele che:

“La femmina è femmina in virtù di un’assenza di qualità.”

Le principali scuole spirituali, esoteriche ed alchimistiche, da sempre hanno attribuito alla donna il simbolo della terra e dell’acqua, della luna, e all’uomo il simbolo del fuoco, del sole, dell’aria. Perché?

Intuitivo nel simbolo è che l’acqua va in basso, il fuoco va in alto. Il fuoco, come il sole, produce la luce mentre la luna non fa che rifletterla incapace di produrla. La donna da sempre è rilegata agli aspetti più bassi della terra, della materia, di contro all’uomo che da immemore tempo è legato allo spirito e alla luce. La stessa parola “Madre”, “Mater” significa materia, terra, opposta allo spirito. E non è forse vero che l’acqua spegne il fuoco? Per gli antichi la donna non genera veramente ma conserva, come la luna non è capace di produrre luce ma solo di rifletterla. Perfino i miti acclamano il male ingenito al ventre materno. Eva porta ogni male nella tradizione ebraica, Pandora porta il vaso contenente ogni male per l’uomo ingannando il titano.

Nel tribunale che gli Dei istituiscono per giudicare Oreste colpevole o meno dell’uccisione di sua madre Clitennestra, ci racconta Eschilo nell’Orestea, egli viene assolto a pieno titolo dopo l’intervento di Apollo che adduce che il vero genitore è il padre non la madre, che è questa solo una guaina e che il solo che ha il dono del generare è il padre. D’altra parte perfino le etimologie delle parole arguiscono queste considerazioni. Il seme, attributo fondamentalmente maschile, è il latino Se-Mens, portatore di Spirito, attraverso il quale, secondo la paideia greca (παιδεία), si trasmetteva la Conoscenza da Maestro a Discepolo, conoscenza dalla quale la donna era apoditticamente esclusa per natura. Al Simposio greco non partecipa né moglie né figlia e per Aristotele l’inferiorità della donna è sistematica su tutti i piani, anatomica, fisiologica e spirituale, corollario di una passività metafisica dove estrinseca il suo difetto, la sua mutilazione. Tinteggiate il più delle volte come sanguinarie, malefiche e dedite all’arrivismo, sono eclatanti le figure di Medea, Circe ma anche la citata Clitennestra, che uccide il marito Agamennone con l’inganno. Nell’Odissea di Omero Agamennone, ormai nel regno dei morti, mette chiaramente in guardia Odisseo dal non rivelare i suoi progetti nemmeno alla donna che ama, Penelope. Ippocrate sosteneva che ogni organismo porti seco un seme identico e androgino, tuttavia egli affermava che la parte femminile di questo seme era, per sua qualità congenita, inferiore della parte maschile.

Perché pensatori, sacerdoti, culture e civiltà diversissime fra loro hanno affermato che la donna non è che terra dal quale poi diparte poi il fiore maschile della vita e dell’intelletto. È evidente, a una analisi più approfondita della filosofia antica, che quand’essa si riferisce alla donna si sta riferendo ad un Principio femminile e non alla donna comunemente detta, bensì a tutto un principio cosmico che è quello lunare e ctonio. Evidentemente si tratta del fatto che gli antichi hanno visto una profonda verità dietro al simbolismo del maschile e del femminile, simboli che tutt’altro che esaurirsi nell’identità biologica di uomo e donna, tradivano un ordine metafisico più alto, una diade fra il principio di espansione e il principio di contrazione, fra il principio dell’emissione e della ricezione. E questa tensione perpetua, questa Polemos, a detta di Eraclito, generava tutto il mondo visibile e invisibile.

Sembra, di primo acchito, che leggendo così superficialmente le teorie degli antichi sulla donna se ne possa dedurre, anacronisticamente, che essi odiassero le donne e le disprezzassero, ma non è così. Ad una analisi più approfondita scopriamo infatti che le donne avevano un largo ascolto e venivano elevate a Divinità. Grandi sono le donne che hanno avuto licenza poetica, le figure di sacerdotesse, consigliere, maghe e ancelle che sono assurte dai miti come centrali, pur mai avendo diritti di espressione politica. Si pensi solo al Mito delle Amazzoni, le donne guerriere. Le vestali, le ancelle della Dea Vesta, oppure le Pizie del Tempio di Apollo di Delphi, avevano un Sacerdozio al quale perfino gli uomini si sottomettevano. A Sparta i discepoli della Dea Artemide si sottomettevano a Lei e si facevano frustrare a sangue. I Coribanti della Dea Cibele si umiliavano per la Dea al punto da fustigarsi i genitali per obbedirLe. In India da una parte si sosteneva che l’oscurità del mondo era interamente da attribuirsi alla Dea Kalì, dall’altra però la si venerava in modo viscerale. Kalì, come il ventre materno, ci tiene all’oscurità nella sua placenta, al buio, relegandoci nella menzogna, lontani dal mondo delle Idee di Siva. Eppure proprio per questo è esaltata a massima potenza dell’universo. E perché?

Ma perché il principio femminile è necessario in quanto emanazione della stessa unità Divina che ha generato il maschile. La ricezione e l’umiliazione sono tanto necessarie quanto la creazione e la gloria. Tutte le vette sorgono dagli abissi, declamava Nietzsche. In ultima analisi per gli Indo-Ellenici tutto ciò che esiste è femminile, tutto il mondo dell’apparenza sensibile è naturato di femminilità, poiché ha avuto la ricezione della rivelazione. E per questo va adorato. La Dea va adorata proprio perché principio sottrattivo e non additivo. L’universo intero è un utero, o, per dirla con Platone, una caverna che proietta sullo sfondo l’ombra delle idee. Siamo tutti dei feti che ancora devono nascere e siamo cinti da una placenta divina.

Il Principio maschile è superiore al Principio femminile?

Per la filosofia antica la risposta è “Sì”; il maschile è superiore al femminile. Ma spieghiamo il senso di questa risposta affermativa. Abbiamo già detto che le donne erano considerate portatrici di un principio oscuro ed infero, a differenza di quello solare, maschile, portatore di luce e ragione. Come accennato sopra l’alchimia ha associato il fuoco al maschile, e l’acqua al femminile, e il fuoco va in alto e l’acqua va in basso come tutti sappiamo. Inoltre, nel mito greco Urano (Οὐρανός, Ouranós) il Cielo stellato viene evirato da Crono, uscito dal ventre della Dea Gaia, la terra.

Il cielo sta in alto e sovrasta la terra che è in basso, basta guardare fuori dalla finestra per constatarlo: il cielo, principio celeste e solare, sta sopra al principio terrestre e femminile. Questa è l’evidenza più chiara e naturale che abbiamo, nessuno ha mai visto il cielo stare sotto la terra! Ebbene, queste differenze geometriche, sono appunto differenze di valore. Se si parla di alto e di basso, di sopra e di sotto, allora si sta parlando di superiore e inferiore, ovvero di superiorità e inferiorità. “Inferiore” significa appunto –inferus-, basso, infero, che sta sotto, ovvero terrestre.

Ma ancora, si pensi al simbolo della croce celtica, che è l’unione di maschile e femminile, ovvero l’unione del simbolo del salnitro, (│), con il simbolo alchemico del sale (─) che porta alla croce appunto (┼), il sale sta nella terra, in basso, il salnitro è principio creatore che va in alto, e anche nel simbolo grafico è evidente di una differenza sull’alto e sul basso. Principi complementari certo, da porre in equilibrio, ma complementarietà ed equilibrio non tolgono ancora il diritto di considerarli uno superiore e uno inferiore. Considerare inferiore un Principio, e la sua manifestazione fisica, nella fattispecie nella donna, non significa per questo non rispettarlo, negarlo, eliminarlo od oltraggiarlo, tanto che abbiamo già detto che anzi, Esso è frutto di adorazione. Parimenti va considerato senza mai confonderlo. Al cielo ciò che compete al cielo e alla terra ciò che compete alla terra. Rendere paritari questi due principi, ovvero eguagliarli, disconoscerli in quanto tali, significa rovesciare l’intero equilibrio del mondo, attentando a una sovrastante armonia universale.

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59131

Salva

Il brodo primordiale

E’ una pubblicazione che potete leggere e scaricare qui:

altre notizie al link http://anni60.terzapagina.info/paolog/cronache.htm

Di nuovo, rispetto a un precedente articolo su apoforeti, il metodo di pagamento semplificato su Pay Pal

L’importo di 5 euro è precompilato, basta solo specificare il numero richiesto e la vostra mail

Saggezza antica

“Alla fine del primo settenario i denti da latte vengono sostituiti dai denti veri, alla fine del secondo si raggiunge la maturità sessuale, al terzo all’uomo spunta la barba (corrisponde cioè all’inizio della sua identità psicologica), il quarto è l’apogeo dell’esistenza umana, il quinto il momento del matrimonio, il sesto porta la maturazione della ragione, il settimo al compimento della comprensione e della ragione, l’ottavo è il momento della contemplazione, il nono il dominio delle passioni e quindi la giustizia e l’indulgenza. Tuttavia” ci dice Filone con un espressione che si è conservata nel tempo ” è meglio morire nel decimo, poiché quanto resta ancora da vivere all’uomo non è che fragile ed inutile vecchiaia”.

Filone di Alessandria