Hayek

Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo dato che egli era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla.

 

Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale. Alla fine della seconda guerra mondiale, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Successivamente ammise di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato.

 

Hayek fece una figura stupida: un professore alto, eretto e dall’accento pronunciato, in abito di tweed ben tagliato, che insisteva su un formale “Von Hayek”, ma crudelmente soprannominato dietro le spalle “Mr. Fluctooations”. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes. Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’Università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è “un’impresa penetrante e originale alla pari della microeconomia del XX secolo” e “la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia“. E comunque lo sottovaluta. Keynes non ha vissuto o previsto la guerra fredda, ma il suo pensiero è riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda; così anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek.

 

Hayek aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia assumendo che quasi tutte le attività umane (se non tutte) sono una forma di calcolo economico e possono così essere assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto prezzo. I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta. Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma, esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso. All’interno di tale società, gli uomini e le donne hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse. Attraverso la concorrenza “diventa possibile“, come ha scritto il sociologo Will Davies, “discernere chi e che cosa ha valore“.

 

Tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento – una classe media prospera e una sfera civile; istituzioni libere; suffragio universale; libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa; il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità – non ha alcun posto nel pensiero di Hayek. Hayek ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato.

http://vocidallestero.it/2017/10/19/neoliberalismo-lidea-che-ha-inghiottito-il-mondo/

4 pensieri su “Hayek

  1. Di conseguenza, la sfera pubblica – lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri – cessa di essere lo spazio della deliberazione, e diventa un mercato di click, like e retweet. Internet è la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo; uno spazio pseudo pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”. Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati. Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale.

    A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori.

    “Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute”, ha scritto una volta il filosofo ed economista Albert O Hirschman. “Un gusto che si può contestare, con se stessi o con gli altri, cessa ipso facto di essere un gusto – diventa un valore“.
    Ibidem

  2. La teoria degli stakeholder si presenta come un’impostazione progressista e socialmente responsabile, che considera oltre agli interessi degli investitori anche quelli degli altri soggetti interessati (in contrapposizione alla “shareholder theory”). Naturalmente è possibile trovare del buono nella tesi che occorre coinvolgere tutte le parti. Ma nella pratica la teoria degli stakeholder – che pone al centro l’impresa e in particolare le corporation – sostituisce a una concezione di limiti fissi all’attività economica, costituiti da diritti e doveri, il conflitto e la composizione “spontanea”, caso per caso, di interessi particolari e di diritti di soggetti diversi. E’ espressione della “cultura dell’egoismo” (11), che incoraggia anche i singoli cittadini ad avanzare rivendicazioni non in nome di principi universali, se non sul piano retorico, ma in nome dei propri interessi particolari, rappresentandoli in gruppo; “definendo i propri interessi nella maniera più ristretta possibile e astenendosi scientemente da qualunque rivendicazione più ampia o dallo stesso tentativo di formulare le proprie rivendicazioni in termini universali.” (11). Una sorta di corporativismo, ciò che voleva il fascismo ma col mercato al posto dello Stato come regolatore principale. Un’altra di quelle razionalizzazioni degli economisti, che vede chi è affetto da malattia e chi dalla malattia trae profitto galleggiare nella stessa acqua secondo la stessa indiscutibile legge fisica. Gli uni su materassini gonfiabili, gli altri su una portaerei.
    https://menici60d15.wordpress.com/2016/07/27/di-maio-e-la-lobby-dei-malati-di-cancro-il-paziente-come-stakeholder/

  3. In un articolo su Social Europe, gli autori di “Riconquistare lo Stato: una visione progressista della sovranità nazionale per un mondo post-neoliberale” sfatano una serie di miti che circondano il neoliberalismo odierno, in primo luogo il fatto che la globalizzazione sia una evoluzione necessaria indotta dall’avanzamento tecnologico, che riduce all’impotenza le sovranità nazionali imponendo nei fatti la riduzione dell’intervento pubblico nell’economia. È questo l’argomento tipico con cui la cosiddetta sinistra giustifica le “cessioni di sovranità” come inevitabili e necessarie. In realtà, gli autori argomentano come la globalizzazione non sia affatto una realtà consolidata, ma un processo attivamente promosso dai governi, frutto di scelte politiche precise a favore e nell’interesse del grande capitale. Si può quindi ben affermare che nel neoliberalismo gli stati non riducono affatto la loro presa sull’economia e sulla società, bensì impongono in modo anche pervasivo e autoritario le regole del capitale, tra cui fondamentale è la cosiddetta “depoliticizzazione” del processo decisionale nazionale, al fine che i rappresentanti non possano tener fede ad eventuali mandati “populistici” dei loro elettori.
    http://vocidallestero.it/2017/11/02/tutto-quello-che-sapete-sul-neoliberalismo-e-sbagliato/

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