Stratagemmi dialettici

Torna d’attualità l’eristica di Schopenhauer, la dialettica come stratagemma. Per usare il lessico del pensatore prussiano, capirne i meccanismi è squarciare il velo di Maya, “il velo ingannatore che avvolge gli occhi dei mortali”. La lettura dei suoi 38 stratagemmi dialettici è un istruttivo disvelamento di ciò che ascoltiamo ogni giorno da politici, pubblicitari, imbonitori, persuasori di ogni risma, con l’avvertenza che, secondo il pensatore tedesco, la dialettica non si occupa della verità oggettiva, riservata alla logica, ma è semplicemente l’arte di ottenere ragione. Compito del sapiente è quindi presentare e analizzare gli inganni della slealtà, “affinché nelle dispute reali li si riconosca e li si annienti subito”.

Diventa facile scoprire quante volte siamo sviati, coscientemente ingannati, dall’azione di chi porta l’affermazione avversa fuori dai suoi limiti, per esagerarla o estenderla oltre il suo significato, addirittura universalizzarla o intenderla sotto tutt’altro aspetto per meglio confutarla. Ci si può servire di premesse false per dimostrare la propria tesi, incalzare con domande continue per confondere l’avversario e trarre le conclusioni dalle stesse affermazioni della controparte, il metodo socratico privato della ricerca morale della verità.

Tutti espedienti che il lettore si accorge di aver subìto in innumerevoli occasioni, come lo stratagemma comunissimo di provocare a freddo l’ira dell’avversario per screditarlo e provocarne le reazioni inconsulte. E’ una strategia di cui si serve il potere culturale, largamente utilizzata nell’imposizione del linguaggio politicamente corretto, che sceglie i termini con cui designare le idee, le cose, i principi. Si introduce nel significato ciò che si vuole dimostrare, in senso favorevole o contrario. L’oratore tradisce la sua intenzione nei nomi che dà alle cose, in base all’orientamento e all’obiettivo che si prefigge.

Per Schopenhauer, funziona egregiamente l’impertinenza, specie se l’avversario è timido, più ancora la contraddizione, vera o presunta, imputata all’avversario, che può precipitare nell’ira. Lo stratagemma numero 18, assai utilizzato, invita a interrompere il discorso altrui quando se ne intravvede la fondatezza. Il suo corollario è rigirare la frittata, ovvero la diversione, andare fuori tema per sviare il discorso. Poi c’è il sofisma, che Schopenhauer consiglia di non controbattere, ma di assecondare ricorrendo a un contro argomento altrettanto sofistico e apparente. E’ buona norma esagerare la tesi avversa e trarne false conseguenze. Un tiro brillante è ritorcere contro il rivale l’argomento utilizzato.

Il momento più atteso dal sofista è quello dell’ira suscitata da un’affermazione. E’ il segno che l’avversario vacilla, dunque occorre non dargli tregua. Se si ritiene di avere dinanzi un pubblico poco colto il miglior partito è di avanzare obiezioni che destino l’ilarità dei presenti. Si raccomanda la petizione dell’autorità di uomini illustri, giacché, nota Schopenhauer “la gente ha rispetto per gli esperti di ogni genere”. Le loro tesi, se riusciamo a convincere che sono universalmente accettate, fanno un grande effetto sulle masse, “pecore che vanno dietro al montone dovunque le conduca”.

Questo è un punto su cui riflettere, poiché chi detiene il potere culturale e mediatico è padrone delle parole. Diventa difficilissimo attribuire a termini quali democrazia, libertà, progresso, tolleranza, razzismo, significati diversi da quelli comuni in un certo contesto e periodo storico. I molti, capì Platone, hanno molte opinioni, ma solo alcuni sono in grado di distinguere, discernere. “Io lo dico, tu lo dici, ma alla fine lo dice anche quello. Dopo che lo si è detto tante volte, altro non vedi se non ciò che è stato detto”, è il motto che Goethe pose in esergo alla Teoria dei Colori. La ripetizione di una menzogna può trasformarla in verità.

Un altro espediente che sperimentiamo quotidianamente consiste nel ricondurre il discorso avverso a categorie odiate o screditate, il che consente di non aprire neppure il dibattito. Quell’opinione è “fascista”, “comunista”, “reazionaria” a seconda del bersaglio da colpire. Non ci preoccupiamo troppo, quindi, quando l’attacco verte su queste pregiudiziali: è il segnale che temono il dibattito e intendono spegnerlo con le accuse che Leo Strauss chiamò “reductio ad Hitlerum”, ossia inserire l’antagonista nel novero di chi non è degno di aprire bocca. L’ultimo e definitivo stratagemma è ricorrere all’insulto. E’ la risorsa di sa di avere torto o è in difficoltà. Diventando insolenti, perfidi, oltraggiosi, grossolani, si fa appello alle forze dell’animalità e si colpisce nella vanità e nell’istinto. Gli esempi non mancano.

Schopenhauer si spoglia alla fine dei panni del manualista scettico e torna il pensatore provvisto di senso morale. Consapevole che la volontà di averla vinta, la brama e l’interesse di ottenere ragione non si fermano dinanzi alla menzogna, alla falsificazione e all’ingiuria, invita a discutere solo con chi ha abbastanza intelletto, ama la verità e sa ascoltare. Una vana pretesa nel mondo di Facebook, dei sondaggi d’opinione, di un’umanità persuasa di essere in grado di capire e decidere su tutto, folle che sono masse e mai popoli in cammino. La triste arte di averla vinta, cioè mentire ed ingannare è da sempre scienza comune di chi esercita o ambisce al potere. Nell’epoca della post verità, di masse che seguono “liberamente” il pastore e credono “consapevolmente” nel verbo di chi comanda, riecheggia il detto del cardinale Carafa: il popolo vuole essere ingannato, quindi che sia ingannato. ROBERTO PECCHIOLI

L’articolo L’ARTE DI AVERLA VINTA (impararla dai radicali) proviene da Blondet & Friends.

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