La didattica delle competenze

Se è vero, come notava Gramsci, che ogni questione della lingua pone un più ampio problema politico, ovvero un problema di egemonia e dominio sociale, dobbiamo comprendere fino in fondo perché e come il termine ‘competenze’ non sia affatto neutro e non ideologico, da quali ambiti disciplinari extrascolastici giunga, da chi e perché sia stato importato nel mondo della scuola e imposto con una tenacia, un’insistenza e, oserei dire, con una violenza pari, nella nostra storia, solo alle imposizioni culturali e politiche, alle leggi messe in atto nella società e nella scuola dal regime fascista nel ventennio tra le due guerre.

Arrivando, e qui mi spingo ancora oltre nella mia provocazione, a intaccare gli anticorpi democratici della nostra Costituzione, che, non a caso, dichiara con forza all’articolo 33 che ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’. Sottolineo, ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’.

Ma è ancora così? Siamo ancora liberi di insegnare quelli che Franco Fortini, in una straordinaria antologia per il biennio degli istituti tecnici del 1969, chiamava ‘gli argomenti umani’?

Siamo ancora liberi di procedere, lentamente e gradualmente, con i necessari tempi lunghi, insieme ai nostri studenti, in percorsi di conoscenza condivisi, significativi, formativi sul piano della riflessione, del ragionamento e dell’analisi di noi stessi e del mondo? Siamo ancora liberi di pensare in modo ‘disinteressato’, senza il giogo dell’utilitarismo, della spendibilità, della trasferibilità, del ricatto di un mercato del lavoro che inganna i nostri studenti due volte: quando impone a scuola una formazione al lavoro che spesso è fasulla e che però sempre li depriva del diritto allo studio, e quando nasconde che la repentinità dei suoi cambiamenti richiederebbe, esattamente al contrario di quanto accade, una formazione assai più astratta e speculativa, assai più tarata su quei saperi logici e filosofico-critici che proprio la dimensione teorica delle discipline – letterarie, artistiche e scientifiche – permette di attivare e stimolare.

Conoscenze ampie, non competenze minimalistiche. Dimensione simbolica, non concretismo. Percorsi di astrazione, non compiti di realtà, dove poi la realtà nel cui recinto si pretende di chiudere i nostri studenti è sempre quella economica, produttivistica e consumistica: è quella che ci vuole tutti ‘soggetti di prestazione’, attraverso le forme di un disciplinamento in cui ciascuno di noi sfrutta sé stesso perché chiamato ad essere imprenditore di sé stesso, trasformandosi in soggetto d’obbedienza.

Siamo ancora liberi di immaginare una scuola umanistica, nel senso etimologico del termine e quindi senza distinzione tra le due culture, in cui il profitto, in termini culturali e economici, non abbia diritto di cittadinanza, in cui non ci siano contabilità di debiti e crediti, in cui gli studenti prima ancora che come lavoratori, prima ancora che come cittadini, siano considerati persone, una scuola in cui si possa insegnare e imparare a vivere, come diceva Spinoza, “una vita propriamente umana”?

Perché dico questo? Perché, a mio avviso, lo spostamento forzoso del baricentro delle attività didattiche verso il concetto di ‘competenza’ sta mettendo profondamente in discussione una certa idea di scuola, una buona idea di scuola, ancorché antica o forse proprio perché antica, cancellandola per sempre. E con conseguenze, a mio avviso, devastanti, per ciascuno di noi. Perché la scuola non è un’agenzia educativa, non è un servizio messo a disposizione dalla comunità, è un’istituzione dello Stato e tutti noi, 60 milioni di italiani, ne siamo, ma non come si intende oggi nella neolingua economicistica che domina il discorso pubblico, portatori d’interesse

Vorrei innanzi tutto sgombrare il campo da una serie di equivoci con cui, volutamente, i fautori delle competenze e della neopedagogia cui alludevo all’inizio del mio ragionamento (e cioè, burocrati, legislatori, pedagogisti, accademici, intellettuali, esperti e varia umanità, addetti istituzionali nazionali e sovranazionali) legittimano le loro posizioni innovative: a scuola si fa una didattica trasmissiva, tutta incentrata sul docente e non sul discente, basata su presupposti superati, quali l’ora di lezione, la lezione frontale, la classe, l’aula. A questo, considerato vecchiume da rottamare (e teniamo presente che la migliore tradizione della rottamazione viene, in Italia, da sinistra ma si sovrappone perfettamente alle finalità anticulturali della destra) contrappongono una serie di misure moderne, spacciate come più efficaci (badate bene, spacciate come più efficaci, altra mistificazione culturale e basterebbe leggere l’ultimo libro di Susan Greenfield Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli per assumere un altro punto di vista, questo sì scientificamente fondato): la flipped classroom, il CLIL, la scomposizione del gruppo classe, il DADA, la Lim, lo smartphone e in generale le nuove tecnologie informatiche, il libro digitale autoprodotto, la didattica laboratoriale, il debate, l’insegnante come mediatore, accompagnatore, animatore digitale, attivatore di competenze attraverso appunto esperienze e compiti di realtà che nulla abbiano a che fare con la tradizione culturale, con la memoria storica e col libro.

E’ qui che si incardina, a mio avviso, l’operazione di mistificazione lessicale, concettuale, culturale e politica che sta minando la scuola italiana fin dalle fondamenta. A dispetto di un mondo che sempre più privilegia istintività, immediatezza, disintermediazione, spontaneità acritica, superficialità (e che ha trovato nei social network la perfetta espressione di questa nuova, pervasiva, dimensione dell’esistenza) la scuola italiana ha mantenuto nel tempo e con tenacia il valore della conoscenza, della cultura, del pensiero, della ricerca, dell’indagine, della speculazione e dell’esplorazione della complessità. Ma in un mondo sempre più piegato alle logiche del mercato e del profitto, di un capitalismo ferocemente estrattivo che dopo aver depredato la natura e le sue risorse attraverso lo sfruttamento della forza lavoro dei corpi umani oggi trova nelle nostre menti, nei nostri sentimenti, nelle nostre attitudini trasformate in big data nuovi pascoli da desertificare, ecco in un mondo così configurato oggi anche la scuola deve piegarsi alle logiche economiche che permeano scelte politiche scellerate. Non è, a onor del vero, una novità assoluta: la scuola ha sempre anche riprodotto l’ordine sociale vigente (basta leggere Bourdieu e Passeron o, in Italia, le ricerche degli anni Settanta sulle vestali della classe media) ma con un margine fondamentale che oggi sembra essere scomparso dall’orizzonte del nostro sguardo: l’accesso ai saperi implicava anche la critica dei saperi, la messa in discussione dell’esistente, la possibilità della scelta ideologica, che è sempre una scelta di campo, per i docenti e per gli studenti. E’ancora praticabile oggi questa scelta di campo? E’ ancora possibile oggi scegliere un proprio metodo tra i tanti? Quali sono i nostri margini?  E quali le condizioni, le implicazioni, le limitazioni? Quali spazi di autonomia ci lascia a scuola il giogo delle competenze, impostoci in questi termini e con tale, diffusa, penetrante, insistenza?

Leggi tutto su http://appelloalpopolo.it/?p=50230

Anna Angelucci

Intervento al convegno nazionale “A scuola di competenze: verso un nuovo modello didattico. Quale?” organizzato da Gilda degli insegnanti di Vicenza e Associazione docenti Articolo 33 (Vicenza, 18 marzo 2019)

fonte: www.roars.it

 

L’insopportabile pubblicità

Le cause generali di questo non sono per niente misteriose: la marcescenza del neocapitalismo globale che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri,  la precarietà  del lavoro,   la  natura “terminale”  del capitalismo finanziario come di una Unione Europea  che si proclama custode di moralità e democrazia e non riconosce d’essere diventata una oligarchia dispotica ed arbitraria dei forti contro gli Stati deboli.  Rabbia dal basso  e cattiveria  spietata dall’alto sono –  o anche l’inverso – denunciano la comune prigionia in un sistema radicalmente sbagliato e giunto al capolinea, ma che non si s o non si vuole cambiare.

A  queste cause generali  Philippe Grasset (l’analista-filosofo di Dedefensa),   chinandosi sul “furore  collettivo”  che muove in Francia  da mesi, sulla “colère” sulla “amertume”  che esprimono i Gilet Gialli (la Francia periferica) ma anche i “colorati”  delle banlieues in guerra civile permanente con la polizia,  sul  motivo di tanta rabbiosa  incattivimento,  ne  aggiunge un’altra: la pubblicità.

Pubblicità?  Già. La pubblicità  esprime una straordinaria ideologizzazione a favore del Sistema. Molto più efficace  nell’imbevere la gente dell’ideologia del Sistema –  edonismo, trasgressione conformista ed approvata, consumismo, “modernità”  – immensamente più  di quanto siano i media e  la stampa, i tecnocrati, gli economisti, gli “esperti” della globalizzazione. Quelli, in fondo, pochi li leggono o ascoltano. Ma  la pubblicità  è continua, incessante,  onnipervasiva; vi siamo  pienamente immersi ; ed essa “ha il vantaggio di poter pretendere di agire al di fuori di ogni ideologia, di ogni scopo politico”, ma solo di vendere e far comprare. “La pubblicità non affronta  mai direttamente l’argomento politico in favore del Sistema,anche se lo esprime massicciamente, con forsennata ideologizzazione”:  la felicità come consumo, il  prestigio acquistabile con oggetti, la trasgressività conformista, la sensualità  promossa e legittimata, edonismo permissivo.

“Enormemente presente in tutto il sistema di comunicazione e specie nella televisione, corrotta e corruttrice e riconosciuta come tale,  è enormemente ripetitiva:  senza  che nessuno si indigni o protesti”.

Ciò  perché  “il pubblico non domandava che di essere condizionato.  La pub non imponeva un mondo al suo pubblico, essa anticipava il mondo di cui il pubblico voleva  far parte”.

Non è sempre stato così. Philippe Grasset, che da giovanissimo è stato per qualche tempo copywriter in una delle grandi agenzie pubblicitarie francesi, ricorda che  fino ai primi anni ’60,   non c’era  la pubblicità; c’era la Réclame:  cosa essenzialmente modesta, per nulla invasiva, confinata in qualche colonnina di giornale o di manifesto di modeste dimensioni.    Solo verso gli anni ’60 “si passa  veramente dalla réclame alla pubblicità,  ossia da una attività d’influenza statica e convenzionale a  una attività d’influenza dinamica e modernista”,    “creativa” e seducente, con pretese di arte espressiva: adotta tutti i trucchi  e le seduzioni del cinema, vi partecipano grandi registi,  paesaggi tropicali e favolosi, donne di sogno … e il “sogno americano” come  sfondo e come modello del benessere nuovo e diffuso.  Basta ricordare l’Uomo Marlboro come modello di virilità.

Il punto è che, allora,  la gente pensava  che  di quel mondo di comfort  e bellezza, avrebbe fatto parte. Erano tempi “di salari in aumento, prospettive di miglioramento  e bassa disoccupazione;  tempi di vacanze esotiche (Club Mediterranéee), di nuove auto”…

Ed oggi? Oggi la pubblicità è diventata ancora più potente e seducente, più oltraggiosa ed eccessiva, più pseudo-trasgressiva, più evocatrice di lussi e sensualità eccessivi , di  messaggio che tutto è permesso per la felicità vostra  – ma è il  pubblico che è cambiato. Sono cambiate le sue condizioni sociali, cadute le sue speranze di entrare nel mondo lussuoso dipinto dalla pubblicità.

https://www.maurizioblondet.it/riflessione-sullincattivimento-generale-centra-anche-la-pubblicita/

Un centenario scomodo

Il 23 marzo 1919, a Milano, in una sala concessa in affitto dall’industriale massone ed ebreo Cesare Goldmann, nascevano i “Fasci di Combattimento”. Oggi ricorre il centenario di quell’evento destinato a cambiare profondamente la struttura sociale dell’Italia e la storia del mondo intero.

In quella sala milanese cento anni fa si riunirono sindacalisti rivoluzionari, mazziniani, nazionalisti, anarchici, futuristi, socialisti massimalisti, interventisti di destra e di sinistra, sindacalisti corridoniani e altre componenti della sinistra eterodossa polemica verso il dottrinarismo del socialismo ufficiale. Dal quel congresso, di poche decine di uomini, che la stampa all’epoca quasi ignorò, nacque il cosiddetto “Programma di San Sepolcro”, dal nome della piazza del convegno, alla cui stesura collaborò il sindacalista rivoluzionario mazziniano Alceste De Ambris (che finì esule antifascista a Parigi). Era il manifesto politico del primo fascismo, quello di sinistra, socialista ma anche nazionalista democratico, con forti pulsioni anarchiche ed anticlericali. Basta leggere quel manifesto per toccare con mano l’essenza rivoluzionaria, nient’affatto conservatrice, del documento. In esso si parla di gestione operaia dei servizi pubblici, di espropriazione parziale delle ricchezze, di minimi salariali, di partecipazione dei lavoratori agli utili, di otto ore giornaliere di lavoro e di istituzione di consigli nazionali di tecnici del lavoro con poteri legislativi. Tutti temi che ritroveremo nell’ultimo documento promulgato dal fascismo morente e del quale diremo. Il lettore trova il Programma sansepolcrista nella sezione di “documentazione storica”

I Fasci di Combattimento non ebbero successo elettorale. Fu così che Mussolini, mentre imperversava il cosiddetto “biennio rosso”, iniziò una virata verso destra. La Rivoluzione russa aveva dato motivo al partito socialista – di lì a poco a Livorno nel 1921 sarebbe nato da una sua costola il PCI (tra i fondatori quel Nicolino Bombacci che sarebbe morto a Salò in nome del socialismo fascista) – di mobilitare le masse nel generale malcontento del primo dopoguerra.

Leggi tutto https://www.maurizioblondet.it/23-marzo-1919-23-marzo-2019-un-centenario-scomodo-di-luigi-copertino/

 

La società livida

Dall’America, insieme a mille altre sciocchezze, abbiamo importato i contratti matrimoniali, le minuziose descrizioni di ciò che si può e non si può fare in coppia, diritti, doveri, i rapporti economici come principale campo di battaglia, poi il sesso, la custodia e il mantenimento dei figli, a numero programmato sotto pena di risarcimento e, sul medesimo piano, gli animali domestici. Una vita ridotta a assemblea permanente con tutor, avvocati, consulenti, moduli burocratici e esperti di sostegno, i sentimenti relegati nella partita doppia, i figli a me dalle 8 alle 12, poi a te per due ore, le scarpe a mio carico, la scuola a te, per me il calcetto del mercoledì, a te il collettivo con le compagne il sabato, baby sitter a mio carico, il dog sitter lo paghi tu, se resti incinta aborto libero, nel capitolato non è previsto il secondo figlio, paga lo Stato, il ticket per fortuna è detraibile. Il trionfo del mercante in un deserto senza oasi.

Il risultato è la fine del matrimonio e il trionfo del rapporto occasionale, la pulsione al posto dei sentimenti, l’attimo in luogo del progetto a lungo termine, l’universo “liquido” di relazioni brevi, basate sul piacere (proprio) e tutte le forme di interesse: un mercato indegno dell’essere umano. Il neo femminismo si è trasformato in religione settaria con una forte dimensione messianica.  Hanno raggiunto la verità assoluta, dividono il mondo tra amici e nemici da distruggere, dietro il velo sempre più impalpabile della tolleranza emerge il totalitarismo, l’odio iracondo per l’uomo, l’altro/a, per chi osa non essere conforme. Lo scritto della Cirinnà è rivelatore: è “vita de merda” – anche l’ortografia ha regole nuove, non eteropatriarcali – tutto ciò che non si piega al modello settario. E’ un miscuglio indigeribile di nazismo (la nuova razza superiore tutta al femminile) e di veterocomunismo (le leggi ad hoc, nuove burocrazie al servizio dell’ideologia, la pulsione a omologare, schiacciare, il divieto del dissenso).

Ogni gesto, sguardo, azione, intento deve essere analizzato, scrutato, sottoposto a giudizio da parte di nuove burocrazie, tribunali del pensiero che confermano la vera natura del fenomeno, un po’ nazi, un po’ giacobino, il resto neocomunista: inquisizione, delazione più gogna sulle reti sociali e, quando necessario, aggressione fisica, disprezzo intellettuale, emarginazione. Un mondo fatto di sfiducia reciproca con una vittima e un carnefice designato a priori il cui destino è l’alternativa tra essere riconfigurato o condannato preventivamente. Risorge la fisiognomica criminale di Lombroso in versione anti maschile, nuovi pregiudizi al posto di quelli vecchi, bella emancipazione, splendido esercizio di libertà, democrazia, tolleranza dell’ideologia progressista.

Nel corso del carnevale, in alcuni paesi è stato esplicitamente vietato, con tanto di pesanti sanzioni, lo scherzo, la battuta scherzosa, in quanto sessista oppure omofoba o, Dio non voglia, razzista e maschilista. Strano solo in apparenza il divario tra il femminismo, sempre buono e giusto, e il maschilismo. Il giudizio è contenuto nelle parole, come insegna il politicamente corretto, scissione della realtà dai termini che la esprimono per caricarla del contenuto etico voluto. La censura non cambia, mutano solo i bersagli.

Dicevamo che il nuovo femminismo è il filo che collega una serie di totem postmoderni. Il loro punto di congiunzione è l’idea comune sull’aborto. Banalizzato come meccanica espulsione di cellule indesiderate dal corpo della donna, in cui si sarebbero introdotte abusivamente (??) per colpa dell’animale maschio, il rigetto della gravidanza indesiderata si è trasformato in rifiuto complessivo della maternità. Gruppi di donne autonominate “child free” sono ostili alla prospettiva di essere madri. Certo, è faticoso portare in grembo un figlio per nove mesi, partorire comporta dolore e dei rischi, poi il bimbo (o la bimba, bisogna stare attenti a non macchiarsi di maschilismo grammaticale) nasce e bisogna accudirlo, crescerlo, educarlo. Per questo reclamano più Stato, a spese altrui, per scaricare responsabilità e disagi tra esperti, figure professionali in camice bianco, consultori, personale “di sostegno”.

https://www.maurizioblondet.it/neofemminismo-il-colore-del-rancore/

Attenti al panurgo che c’è in voi

di qui la frase i montoni di Panurgo (les moutons de Panurge), passata proverbialmente a indicare la pecoresca mentalità delle folle.

il Simplicissimus

depositphotos_13296145-stock-photo-panurge-sheepsOggi voglio tentare un’idea disperata: introdurre l’uso di una parola non inglese in questo italiano disarticolato, primitivista e allo stesso tempo barocco grazie all’opera della Rai che dopo essersi venduta i congiuntivi per fare populismo e audience,  si è dedicata alle più scialbe ridondanze tipo giovane ragazza o locuzioni inutili come” quello che è” una certa cosa. Bene mi piacerebbe che venissero accolte le parole panurgismo e panurgo, entrate nel francese, nello spagnolo e nel portoghese sulla scia della saga rabelesiana di Gargatua e Pantagruel. Da noi quella straordinaria serie romanzi ha lasciato solo l’aggettivo pantagruelico, ma sarebbe quanto mai opportuno cominciare ad usare i nuovi lemmi, derivati dal personaggio di Panurge,  essendo straordinariamente utili a descrivere la realtà, anche se non proprio bellissime. Nelle altre lingue citate l’aggettivo e il sostantivo hanno ormai cinque secoli e si sono fossilizzati in Francia col significato di spirito gregario, di “pecorismo” se…

View original post 523 altre parole

Sulla stessa barca

No! Non ci siamo proprio, care e cari Laura Boldrini, Ornella Vanoni, Giuliano Pisapia, Roberto Vecchioni, Claudio Bisio, Amelia Monti, Malika Ayane, Giobbe Covatta, Lella Costa e tutto il Circo Barnum, che insieme a tanti milanesi (più o meno ingenui) vi siete ritrovati in piazza per la manifestazione antirazzista, ostentando lo slogan: «Siamo tutti sulla stessa barca».
No, cari tutti… siete dei mentitori perché qualunque mieloso e suggestivo proposito possiate portare avanti, non siamo sulla stessa barca!
E cerco di spiegarvelo in maniera diretta, seppur molto sintetica.
Chi vive nei centri storici delle città e non nelle periferie degradate, non è ”sulla stessa barca” con gli altri.
Chi non fa lavori ”comuni” e, quindi, non riesce (o non vuole) comprendere che si stanno demolendo i diritti dei lavoratori per via di questa rincorsa verso il peggio che obbliga alla ricerca di mano d’opera a basso costo, non è ”sulla nostra stessa barca”.
E chi non capisce che questa corsa al ribasso dei salari danneggia essenzialmente le fasce di lavoratori meno professionalizzati e quindi più esposti (e di conseguenza più poveri) non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi non vede (o non vuole vedere) che la popolazione straniera residente continua a crescere, anche se di lavoro ce n’è sempre meno, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi non considera il fatto che, insieme a tanti poveri cristi, arrivino tanti delinquenti e criminali, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi crede che, nonostante una infinita crisi economica, sia possibile continuare a spendere per un’accoglienza tramutasi in assistenzialismo perpetuo a carico dello Stato, perciò togliendo risorse a famiglie italiane nelle stesse condizioni, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi non capisce che, non potendo accoglierli tutti, vi sarà una parte non irrisoria di immigrati che troverà strade alternative, e sarà arruolata dalle nostre organizzazioni criminali (Mafia, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona), non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi non afferra il concetto che molti di questi immigrati aspirino all’accoglienza ma non all’integrazione, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi fa finta di illudersi che a costoro (non a tutti, ovviamente!) nulla importi della laicità dello Stato, dei diritti delle donne e dei minori, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi non avverte il pericolo che vi sia una diversa sensibilità sull’esigenza di isolare violenza e terrorismo, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi non vede le dimensioni dell’ulteriore impoverimento dei Paesi di provenienza causata da questa fuga in massa, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi fa finta di credere che i flussi migratori non siano incoraggiati da un pensiero globalista di stampo neo liberista (e quindi da multinazionali e organizzazioni varie) ma alimentati spontaneamente solo dalla disperazione e dalla povertà, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Chi è un apolide, che non ha a cuore l’identità della propria nazione, e quindi non viene turbato da continue e persistenti iniezioni di multiculturalismo, e che non ha interesse nel contrastare ogni fenomeno che porti alla destrutturazione e all’indebolimento delle identità comunitarie, non è ”sulla nostra stessa barca”.
Infine… chi prende il taxi e mai un bus o la metro, non può capire cosa significhi stare su un barcone. Al massimo, su uno yacht!

Luigi Iannone

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=61690

Misteri

Uno dei ministeri fondamentali, perché riguarda il futuro immateriale della nazione, quello della Pubblica Istruzione, sembra essere il refugium paccatorum dei demagoghi, degli incompetenti, dei conformisti, dei confusionari. Si pensava che la rossa Fedeli, che gabellò un diploma inesistente, fosse il peggio del peggio, ma ci eravamo illusi. Infatti la Lega non ha trovato di meglio da insediare al suo posto nel palazzone umbertino di Viale Trastevere che un personaggio non molto migliore. Un ministro che avesse voluto segnare una “discontinuità” con il passato, come amano dire i gialloverdi, non solo avrebbe dovuto neutralizzare le direttive generali  demagogiche e ideologiche della suddetta signora, ma procedere controcorrente e ripristinare disciplina, rispetto, ordine in un ambiente, come quello scolastico, che ornai sembra oscillare tra l’anarchia e il western, come dimostrano innumerevoli episodi di cronaca quasi nera che tutti conoscono.

Alla poltrona della Fedeli vi  è stato invece insediato un certo Marco Bussetti di anni 57, già insegnante di ginnastica, già allenatore e dirigente di una squadra di pallavolo, già dipendente del Provveditorato di Milano, il quale a quanto pare intende procedere lungo la via della cretinizzazione dei ragazzi, come dimostra la questione dei cellulari in classe.

Una proposta di legge presentata da due deputati, uno della Lega e uno di Forza Italia, vorrebbe proibirli a scuola e in classe. Secondo il signor ministro invece cellulari & affini sono “strumenti didattici”. Il poverino  pensa infatti che i giovani si possano autocontrollare e usarli soltanto quando servono di ausilio per certe lezioni e tenerli poi spenti in tasca quando non servono. Beato lui! Evidentemente non legge le cronache, non ha figli che vanno a suola, non è entrato mai in una classe durante una lezione, non ha mai parlato con docenti e presidi. E evidentemente nemmeno sa che in  Francia per legge i telefonini, gli smartphone e i tablet soprattutto, sono vietati alle elementari e alla medie, regolamentati alle superiori. E nemmeno sa di quella scuola di cui è stato anche scritto su queste pagine, che li ha vietati e alla cui regole gli allievi si sono adattati senza avere quei traumi che moti paventano. Mentre il caso vuole che negli stessi giorni di queste sue banali dichiarazioni il famoso istituto Massimo di Roma, retto dai gesuiti, ha intrapreso questa via; gli aggeggi elettronici si consegnano all’ingresso della scuola e si restituiscono all’uscita, a meno che non servano effettivamente di ausilio durante una lezione…

Se la legge non passa o verrà insabbiata continueremo ad avere ragazzini e ragazzine distratti e ignoranti che usano lo strumento che hanno in tasca anche per filmare quel che avviene in classe e sbatterlo in rete, ricattare i loro compagni e fare altre sciocchezze del genere che hanno portato anche a veri drammi, con grande soddisfazione del ministro Bussetti che certe cose non le conosce perché a quanto pare  non  legge i giornali e non quarda la televisione, oppure nessuno dei suoi sottoposti gli redige un “mattinale” che gli illustri quel che succede nelle scuole italiane che da lui dipendono

Se per caso passasse, il ministro dovrebbe avallarla e non boicottarla, e presidi e docenti dovrebbero applicarla con convinzione senza far finta di nulla, e i genitori farsene una ragione, senza comportarsi come quei sindaci che, quasi fossero uno Stato nello Stato, non vogliono applicare il Decreto Sicurezza e fanno come meglio piace a loro. Di certo si dovrebbe far fronte alle levate di scusi dei fanciulli e dei devoti mediatici. Una prospettiva non da poco con l’aria che tira e che a quanto pare il ministro Bussetti non ha il coraggio e la convinzione di affrontar. Assai meglio vivere tranquilli, seguire la corrente limacciosa del conformismo più che della storia. Ma ecco perché la scuola italiana è agli ultimo posti delle graduatorie europee…

http://www.barbadillo.it/80970-il-caso-il-marziano-bussetti-se-litalia-ha-il-ministero-della-pubblica-ignoranza/