Essere liberi e disperati, oggi, in un mondo al contrario, è logico; il passato non si interrogava sulla felicità perché si era felici, inavvertitamente. Parecchi di noi hanno vissuto la felicità senza saperlo. Solo la nostalgia ci ricorda, per vie indirette, tale sconosciuta agê d’or.
I crocevia della vita, oggi, vengono sottoposti al microscopio della bontà; gli atti più banali son al dazio del politicamente corretto; una legge eterodossa li regola; ne nascono rivendicazioni idiote, conflitti infecondi, blocchi mentali, allagamenti neri della volontà. Cosa siamo se non grovigli sfilacciati, senza capo né coda, che martoriano perenni il proprio essere alla ricerca della bontà – una bontà instillata dal potere come falsa aspirazione? Qualsiasi rapporto umano risulta impossibile se nessuna cosa è scontata e tutto deve sottoporsi a infiniti vagli, decisioni, bilanciamenti. Se ogni postulato morale viene abolito, la vita deve essere continuamente de-cisa in nome di una legge a noi estranea e imposta con la suasione del falsario. Inevitabile, perciò, la frenesia, la preoccupazione, la cronica mancanza di tempo: non ho tempo, scappo, ne riparliamo domani, adesso no, vediamo, ci risentiamo. Il tempo sfugge, sminuzzato in attimi mai connessi fra loro, e sperperati alla ricerca di ciò che era, prima, cristallino, innegabile, razionale, non detto. Intuizioni senza parole. L’homunculus postmoderno non ha mai tempo, il tempo appartiene ai signori, la plebaglia, sette miliardi di plebei, non potrà più disporne, affaccendata com’è a lottare su questioni che riposavano prima in una placida, irrefutabile, sensatezza. Sfinito ed esacerbato (lo stress!), l’homunculus non legge, non studia, non si interessa di nulla; gli manca la curiosità che nasce dalla meditazione, è privo di azione, motionless, eternamente affannato, anche se, alla fine, non produce alcunché, deve sprecare giorni, mesi, anni in miriadi di questioni, prima inesistenti; ha abiurato la manualità, il mestiere, l’arrangiarsi: non sa fare più niente, nemmeno annodarsi una cravatta o farsi una treccia. I figli prima obbedivano ai genitori, quindi ai maestri; i sentieri erano già tracciati, non dovevamo forzare il destino. Ora non è più così, la democrazia incombe, il progresso reclama nuove mete, i piccoli tiranni psicopatici vantano diritti, come i barboncini col cappotto o i trans da riporto; i mocciosi si vestono come vogliono, in spregio al decoro e alla continenza, sono sboccati quanto adulati, non studiano, scambiano i Normanni con lo sbarco del 1944, biascicano, bofonchiano parole mozze, spendono centinaia di euro, ma genitori e precettori zitti, non una parola, uno schiaffo ti fa carnefice, un urlaccio e parte il Telefono Azzurro, l’Unicef, la Carabiniera. Prima dieci figli venivano allevati, in silenzio, come gattini, ora un moccioso qualsiasi sfianca coppie di genitori, di nonni, di nurse e legioni di costosi educatori privati.
Devastato, confuso, alla deriva, il micco postmoderno ricerca la felicità, ma non fa che gettarsi sempre più nelle fauci dell’edonismo straccione, per di-vertirsi, non ascoltare, dimenticare le voci del quotidiano che gli rimbombano nel cervello. Signori, eccovi qui lo psicotico perfetto, l’uomo che riparte sempre, senza passato, che deve decidere senza soste, lo stupido per cui il sole è nuovo ogni giorno, lacerato, straziato, senza pace, senza padri e madri, privo di ombelico: uno schizoide o, peggio, uno schizofrenico irrequieto e delirante che scambia l’SPDC per esotismo e vacanza: il malato, insomma, l’Italiano malato, canceroso, avido di oblio, droghe e perversioni legalizzate dall’amore universale; la narcosi da Champions League e Montalbano si discioglie dalle flebo multinazionali, goccia a goccia, finalmente, a sedare il paziente.
Maria De Filippi ha compreso il malato italiano più degli antropologi e dei politologi da visore, stupidi come zucche, e se ne serve per imbonire ad altri malati un berciante serraglio quotidiano: puttanoni, satiri da quattro soldi, vecchi sguaiati, invertiti da naftalina, transessuali spirituali, aristocratiche superciliose col tatuaggio sulle chiappe sono gli animali impagliati d’un Paese che ha rinunciato a sé stesso, a essere ciò che è sempre stato, reazionario, francescano, sobillatore, vigliacco, raffinato e cauto, sepolcrale e rodomonte, ma sempre vivo; e ora eccolo qui, in un vagabondare cieco, impossibile da redimere, micco e inefficiente, solo capace di sopravvivere sugli allori di passati fasti, peraltro ripudiati. Forse il 20% degli Italiani ormai produce davvero, la nazione è finita, sovranisti o no, non ci si accorge della disfatta solo perché si sacrificano al conquistatore prede e vergini, su migliaia di altari, giorno dopo giorno: oggi una fabbrica o un marchio, domani un’intelligenza, un brevetto, un porto. E si va avanti, nella finzione d’essere ancora noi e non una porzione geografica affittata alla Monarchia Universale.
estratto da https://alcesteilblog.blogspot.com/2019/04/martino-vu-divagazioni.htm
Sono tutti toy boy dei poteri reali nelle loro diverse forme. La loro insincera sincerità, simile a quella del venditore di auto usate, svela il loro vuoto interiore e politico che è anche un vuoto umano, perfetti esemplari di spicco di un’antropologia del declino che prende due intere generazioni: non sanno nulla del passato, né hanno una cognizione del futuro, ma vivono la mediocrità sterile dell’eterno presente. E tuttavia non colgono mai l’attimo, perché per farlo è necessario avere il senso di tutte le dimensioni del tempo . Essi in effetti rappresentano l’ultimo e perverso stadio del consenso democratico in Occidente, quello che prelude alla caduta definitiva o alla rinascita: sono specchi opachi nei quali alcuni pensano di ravvisare se stessi e la loro confusione, mentre altri non riescono a scorgere i tratti malsani e pericolosi
https://ilsimplicissimus2.com/2019/04/05/i-toy-boys/
Mimnermo (VII a.C.), qui nella traduzione di Salvatore Quasimodo:
Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età,
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.
Ma le nere dèe ci stanno a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita
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