Formazione

Prima gli ultimi. No, prima i nostri. No, prima loro, i migranti. No, prima i giovani, le donne, le quote rosa o delle altre categorie discriminate. La battaglia delle priority prosegue senza sosta e senza punto d’incontro. E se, più semplicemente, dicessimo “Prima i primi” ovvero chi ne ha diritto, perché è arrivato primo o per primo, cioè i capaci e i meritevoli, i migliori, chi ha i titoli, l’anzianità e le competenze? E se il problema italiano non fossero le élite ma la loro assenza e il loro mancato ricambio? Andiamo con ordine.

Prima gli ultimi, dice Papa Francesco, e sul piano pastorale nulla da dire. Giusto soccorrere chi sta male, aiutare prima chi sta peggio; un cristiano non può eludere la carità. Ma adottare la priorità degli ultimi come criterio sociale di vita pubblica è una catastrofe. In verità il Vangelo di Matteo dice: “Beati i poveri in spirito perché di loro sarà il regno dei cieli”; non promette ai poveri il regno della terra e l’accoglienza ovunque. Tuttavia sul piano religioso la carità come dedizione personale e comunitaria è un grande valore. Ma se diventa criterio distributivo nella vita pubblica e metodo di selezione pubblica, allora le società si deteriorano, degradano verso il peggio. La stessa cosa vale se gli ultimi che diventano i primi sono i migranti e i profughi. Si può apprezzare l’intenzione morale, la tensione etica di questa apertura ma in questo modo una società deperisce, subordina le esigenze reali e prioritarie di tutti cittadini a soddisfare i bisogni di chi viene da lontano.

Nefasta è pure la logica delle quote riservate, pur se animata dalle migliori intenzioni: prima le donne, prima i giovani, prima le categorie deboli e protette. Ma la priorità di genere, d’anagrafe o di categoria contrasta con la meritocrazia, mortifica i titoli, le qualità, l’esperienza, il talento; considera solo i disagi, i fattori momentanei o le fragilità vere o presunte; non si pone dal punto di vista della comunità, delle ricadute sociali, ma solo dal punto di vista dei soggetti deboli da aiutare. Risarcisce le disparità passate, creando disparità presenti e future. Così pure fu la rottamazione dei seniores da parte di Renzi. Non basta essere giovani o non avere precedenti (penali e non solo), per essere preferibili; si può essere giovani e inetti, incensurati e incapaci, innocui e imbecilli. Gli esempi sono innumerevoli…

Prima i nostri, o Prima gli italiani, come dice Salvini (o America First di Trump), garantisce coesione sociale e solidarietà comunitaria, riconosce le identità e le appartenenze, dà valore alla cittadinanza. Ma può valere in alcuni ambiti primari, nelle modalità d’accesso all’assistenza, all’assegnazione delle case popolari, alle graduatorie per lavori generici o per necessità elementari. Ma è un metodo inadeguato di scelta nelle attività ad alta specializzazione o ad alta responsabilità o per selezionare competenze professionali, ruoli direttivi, ceti dirigenti. Non si può preferire “uno dei nostri” a “uno bravo”.

Del resto, il degrado della nostra società, la discesa progressiva, inarrestabile, dei suoi livelli di qualità, la fuga all’estero delle energie più dinamiche e delle intelligenze più brillanti, confermano la decadenza delle classi dirigenti come una vera e propria catastrofe nazionale.

E allora sorge l’indecente, scorrettissima, proposta: e se la priorità del nostro paese fosse individuare, formare, selezionare, una vera aristocrazia in tutti i campi del sapere e del lavoro? Da anni siamo infognati nella diatriba tra la Casta e la Massa. E se il problema non fosse contrapporre il popolo alle élite, o peggio le plebi alle oligarchie, ma riconoscere ciascuno secondo il suo rango, cioè le sue capacità, i suoi meriti e i gradi di responsabilità? Il problema non è abbattere le classi dirigenti, identificandole gramscianamente con le classi dominanti, o peggio con le classi sovrastanti, che vivono sopra le masse senza neanche guidarle; ma riattivare l’ascensore sociale, rigenerare la circolazione delle élite, come diceva Pareto; riaprire i ponti in entrata e in uscita, in modo che si proceda per selezione sul campo e non per cooptazione. Circolazione delle classi dirigenti, non circuiti chiusi.

Nessuna società sopravvive alla morte o alla stagnazione delle élite. Nessuna società si autogoverna, il popolo ha bisogno di classi dirigenti, non caste chiuse e autoreferenziali ma aperte al ricambio e organiche al popolo. Riammettiamo la parola proibita: aristocrazie, non di sangue o di censo, né per trasmissione ereditaria di poteri e di possedimenti, ma premiando i migliori, riconoscendo le eccellenze in ogni settore. A formare le élite oggi non ci pensa lo Stato né la Scuola, l’Università, la Chiesa, i Partiti. A proposito, vi dice nulla che i quattro principali leader politici – Salvini, Di Maio, Zingaretti e Meloni – non siano nemmeno laureati? Certo, la laurea non è una garanzia di nulla, ma è una spia indicativa che i quattro principali leader non abbiano una laurea e una professione alle spalle. E infatti nessuno si batte per la meritocrazia né la pratica.

All’Italia oggi mancano molte cose: la vitalità, la natalità, il coraggio di rischiare. Però manca una cosa che le precede: un’avanguardia di esempi, mille persone ai vertici degli ambiti decisivi, che siano da guida e da modello per tutti gli altri. I Mille. Non ci sono laboratori di formazione delle élite né in politica né in società, nella pubblica amministrazione o nelle imprese. E invece è necessario ripartire da lì, dalla rivoluzione delle élite. Dalle aristocrazie e dai luoghi di formazione. Prima i più bravi, vincano i migliori.

Marcello Veneziani

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Nota: sottolineature nostre

Gli animali di Chernobyl

Gli umani pacificamente intenti alla loro vita quotidiana sono più pericolosi per la natura dell’esplosione simultanea di 200 bombe di Hiroshima (questa è stata la potenza di Chernobyl). E tuttavia, per un tragico contrappasso, sono anche le sole vittime dell’incidente: siamo noi, infatti, gli unici esseri viventi che non possono vivere a Chernobyl, perché moriremmo di cancro e non riusciremmo a riprodurci abbastanza in fretta per evitare l’estinzione. E anche qui c’è un insegnamento: via via che ci allontaniamo dallo stato naturale migliorano le nostre condizioni individuali (per dire, viviamo il doppio dei nostri cugini scimpanzè), ma peggiorano le nostre probabilità di sopravvivenza al di fuori della sfera tecnologica in cui siamo immersi fin dalla nascita (anzi, dal concepimento). L’apocalissi nucleare, che è poi il rovescio impaurito della nostra sfrenata ambizione prometeica a comandare l’universo, non è affatto un’apocalissi: tutt’al più è l’estinzione di una specie. La nostra.

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Libertà

LA FAVOLA DEI MERCATI FINANZIARI E DELL’ELEFANTINO AL MARE

In Calabria, un piccolo di elefante scappa da un circo e fa ciò che nemmeno il più audace sceneggiatore avrebbe pensato per un film: scappa al mare.

La meta della sua breve fuga è una spiaggia dove, tra gli occhi increduli dei bagnanti, si immerge tra loro, al solo fine di fare una cosa che mai aveva conosciuto nella sua vita in prigione: un bagno nel mare.

La gente, a riva, riprende la scena, commossa e stranita.

Alle volte giornalisti, colleghi o lettori mi chiedono perché io usi sovente la metafora per spiegare cose complesse in materia di banche o finanza.

La ragione è la semplicità del messaggio: certamente una equazione è meno chiara di una metafora, ed è accessibile a più persone della prima.

Per questo, si usa da tempo immemore.

Questo governo italiano, senza sovranità monetaria, è un elefantino che a fine agosto scappa al mare.

Tutti sappiamo, in cuor nostro, che cosa sia il bene e il male.

All’elefantino hanno spiegato che è naturale vivere nella povertà, con piccoli imprenditori che si suicidano, ospedali che non tengono posti letto, anziani che non hanno più i soldi per curarsi, giovani costretti a scappare all’estero in cerca di lavoro.

All’elefantino hanno anche fatto credere che il mondo sia quello del circo, senza erba ma con gli sgabelli, sui quali salire allo schiocco di frusta.

All’elefantino hanno spiegato che non può ribellarsi, altrimenti i padroni, i mercati, useranno la frusta dello spread.

Ma la natura fa il suo corso.

È troppo forte il richiamo del vento, il piacere dello spazio, il rinfresco del mare.

Troppo forte è la naturale ricerca del bene, del ricostruire sicurezza sui ponti, del dare da mangiare alla gente, del consentire un reddito a tutti e di abbassare le tasse ai più piccoli.

L’Elefantino sa che non è giusto rinunciare al bagno al mare, e tenta la fuga.

Resta da vedere cosa faranno gli osservatori internazionali sulla spiaggia; faranno qualcosa, oppure si limiteranno ad attendere che i padroni del circo, quell’enorme orrendo circo che si chiama mercato finanziario, lo riconduca in catene?

Io non so cosa succederà quando, presto, i padroni del circo tireranno la catena dello spread, sostenuti da tutto il potente potere mediatico e da tutti i loro servi, lautamente ricompensati.

Forse, gli spettatori, pur riconoscendo il diritto di libertà dell’elefantino, si limiteranno a far le fotografie.

L’Elefantino è solo, non può correre tanto, goffo, nel suo corpo gravato di debito.

Eppure, rivendica il suo diritto a una vita naturale.
Io non so dirvi, da docente di materia finanziaria, chi vincerà, a breve, se la catena o il richiamo del mare.

So con certezza una cosa, però.

So che un giorno lontano i bambini, a scuola, studieranno che è esistita un’epoca oscura nella quale gli animali vivevano tutta la vita in una gabbia, chiamata circo, per il solo divertimento di alcuni esseri umani.

Quel giorno, ancor più increduli, impareranno che in quei secoli esisteva un altro circo, quello del mercato finanziario, nel quale, non per legge naturale ma umana, milioni di uomini erano schiavi, a esclusivo privilegio di pochi padroni.

Non riusciranno a crederci, quei bambini, e si chiederanno come sia stato possibile che, a quei tempi, ci fosse chi ritenesse che tale orrendo martirio fosse anche giusto.

Penseranno sia una favola, leggere che si ritenesse normale rovinare le vite di esseri viventi per compiacere “i mercati”.

Non è naturale, capiranno quei bambini, rovinare la vita a tanti per compiacere pochi.

Perché il fine dell’uomo non sta nel pareggio di bilancio ma in ciò che scrisse un filosofo medioevale, che ebbe a dire che esso è la felicità, bene raggiunto il quale non se ne può desiderare uno maggiore.

Ma, capiranno i bambini, nessun animale, compreso l’uomo, può essere felice se è prigioniero.

Forte, ancestrale e incomprimibile sarà sempre, per ogni essere del creato, il richiamo alla vita vera.

Questa, con buona pace dei dotti soloni, di coloro che parlando di economia non sanno cosa dicono e di coloro che, sapendolo, nascondono le cose semplici dietro gli algoritmi e i paroloni, è una cosa naturale e vitale.

Ciò che ci lega a una catena, sia una legge giuridica o di mercato, non è la nostra condizione naturale, e prima o poi qualcuno libererà L’Elefantino.

Quella cosa è il diritto di sentire il vento sulla testa e l’acqua scorrere libera sul corpo.

Qualunque pasto concesso dai carcerieri del circo non ci renderà mai felici, in sostituzione a questo bene primario.

Esso si chiama, tra la schiuma del mare e la voce del vento, dalla nascita del mondo, con una sola parola.

Libertà.

di Valerio Malvezzi