Quanto sono buoni i buoni?

È stato possibile identificare sette ONG che, essendo attive presso la Corte, includono tra i loro ex collaboratori almeno una persona che è stata giudice permanente della CEDU dal 2009. Questi sono (in ordine alfabetico) il Centro AIRE ( Centro per i diritti individuali in Europa), Amnesty International, Commissione internazionale dei giuristi (ICJ), Comitato di Helsinki e rete di fondazione, Human Rights Watch (HRW), Interights (Centro internazionale per la protezione giudiziaria dei diritti umani ) e Open Society Foundation (OSF) e le sue varie filiali, in particolare Open Society Justice Initiative (OSJI). (…) Questa tabella non menziona le persone che hanno partecipato, anche su base regolare, a riunioni e conferenze organizzate da queste ONG o alle loro iscrizioni personali. Infine,

E non si tratta solo di giudici:

Questo fenomeno non si limita ai membri della Corte. Ad esempio, Nils Muižnieks, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa dal 2012 al 2018, è stato anche direttore dei programmi dell’Open Society of Latvia fino al 2012. Nel 2009, ha spiegato che l’Open La società vuole creare un nuovo uomo – l’homo sorosensus [in riferimento a Soros] – l’uomo della società aperta, al contrario dell’homo sovieticus. Nel corso delle sue funzioni, ha condannato diverse iniziative del governo ungherese, in particolare il cosiddetto disegno di legge “anti-Soros”

L’azione di Soros fu mirata verso i paesi dell’Est, più fragili e più manipolabili dopo la caduta dell’URSS:

I giudici che, prima della loro nomina, erano impiegati o dirigenti ufficiali di ONG provengono principalmente da Albania, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Ungheria, Lettonia e Romania. Ad esempio, in Albania, un paese povero segnato dalla corruzione, due dei tre candidati alla carica di giudice nel 2018 erano leader della Open Society Foundation e uno di loro è stato eletto. Tuttavia, la Open Society Foundation ha investito oltre 131 milioni di dollari in questo paese dal 1992. Allo stesso modo, gli ultimi due giudici eletti nei confronti della Lettonia sono collaboratori della Riga Law School, fondata dalla Fondazione Soros dalla Lettonia, che ha investito oltre 90 milioni di dollari in questo paese tra il 1992 e il 2014. Gli ultimi due giudici bulgari provengono anche da ONG sostenute dall’OSF.

Queste ONG partecipano a tutte le fasi di determinazione dell’elenco nazionale di proposte per le domande dei tre giudici. La scelta sarà logicamente rafforzata dalla presenza all’interno dell’organizzazione, di persone già appartenenti alla rete Soros. L’obiettivo è semplice: impiantare un certo tipo di visione del mondo:

La Open Society Foundation (OSF) si è affermata come l’organizzazione più ricca e influente del settore. Attraverso la sua politica di fondazione e finanziamento di altre organizzazioni, si è posizionata ai vertici di un’importante rete di ONG. Tuttavia, gli obiettivi e l’azione dell’OSF suscitano tanto entusiasmo quanto preoccupazioni e domande. Oltre alle sue azioni geopolitiche, l’OSF milita e finanzia iniziative a favore, ad esempio, della libertà di espressione, dell’educazione dei rom, nonché della liberalizzazione delle droghe, della prostituzione, del sesso aborto, comportamento LGBT o diritti di rifugiati e minoranze. All’interno della rete OSF, l’Open Society Justice Initiative è specializzata in contenziosi legali. Questa organizzazione, come alcune altre, sono di supporto a queste istituzioni.

Le interazioni durante la gestione dei casi sono inevitabili e i risultati sono visibili:

Dal 2009, ci sono stati almeno 185 casi che hanno dato luogo alla pubblicazione di una decisione della CEDU in cui almeno una delle sette ONG da cui sono stati estratti i giudici ha agito visibilmente. In 72 di esse, almeno una di queste ONG ha agito chiaramente come richiedente o come rappresentante legale del richiedente. Durante lo stesso periodo, anche queste ONG sono state autorizzate a intervenire come terzi in oltre 120 casi che hanno dato luogo alla pubblicazione di una sentenza.

E arriviamo a situazioni onnipresenti, in cui una ONG diventa un partito e giudica, come nel caso delle Pussy Riot, che ha condannato la Russia:

Possiamo anche citare qui lo strano caso del Pussy Riot (caso Mariya Alekhina e altri v. Russia 2018) che sono stati difese davanti alla CEDU da un leader della Open Society Justice Initiative, il signor Yonko Grozev, poco prima fu eletto giudice della stessa corte.

Questi strumenti del mondo globale stanno andando alla deriva a causa della loro stessa radicalizzazione. Ma sono riformabili? Prendi l’esempio della CEDU.
È possibile proporre misure legali per rafforzare l’indipendenza dei giudici europei, non solo dagli Stati come previsto, ma anche dalla società civile e dai suoi guru? Tecnicamente sì, è possibile. In particolare prevedendo incompatibilità di funzioni, il divieto di partecipare a seminari, ecc. Ma in questo caso, l’istituzione funzionerà ancora?
Ne possiamo dubitare, perché non sarà più di alcun interesse, proprio perché non svolgerà più il suo ruolo in questo mondo. Se potesse funzionare al di fuori della globalizzazione ideologica, in altre parole al di fuori di questomondo, ciò significherebbe che questa globalizzazione ideologica non esiste più. Non tutte le istituzioni sono riformabili e le numerose conferenze (Interlaken, Izmir, Brighton, ecc.) Per raggiungere un consenso tra i paesi membri e il Consiglio d’Europa, al fine di sapere dove collocare il compromesso non hanno ancora reso possibile risolvere questo conflitto fondamentale, poiché la Corte non intende mettere in discussione la sua svolta ideologica.

Questi esempi illustrano perfettamente l’impasse del modello globalista , che ha bisogno che i paesi poveri siano poveri perché i paesi ricchi siano ricchi, e quindi un individuo modellato dalla legge sui diritti umani, avendo perso le sue ragioni e le sue radici, omologato e acritico, può applaudire e indignarsi a comando, in società artificiali innaturali, che possono accettare questo ordine di cose senza fare troppe domande (o porre solo le domande giuste ).

È questo il mondo di cui abbiamo bisogno?

Karine Bechet-Golovko

Fonte: Reseau International

Traduzione: Luciano Lago

Smart virus

L’idea forte è quella di adottare una didattica in modalità MOOC, con classi virtuali, FAD, smart working per tutti gli allievi della scuola, secondo il normale orario di lezione della scuola, ad eccezione delle lezioni pomeridiane, che  avverrà regolarmente secondo le indicazioni che i docenti daranno agli allievi utilizzando i servizi di classe virtuale attivi sul registro elettronico e anche grazie a video tutorial per le attività previste. E come non essere incantati dalla sperimentazione del Liceo Bertolucci di Parma, intitolata con un verso del poeta: “assenza più acuta presenza”, che, diciamo, in verità suona un po’ inquietante essendo dedicato a un fratello morto, e che colloca le iniziative della didattica online nella cornice culturale e pedagogica  significativamente riassunta nello slogan «con-finati ma non isolati».

Eh si, li stanno proprio preparando al domani i nostri ragazzi. Pensate che pacchia, via via, dopo che il pericolo sarà passato, si potrà ridurre, insieme al rischio sanitario, quello rappresentato dal numero esuberante del molesto copro insegnante mai contento e smanioso di remunerazioni e privilegi, si rafforzerà la funzione dei dirigenti scolastici, disperdendo la fastidiosa vocazione pedagogica per valorizzare l’indole manageriale, si darà maggiore rilevanza al compito genitoriale come è giusto che sia nel complesso di un ordine sociale ispirato al controllo e alla sorveglianza anche nell’intimità.

Ma soprattutto si rafforza quella concezione della libertà individuale tanto cara ai fautori della fine del lavoro e della ripresa a tutto campo del cottimo, grazie a un tirocinio fin dai banchi che persuaderà scolari e futuri lavoratori a ritenere che l’autonomia si materializzi organizzandosi gli orari delle elezioni come i percorsi stradali per consegnare le pizze, non conoscendo la faccia dei professori  come quella del padroncino, scegliendosi i tempi dello studio proprio come quelli dell’attività part time propagandata per la licenza che ci si può auto concedere della flessibilizzazione organizzativa autonoma, combinata con i facili guadagni che crescono se ti ci dedichi di notte e di giorno, senza tregua e se si vince la gara con  altri addetti alla costruzione di invisibili piramidi, altrettanto soli, isolati, feroci nella difesa della propria fatica.

Grazie al virus, quello dell’avidità e dello sfruttamento, adesso possiamo preparare le nuove generazioni a raccogliere la sfida dello smart working, nuovo accorgimento per rendere invisibile ma non certo meno cruento l’antagonismo di classe, per consolidare la neutralizzazione delle rappresentanze, per normalizzare le anomalie di contratti irregolari, vaucher, volontariato obbligatorio, della precarietà, come predicava, così demonizzata nel civile Occidente, la filosofia Toyota che sulla base di un determinato numero di zeri (zero burocrazia, zero tempi morti) conseguiva il desiderabile obiettivo di “zero conflitti”.

estratto da https://ilsimplicissimus2.com/2020/02/26/a-scuola-di-smart-virus/

 

Sinofobia

“Mi occupo professionalmente di ricerche sulla stregoneria in Europa fra Medioevo e prima età moderna. Generalmente, quando propongo il tema in ambiti extra-accademici, in tanti mi chiedono come sia stata possibile la caccia alle streghe con tutte le sue vittime: era il frutto dell’arretratezza e dell’ignoranza dei “secoli bui”? Alla risposta che no, è un fenomeno perfettamente comprensibile razionalmente e che ha avuto luogo in tempi che chiamiamo “Rinascimento” per la scienza, le arti, la letteratura, dunque quanto di più lontano si possa immaginare da un’età di cupa ignoranza, il mio argomento viene accolto con sorpresa e persino scetticismo, perché non sembra proprio possibile che un’età illuminata possa aver prodotto tale scempio.
Eppure, basta vedere cosa sta succedendo con l’isteria da coronavirus per rendersi conto che, per quanto ci si ritenga oggi informati e razionali, di fatto siamo labili e manipolabili senza alcuna difficoltà. Proprio oggi mentre scrivo (10 febbraio) ho letto su Facebook un titolo di “Repubblica” nel quale si riporta la protesta del governo cinese presentata a quello italiano per il blocco di tutti i voli aerei dalla Cina, ritenuta misura eccessiva. Le centinaia di commenti che lo accompagnano sono, al di là di rarissime eccezioni, pervasi da bieco furore: i Cinesi dovrebbero vergognarsi, hanno tenuto nascosto il virus, vivono nella sporcizia, sono crudeli con gli animali (in particolare i cani, che sono ormai un tabù nella nostra società, per cui li possiamo soltanto amare moltissimo o rischiare il linciaggio: ma questo è un altro tema sul quale varrebbe la pena tornare), mangiano qualsiasi cosa (il che è vero solo che non c’entra molto, ma lo si ripete di continuo), vivono sotto una dittatura.
Questo livore anticinese va avanti dall’inizio della faccenda ed è un fenomeno europeo, che si manifesta non solo con l’odio sui social networks, ma anche con comportamenti più concreti, come la diserzione di negozi e ristoranti cinesi, quasi a immaginare cuochi e camerieri che tornano in Cina ogni sera e ci portano il virus a tavola l’indomani. A provocare il fenomeno è stata la stampa: in Italia c’è stata una breve pausa per parlare dei meriti o demeriti di Achille Lauro, di Morgan e Bugo, di Amadeus e… insomma di Sanremo, il che in qualsiasi altro momento avrebbe infastidito, ma che nello specifico ha fatto tirare un sospiro di sollievo, distraendo giornali e televisioni dai bollettini tragici del coronavirus.
(…) Tuttavia, qualcuno ricorda per l’influenza 2009-2010 lo stesso genere di isteria collettiva? Io ho un ricordo personale a riguardo: nel 2009 avevo programmato un viaggio estivo in Messico; pensai brevemente alla possibilità di annullarlo, ma mi sembrò una reazione eccessiva, e infatti partii e rientrai senza aver contratto alcuna influenza. In quegli anni nessuno si sognò di bloccare voli aerei fra le Americhe e l’Europa, nessuno invocò provvedimenti simili a quelli di questi giorni. I giornali ne parlarono di meno, e soprattutto non si scatenò l’odio contro i Messicani e gli Statunitensi, che pure arrivano a frotte da noi per le vacanze, non ci furono le reazioni volgari, sovraeccitate, isteriche che oggi si leggono sul web contro i Cinesi. Aggiungo: per fortuna, ché né Messicani né Statunitensi l’avrebbero meritato, così come non lo meritano oggi i Cinesi.

leggi tutto su https://byebyeunclesam.wordpress.com/2020/02/20/sinofobia-2020/

Socialismo

Gli strumenti di partecipazione popolare alle grandi decisioni sono esauriti o pressoché impossibili da concretizzare. Trionfa su tutta la linea la libertà dei moderni, teorizzata due secoli fa da Benjamin Constant. Liberazione dai vincoli, preferenza assoluta della dimensione privata, con il suo precipitato di indifferenza per il bene comune, egoismo, disinteresse per la cosa pubblica. La libertà e la democrazia degli antichi, al contrario, era soprattutto partecipazione, esercizio di responsabilità e decisione. Pessime cose, dal punto dei padroni del vapore. La democrazia, dunque, si è ridotta sempre più a vuota procedura, formalità, gioco di ruolo, circo equestre in cui si combattono non idee o progetti, ma gli interessi più potenti, industriali, finanziari, tecnologici. La politica scade ad amministrazione, il governo diventa governance, gestione.

Si finisce per dare ragione al vecchio Rousseau, allorché avvertiva che la democrazia rappresentativa e la sovranità popolare, vanto e fiore all’occhiello dei popoli d’occidente, funziona per un solo giorno ogni quattro o cinque anni.

Nel momento delle elezioni, il popolo esercita un fugace potere di scelta di rappresentanti, ai quali cede immediatamente le sue prerogative. Addio partecipazione, addio alla volontà generale, qualunque cosa voglia dire.

Per di più, pur essendo evidente l’impossibilità di fuoriuscire da forme di rappresentanza, e che il potere sarà sempre in mano a oligarchie, i sistemi democratici si impegnano con successo a negare se stessi. L’ingegneria politica applicata alle tecniche elettorali fa sì che vinca non la maggioranza, ma la minoranza meglio organizzata, che significa inevitabilmente la più ricca. Il potere del denaro svuota la democrazia, scriveva Giano Accame.

Oggi in nessun grande Stato occidentale è al potere chi rappresenta la maggioranza aritmetica non dei cittadini, ma dei votanti, che diminuiscono a ogni tornata. Donald Trump è stato eletto da circa il 25 per cento degli americani, la metà dei quali non si è recata a votare. Il recente, largo successo di Boris Johnson in Gran Bretagna è legato al sistema maggioritario inglese. Il partito conservatore ha ottenuto meno del 44 per cento dei voti, con un terzo dei britannici lontano dai seggi. Lo stesso in Francia e in Italia, dove è macroscopica la distanza dei partiti di governo dal sentire maggioritario dei cittadini. Incredibile il caso della Spagna: il governo è al potere nonostante non abbia conseguito la maggioranza parlamentare. Si regge sull’astensione di movimenti diversissimi e opposti. I due partiti di governo, i socialisti e i neo comunisti di Podemos non hanno che il 40 per cento dei voti; un terzo abbondante dei cittadini non ha votato.

estratto da https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-maggioranza-globalizzata-contro-la-democrazia

Eric Voegelin

Era questo, in estrema sintesi, l’assunto centrale delle tematiche care a Eric Voegelin – dimenticato, ma non da tutti, maestro di filosofia e lettore dei “nostri” tempi – che nei suoi scritti spiegò bene quanto «in questa società massificata quel che manca è proprio… la consapevolezza dell’individuo» (4). Un individuo, in altre parole, che pensa di poter aver un ruolo attivo nei processi decisionali ma che, invece, lo è solo in un susseguirsi scenografico di metodi di rappresentazione (in qualunque forma essi si palesino, dalle tradizionali elezioni a quelle virtuali sulle piattaforme pentastellate passando per le primarie amatriciane piddine), previsioni legislative, regolamentazioni amministrative, assistenza e tutela statale.

Non a caso più sono perfetti i meccanismi per il movimento dell’intero quadro istituzionale – oggi resi tali da realtà sovranazionali come l’UE e dal cosiddetto “turbocapitalismo” monolitico – tanto minore risulta la possibilità di una partecipazione effettiva, dal basso, non manipolata, dismessa – con boria da buona parte di sociologi, politologi, economisti e quanti altri allineati e inglobati nella matrix democratista – come proposta anacronistica, se non risibile.

In tal senso la figura dell’intellettuale rappresenta la cartina di tornasole della deriva delle nostre società: l’uomo colto, il sapiente, il filosofo, finisce per essere fagocitato nel complesso organismo di cui si è detto svolgendo, per esso, una funzione tra le tante ben lontana dalla mission platonica di “uscire dalla caverna”. Da ciò, già nel 1977, Norberto Bobbio aveva messo in guardia: ancor prima dell’entrata in scena dei palcoscenici mediatici delle Tv private e del social web egli aveva previsto quanto sarebbe stato inevitabile per l’intellettuale assumere, magari inconsapevolmente, un ruolo funzionale al potere fino a divenirne un efficace strumento di razionalizzazione (5).

La destoricizzazione della cultura e la fine dello Stato nazionale hanno velocizzato e incoraggiato tutto ciò. Ed il risultato è piuttosto paradossale: il “concetto” ha sostituito le cose e i rapporti concreti, la “persona” l’individuo, la “personalità” le sue caratteristiche, lo “Stato” l’equilibrio precario delle forze collettive, la “Chiesa” e la “religione” hanno surrogato ogni interiorità che non si disponga sul piano di una morale convenzionale. Tutto, dunque, «risponde alle esigenze di un ordine prestabilito, che è la sola garanzia di vita societaria» (6).

Il caso italiano fornisce un’irrinunciabile esempio di questo paradosso: oggi è molto più difficile svolgere un ruolo etico positivo rispetto all’Italia tra le due guerre. La storia della censura del Secondo dopoguerra rivela – a chi voglia leggerla senza pregiudizi ideologici né derive revisionistiche – una triste verità: «Togliamoci dalla testa l’idea che, finito il fascismo, finita la guerra, sia finita l’attività censoria di controllo della libertà di espressione» (7).

Anzi, tutt’altro: a differenza di Trotskij a Mosca e degli Strasser a Berlino è stato molto più semplice per Croce avere un ruolo più politico che filosofico durante il Ventennio – pubblicando indisturbato le annate de “La Critica”, stilando “Manifesti” e dirigendo egocentricamente il catalogo delle edizioni Laterza – che per Arrigo Cajumi scrivere su “Il Mondo” un articolo sulle responsabilità di Don Benedetto davanti al fascismo, per Gioacchino Volpe difendersi dall’epurazione antifascista ai Lincei o per Renzo De Felice condurre placidamente i suoi studi su Mussolini qualche anno dopo.

E l’elenco potrebbe continuare rievocando «la costante, aggressiva corrosione dell’idealismo da parte della cultura comunista del dopoguerra da “Rinascita”, a “Società”, al “Contemporaneo”» nonché i «micidiali interventi censori dell’apparato editoriale comunista, fin dalla prima edizione dei “Quaderni” di Gramsci, o alle becere interdizioni democristiane di accesso a “libri proibiti”» (8).

Quale la premessa, la radice di tale paradosso? La risposta è rinvenibile nelle pagine ancora attuali di Adorno e Horkheimer sul potere contemporaneo che si è imposto nel Secondo dopoguerra “senza fretta ma senza tregua” ricorrendo «attraverso i Mass Media a un’azione “preventiva” di condizionamento che abituando l’individuo ad una ricezione passiva e meccanica dei messaggi, gli introgetta un’immagine predeterminata, univoca ed asettica della realtà che “lo persuade” ad adottare un tipo di linguaggio e di comportamento impersonale e stereotipato, con l’effetto finale di inibirgli sia le funzioni immaginative che quelle critico-riflessive» (9).

Una persuasione, quindi, non meno violenta della forza coattiva ma molto più sottile, paralizzante, insidiosa e inattaccabile che fa della democrazia un democratismo il quale trae la sua linfa vitale nel determinismo di derivazione marxista che rigetta, per sua natura, qualsiasi intellettualità o filosofia.

Destrutturata la cultura, insomma, il “marxiano” 2.0 viene usato «indiscriminatamente a fini demagogici e di potere, senza mai contare gran che nella pratica di una decisione politica» trasformando gli epigoni dei censori del Secondo dopoguerra in “gerarchi” del pensiero unico, «mezze-figure, capipopolo senza scrupolo dediti esclusivamente alla soddisfazione di ambizioni insaziabili e al proprio tornaconto personale» (10).

Figure deprecabili, certo, ma che purtroppo confermano, non a caso, l’assunto di Voegelin secondo il quale «ogni società riflette nel suo ordine il tipo di uomo del quale si compone» (11).

Roberto Bonuglia, 1 febbraio 2020

Note

1) R. P. Wolff, Barrington Moore Jr., H. Marcuse, A Critique of pure tolerance, Boston, Beacon Press, 1965.

2) J. L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, Londra, Secker & Warburg, 1952.

3) P. Simoncelli, intervento al Convegno Oltre Salerno. Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica, del 28 settembre 2014, ora in G. Di Leo, Atti del Convegno di Pescasseroli e Pescina, Roma, Aracne, 2015, p. 162.

4) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, in Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale, Roma, Astra, 1980, p. 19.

5) N. Bobbio, Gli intellettuali ed il potere, in «Mondoperaio», del novembre 1977, pp. 63-72.

6) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, cit., p. 39.

7) P. Simoncelli, cit., p. 162.

8) Ivi, p. 161.

9) T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966.

10) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, cit., p. 16.

11)  E. Voegelin, Die Neue Wissenschaft der Politik, Monaco, Anton Pustet, 1959, pp. 93-95.