Se dico che provo pietà per chi si trova in una situazione drammatica, ecco che si può annusare un mio profilo superbo, chino dall’alto in basso, o un mio profilo svilente, perfino schifiltoso. Se invece dico di provare pietas verso la medesima situazione, ecco che le campanelle d’allarme non si accendono, anzi si alzano le sopracciglia sorprese, guarda che urbanità, è vicino al dramma ma che finezza, non si sente nemmeno odore.
Una soluzione comoda, efficace, accessibile. Che riesce a ripulire un concetto in cui è scomodo stare, che permette di evitare di rappresentare la reale ambiguità della pietà e il conflitto della commiserazione, di glissare con passo dotto sulla sfida contro sé che spesso la pietà rappresenta.
Insomma, oscillando fra una consistenza propria da motto dittatoriale e una consistenza impropria da imbiancatura di convenienza, forse ‘pietas’ è una di quelle parole da tenere schedate nella nostra questura interiore.
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Eneide II 721-724 “Detto così, distendo sulle larghe spalle e sul collo reclino una coperta, la pelle d’un fulvo leone, e mi sottopongo al peso; alla destra mi si stringe il piccolo Iulo, e segue il padre con passi ineguali” (trad. Luca Canali