Questa variante – oggi dominante – del progressismo, che potremmo chiamare progressismo nuovista o eliminazionista, divenne prevalente nel positivismo di fine ‘800, e di nuovo a partire dagli anni ’50 del XX secolo, prima negli USA e poi in Europa. Qui il “bene” viene identificato automaticamente con il superamento del vecchio, del dato. Chi si oppone a questo movimento viene immediatamente stigmatizzato come arretrato, nostalgico, reazionario. Essere “aggiornati” (up to date), che si tratti di gadget tecnologici o capi d’abbigliamento o mode politicamente corrette, è ciò che si richiede per essere dalla parte del bene. Mettere ciò in discussione viene letto automaticamente come segno di sanzionabile ottusità.
Questo atteggiamento potrebbe far sorridere per la sua superficialità, se non fosse che tale superficialità è coniugata con la più potente forza della contemporaneità ovvero il capitale. Così come il capitale, per svilupparsi liberamente, esige la rottura di ogni radicamento e di ogni vincolo non negoziabile, così l’impianto del progressismo nuovista (o eliminazionista) edifica un’etica della cancellazione del passato in ogni sua forma.
Di ciò fa parte naturalmente ciò che è venuto agli onori della cronaca come “cultura della cancellazione” (CANCEL CULTURE), con le sue performance di spettacolare imbecillità, ma più gravemente ancora ne fa parte una cultura che assume il medesimo atteggiamento di cancellazione e superamento nei confronti di qualunque ordinamento naturale, percepito istintivamente come un vincolo insopportabile. La cultura “transumanista” occupa un ruolo importante in questa cornice, in quanto esprime la nevrosi costitutiva di un’epoca che non è più affatto in grado di percepire il valore nel dato, nel reale, nel naturale, ma soltanto nell’idea fantasticata del loro superamento. Anche la natura umana, in cui si radicano necessariamente tutte le nostre inclinazioni morali e tutte le nostre posizioni di valore, viene concepita come qualcosa di infinitamente manipolabile, adattabile, superabile. Che ciò tolga da sotto i piedi ogni criterio di bene e male non viene percepito come un problema, visto che la ragione liberale ha dall’inizio tolto il bene e il male dal piano dei contenuti obiettivi.
Sul piano culturale e teorico è abbastanza semplice mostrare l’insostenibilità strutturale del progressismo eliminazionista in tutte le sue varianti, tuttavia tale concezione è e resta il terreno ideologico prediletto dei ceti che cavalcano le spinte del capitale, e questo vi conferisce una sorta di egemonia epocale. Il movimento del capitale è la tendenza di un potere di principio di accrescersi indefinitamente. Chi progetta la propria esistenza sulla scorta dell’idea “pre- (o post-) umana” di accrescimento indefinito non può che nuotare come un pesce nell’acqua in tutte le concezioni che vagheggiano il perenne superamento, il perenne al di là, l’oltre, il di più, in quanto tali.
Questi soggetti abbracciano con pari entusiasmo progetti di ingegneria sociale o di ingegneria genetica, ed essendo organicamente privi di ogni riferimento valoriale diverso dal “nuovo” e dall’“oltre” non sono neppure in grado di percepire gli aspetti distruttivi e degenerativi di ciò che propongono.
Su questo piano la nostra epoca sta assistendo ad una vera e propria contrapposizione antropologica, irriducibile. Questa contrapposizione oggi è diventata politica.
Da un lato troviamo chi sostiene una spinta strutturalmente eliminativa delle eredità storiche e naturali, percepite come fardelli di cui liberarsi, e dall’altro chi resiste a tale spinta in quanto percepisce storia e natura come fonti primarie di valore.
Dagli esiti di questo confronto culturale e politico, che ha anche un fondamentale aspetto geopolitico, dipenderà la direzione dell’umanità futura.
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