Gli analfabeti loquaci

Sono già lì, belle pronte, tutte le risposte, le versioni ufficiali, diffuse dall’ apparato di comunicazione e intrattenimento, massimo responsabile dell’analfabetismo di ritorno da cui siamo sopraffatti. Il ministero dell’educazione francese è in gravi difficoltà ad arruolare insegnanti. I candidati ignorano la lingua francese, spesso la grammatica e l’ortografia. Non comprendono le domande poste dagli esaminatori, quindi non sono in grado di rispondere. Gli insegnanti di matematica non sono capaci di eseguire i calcoli e applicare le formule che dovrebbero trasmettere agli allievi.
Gli analfabeti di ritorno sono loquaci in quanto convinti di padroneggiare una conoscenza – cultura è parola grossa – sempre più limitata e specialistica, che sembra fornire loro speciali diritti a strologare su qualsiasi argomento. Lo specialismo è l’istruzione settoriale, strumentale del cosiddetto esperto, un soggetto che finisce per sapere tutto su nulla, tanto piccolo è il suo angolino di conoscenza. Il problema – in una società complessa – è che si finisce per ignorare qual è il nostro posto nella catena sociale e perfino che la catena esiste.
Viene ignorata la trasmissione del sapere, eccetto il campo limitato di ciò che riguarda il nostro mestiere o professione. Si parla di cultura della cancellazione, ma è un ossimoro: non vi è cultura senza trasmissione, relazione tra passato e presente. L’analfabetismo raggiunge così i più alti livelli, ammantato di larghezza di vedute, tolleranza e rispetto. In Inghilterra le istituzioni universitarie invitano (ossia obbligano) a non usare la parola Natale, da sostituire con la tortuosa locuzione “festività di fine anno”. Nessun accenno al perché si fa(ceva) festa, al peso, alla storia delle parole. In inglese Christmas è molto chiaro: resta solo la foga di cancellare se stessi, la vergogna di ciò che si è.
Non era così in passato, quando almeno si sapeva di non sapere e si aveva l’umiltà di ascoltare. Oggi un’arrogante ignoranza disprezza ogni approfondimento, rifiuta il confronto, si esprime per luoghi comuni con i termini orecchiati nel linguaggio disincarnato della sottocultura di massa. Il modello preferito è Twitter: centoquaranta battute al massimo, spazi compresi. Di qui l’incomprensione reciproca, l’assertività obbligata, la preferenza per concetti banali, stereotipati, o, al contrario, l’ingiuria e la menzogna sfrontata. Parliamo per slogan senza interesse per la verità: calano dall’alto le parole d’ordine, gli analfabeti loquaci le ripetono stupiti che qualcuno non sia d’accordo, usi altri linguaggi, risponda a criteri, significati e principi che non essi capiscono poiché ignorano le parole e i costrutti mentali con cui sono formulati.
Lo intuì George Orwell: in 1984 il Ministero della Verità, oltre a capovolgere i significati, lavora alla cancellazione del vocabolario. Chi non conosce le parole, non possiede più il pensiero. Il ragionamento non riesce più a esprimere un’opposizione, elaborare critiche (cioè giudizi) e neppure manifestare un consenso ragionato.
Forse oggi non sarebbe possibile un romanzo come La versione di Barney, che pure è del 1997. Barney Panofsky, produttore televisivo di successo, decide di scrivere la sua autobiografia per liberarsi da una vecchia accusa di omicidio. Elabora cioè la ”versione” della sua stessa vita, l’interpretazione di ciò che ha fatto e di quello che è. Nel mondo dal linguaggio distorto e impoverito, esiste la versione unica, da credere e ripetere con i medesimi termini, declinati al presente, con cui ci è stata fornita. La nostra loquacità è tutta al presente, vive nell’istante; ignora il passato e non si cura del futuro.
Soprattutto, evita di meditare. Per questo è in declino la filosofia, esercizio del pensare, porre domande diverse dalle FAQ, cercare risposte, rintracciare significati. In più, la filosofia ha il torto di “non servire”, quindi è disprezzata dall’homo consumens; inoltre utilizza e inventa molte parole, i “significanti”, ciascuno diverso dall’altro, per esprimere compiutamente distinti stati d’animo, idee, sensibilità, risvolti e sfumature, che hanno bisogno di un lessico ricco e preciso. L’odierna ignoranza soddisfatta predilige la risposta rapida – Quick response, QR, il codice digitale simile a una macchia.
Di riduzione in riduzione, domina l’abstract, il compendio semplificatorio. Perché leggere l’Amleto o la Divina Commedia? Meglio un riassunto, possibilmente entro le centoquaranta battute di un “cinguettio”. La prova? Ecco un tweet sui Promessi Sposi: “il matrimonio di una coppia etero di contadini è avversato da un nobile. Nonostante guai e peste, alla fine si sposano.” Tutti abbiamo fretta, ma non si impara né si comprende se non con pazienza e costanza. Molti contenuti in rete, anche su temi complessi, hanno in epigrafe il tempo di lettura, quasi le scuse preventive per far “perdere tempo” al lettore.
Perdere tempo, ecco un mantra contemporaneo: l’analfabeta ha sempre fretta, non può essere importunato con complicazioni, riflessioni, pensieri diversi dall’attimo. Egli sa già tutto quello che “serve”, per il resto c’è lo smartphone, la persona elettronica che lo ha sostituito. Basta una ricerca su Google – rigorosamente limitata alla prima pagina – ed ecco la soluzione, la conoscenza illimitata. Il nome del colosso di Mountain View deriva da Googol, termine che indica un numero pari a dieci alla centesima potenza, la cifra corrispondente a uno seguito da cento zeri. Chi se ne frega, ciò che conta è che, con un tocco sullo schermo, saprò qualsiasi cosa mi interessi, risolverò ogni problema, con un tempo di risposta (il nuovo significato di “latenza”) pressoché impercettibile.
Pazienza se non uso più la memoria, se non ragiono, se non cerco più, nei file dell’intelletto, le risposte alle domande e tantomeno impegno la riflessione, stimolo la ricerca, il pensiero meditante, cioè giudicante. Non è per caso che l’homo sapiens occidentale sta perdendo intelligenza: diminuisce il nostro Q.I. di circa mezzo punto all’anno. Diventiamo più stupidi e più ignoranti, allo stesso ritmo con cui dimentichiamo parole e concetti e non sappiamo più esprimere la complessità dell’animo.
Non perdiamo però nulla in supponenza e loquacità, supportate da una credulità inversamente proporzionale alla conoscenza. Detestiamo i maestri e più ancora chi esprime dubbi sulla “versione di Barney” obbligatoria. Siamo tornati alla caverna di Platone, ombre scambiate per realtà. Sconcerta la convinzione di avere capito tutto, di vivere in un progresso continuo, il fastidio rancoroso con cui viene accolta qualsiasi obiezione o richiesta di spiegazione. Peggio ancora se si cerca di esprimere un concetto estraneo che revoca in dubbio certezze mai discusse nel foro interiore.
Correggi un saggio, recita un proverbio orientale, e questi diventerà più saggio. Correggi uno sciocco, e ti farai un nemico. Nulla è più terribile di un’ignoranza attiva, scriveva Goethe. Ed esibizionista, aggiungiamo noi. Si addice agli analfabeti loquaci una frase di Abramo Lincoln: meglio tacere e dare l’impressione di essere stupidi, piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio.

Roberto Pecchioli

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La sinistra atlantica

Messi in soffitta la lotta di classe, il marxismo e il conflitto servo-padrone, sulle piste della Scuola di Francoforte, la sinistra ha abbandonato le classi subalterne. Per niente rivoluzionarie, scoprì infastidito Adorno: vogliono semplicemente migliorare la loro condizione. Sono conservatrici e condividono con altri gruppi sociali la “personalità autoritaria” da estirpare. Marcuse immaginò la “liberazione” – concetto omnibus assai caro alla sinistra, che diffida delle libertà concrete e le odia – nella forma della sessualizzazione della vita, del vivere esperienze (diventate dipendenze) di ogni tipo senza limiti o vincoli etici, della negazione fine a se stessa. La porta era aperta per l’uomo a una dimensione, il cui esito è il pensiero negativo, il transito verso il soggettivismo e il nichilismo. La trionfante cultura della cancellazione, l’odio di sé che pervade l’Occidente che si spoglia di sé, è l’inveramento del “grande rifiuto”, il vangelo ateo imposto da Marcuse.
L’intellettuale e politico comunista Gyorgy Lùcacs definì un abisso l’esperienza francofortese. “Vissero in una lussuosa suite del metaforico Grand Hotel Abyss, dal quale potevano dedicarsi a contemplare il vuoto che si apriva sotto di loro, la crisi della modernità che stavano accelerando, seduti in comode poltrone tra pasti eccellenti e intrattenimenti artistici”.
Il cambiamento senza fine oscura la visuale. Ad esempio impedisce la vedere l’abisso di sorveglianza totalitaria dell’abolizione del denaro contante, di cui la sinistra è sfegatata sostenitrice, in nome di falsità, come la lotta all’evasione fiscale. La presbiopia progressista impedisce di vedere le grandi evasioni fiscali – società finanziarie, fondi, giganti della tecnologia – concentrando il rancore e l’invidia sociale contro artigiani e professionisti. La sinistra, custode del positivismo giuridico, proclama le “regole” ma nei fatti smantella la presunzione di innocenza, architrave del diritto, per compiacere il femminismo più radicale. “Io ti credo, sorella”, gridano contro la violenza sessuale, un crimine odioso che tuttavia non può portare a condanne senza prove. In Spagna, per il reato di lesioni con uguale prognosi, l’imputato maschio subisce una condanna doppia rispetto alla donna. Si cominciano a richiedere ricusazioni dei giudici sospettati di non credere nella “prospettiva di genere”. Sarebbe ridicolo se non fosse drammatico.

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Non avrai nulla e sarai felice

Oggi, in una notte del mondo in cui reale e virtuale, vero e falso, tendono a confondersi, esperienza e finzione, sogno e labirinto si intrecciano e plasmano un’umanità irriconoscibile.
Il nomade non è interessato alla proprietà, tanto meno alla stabilità; la sua identità mobile è fortissima benché “sui generis”. Egli reca con sé ogni cosa che gli appartiene fintanto che gli è utile: il gregge che lo sostenta, la tenda che lo protegge nel riposo. Ha pochi ricordi, nel senso che noi attribuiamo al termine. La sua meta è il viaggio. Così ci sta trasformando la postmodernità. Viviamo di emozioni, pulsioni, esperienze. La necessità più viva è essere sorpresi: per questo abbiamo bisogno di continue novità. Fintanto che il sistema riuscirà a provvederci di emozioni, saremo alla sua mercé, schiavi alla ricerca di lampi di felicità. Legati, inevitabilmente, alle “non cose”. Accoglieremo con soddisfazione una vita a nolo. Automobile in affitto, case abitate a giorni: il mondo di Uber e Airbnb. Accetteremo rapporti umani strumentali, sempre più veloci per la noia che incombe.
Essenziale resterà la relazione con gli apparati artificiali, specie lo smartphone, porta dell’infinito virtuale, l’unica proprietà che difenderemo gelosamente sino all’uscita del modello successivo, più rapido, più performante, soprattutto più simbolico. I simboli sono “non cose”. Ci leghiamo a d essi, non più agli oggetti della nostra vita. Libri, suppellettili, perfino abiti e gioielli, l’automobile, la casa e la terra, quelli che chiamiamo ricordi e hanno conferito senso e continuità alle nostre vite, sono legami, dunque pesi inattuali, orpelli di cui disfarsi sull’altare delle esperienze.
La libertà a cui aspira l’uomo-cifra è quella del consumo, immediato, costante, illimitato. L’economia dell’esperienza sostituisce l’economia delle cose. Perciò accettiamo e più ancora accetteremo una vita fatta di puntini, di scoppi di adrenalina, ossia di esperienze, desideri, stimoli sempre nuovi. Un moto perpetuo che finirà per estenuare. Jeremy Rifkin fu il primo a cogliere un salto cruciale: viviamo l’era dell’accesso, il concetto chiave della contemporaneità. Lorsignori ci obbligano alla connessione continua, all’ibridazione con gli apparati, a inseguire ogni mutamento, da abbandonare una volta “esperito”. Il cyberuomo non darà importanza al possesso e alla proprietà: il mondo fondato sull’accesso genera un’umanità del tutto diversa.
La lezione di Rifkin è stata recepita ai livelli più alti, che lavorano attivamente per espropriarci di tutto, a partire dalla nostra mente, per tenerci in pugno attraverso le “non cose”. Identità significa innanzitutto duratura relazione con persone, cose, luoghi; il possesso è per natura stabile, si fonda sulla persistenza. Nulla di più estraneo alla dromocrazia (dominio della velocità), al “tempo reale”. La nuova identità è fluida, mutevole, a partire dagli istinti sessuali e dalla percezione di sé. Fatica a immaginare qualsiasi cosa sia “per sempre”.
Ancor meno riconosce l’idea di trasmissione, il lascito che riceviamo e consegniamo alle generazioni successive. Tutti concetti legati alla stabilità, alla categoria di creatura stanziale che l’homo sapiens ha cucito su se stesso. L’uomo digitale non vuole storia e fa a meno della memoria. Vacilla l’idea di cultura, che è accumulo, deposito nel tempo e nello spazio di conoscenze e costumi che oltrepassano gli individui. La cultura trae origine nella comunità. Mercificata, commercializzata, munita del cartellino del prezzo, perde valore e distrugge la comunità, sostituita dalla community.
Tutto ciò inquieta, come la scarsa percezione delle modifiche antropologiche in atto, in attesa del salto ontologico, il passaggio al transumano. La finestra di Overton si spalanca nella direzione dell’uomo – il faustiano Homunculus forgiato dalle officine globaliste – che non ha nulla, dopo aver accettato con apparente indifferenza di non essere nulla. Sarà felice per un po’, di una soddisfazione animale e provvisoria, bisognosa di continue scosse. Poi scoppierà e rivorrà la scintilla divina che si è lasciato estirpare collaborando all’esproprio.
Tornare umani, tornare al reale, rigettare il virtuale, l’illusione fabbricata, la vita a noleggio, il nomadismo interiore e materiale, passerà, temiamo, per esperienze terribili. L’uomo ritroverà la sete di infinito, riprenderà a guardare in alto, a voler essere e voler avere. Ulisse tornerà a Itaca, ma troverà qualcuno ad aspettarlo?

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