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Il modello Olivetti
Il prestigioso titolo di “Patrimonio dell’Umanità”, concesso recentemente dall’Unesco a Ivrea, città ideale della rivoluzione industriale del Novecento, è la sintesi plastica e culturale non solo di un’area urbana ma di una Storia personale, quella di Adriano Olivetti, una Storia tutta da riscoprire.
Ingegnere chimico, erede di una ricca dinastia imprenditoriale, con sede ad Ivrea, di religione valdese, ma convertitosi al cattolicesimo nel 1949, antifascista di orientamento azionista, ma vicino al fascismo “intellettuale”, quello di Giuseppe Bottai e dell’architettura razionalista , a cui legò i progetti del suo nuovo stabilimento, Olivetti è stato , nel dopoguerra, l’imprenditore-politico che immagina la fabbrica-mezzo, non solo dispensatrice di profitti, ma anche di cultura e di servizi, cuore della comunità, in cui realizzare un’autentica, concreta solidarietà, base di un’ idea nuova di Stato: “Voglio che la Olivetti non sia solo una fabbrica – afferma – ma un modello, uno stile di vita. Voglio che produca libertà e bellezza perché saranno libertà e bellezza a dirci come essere felici”. Ecco allora la fabbrica aperta alla luce, in cui gli orari sono ridotti ed i salari aumentati, i lavoratori vengono incentivati a studiare e a leggere, i loro figli hanno asili nido – si direbbe oggi – “di prossimità” e l’assistenza sanitaria è gratuita.
Centrale in questo “progetto” il richiamo alla territorialità: l’azienda va vista – dice Olivetti – in rapporto al luogo su cui insiste, in quanto espressione di una Storia, di un ambiente, quindi di una comunità, capace di costituire la base di un nuovo assetto istituzionale. Anche qui, è anticipatrice l’idea di sanare la storica cesura tra società e Stato (cesura che nasce dalla Rivoluzione borghese), immaginando una democrazia senza partiti, fondata sulle comunità, sui territori, sulla rappresentanza dei ceti produttivi: “Il compito dei partiti politici – scrive in “Fini e fine della politica” – sarà esaurito e la politica avrà un fine quando sarà annullata la distanza fra i mezzi e i fini, quando cioè la struttura dello Stato e della società giungeranno ad un’integrazione, a un equilibrio per cui sarà la società e non i partiti a creare lo Stato”.
L’ impegno di Olivetti non è solo intellettuale e sociale. Nel 1948, proprio per dare sostanza politica alle sue analisi (è del 1945 L’ordine politico delle Comunità che va considerato la base teorica per una nuova idea dello Stato, dove accanto alla Camera politica, espressione delle comunità, ci sia anche un Senato della tecnica e delle competenze), Olivetti fonda il Movimento Comunità, con l’ambizione di costituire una terza forza, fra la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista. I tempi non sono evidentemente maturi. L’idea di una politica “nuova”, al di là del capitalismo e del socialismo, si scontra con i “blocchi” dell’epoca e da essi venne schiacciata. Parlando della fine di quell’ esperienza , con l’arroganza tipica del comunismo dell’epoca, “l’Unità”, organo del Pci, scrive, nel 1958, di “fallimento di tutte le teorie della collaborazione di classe e delle strane elucubrazioni che attorno a Comunità si sono venute enucleando”.
Per anni su quella stagione e sul suo protagonista, scomparso prematuramente nel 1960, cala il silenzio. Ora, anche grazie al riconoscimento dell’Unesco, la figura di Olivetti può tornare al centro dell’attenzione nazionale.
Per riaprire, nel gioco delle scomposizioni-ricomposizioni, una nuova, più matura riflessione sul “comunitarismo”, tema che ha visto crescere, negli ultimi anni, interessi diversi, legati alle scuole d’oltreceano, che fanno capo a Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Michael Sandel, Robert N. Bellah, Michael Walzer. E magari per scoprire “inusuali” assonanze. Dal palco di Pontida Matteo Salvini ha inserito Olivetti nel suo “Pantheon”, vicino a Simone Weil, Rosario Livatino, Gianfranco Miglio e Walt Disney.
A noi piace ricordare come fu la Nuova Destra italiana, sul finire degli Anni Settanta, a fare del comunitarismo uno dei suoi temi distintivi. Nel primo numero di “Elementi”, uscito nell’autunno 1978, è Alain de Benoist a firmare un lungo articolo (“’Comunità’ e ‘società’”) dedicato al sociologo Ferdinand Tonnies e alle sue teorie organicistiche. Tra le immagini che integravano quell’articolo c’era anche la copertina della prima edizione di Comunità e società, pubblicata nei classici della sociologia delle Edizioni di Comunità, le edizioni volute da Olivetti, griffate con quella campana ed il motto “Humana Civilitas” che era stato il suo simbolo politico.
Nella crisi dei “modelli” e quindi nella necessità di cercare/trovare nuove visioni sociali ed economiche anche il richiamo ad Olivetti è un ottimo viatico.
Mario Bozzi Sentieri in https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=60736
Il neoliberismo
Forte di una prodigiosa macchina della propaganda senza precedenti, il neoliberismo è riuscito a conquistare ogni spazio ideologico lasciato vuoto per mancanza di avversari capaci di far fronte comune e reagire a un nemico tanto imponente quanto invisibile. Attraverso seducenti armi di distruzione del pensiero di massa è riuscito a creare le condizioni ideali per un sempiterno dominio delle élite sui popoli, sotto una facciata fintamente democratica e modernizzatrice. L’individuo, inizialmente, è stato reso docile attraverso quel “minimo vitale sociale”, di cui parlavano Malthus prima e Marx poi, ossia quel modesto di più percepito dal lavoratore rispetto allo stretto necessario per vivere e che quindi in grado di consentire l’accesso all’agognato atto del consumo su cui si è retto finora il sistema capitalistico consumistico. Oggi, per il principio della gradualità e dell’irreversibilità della privazione incessante dei diritti e del benessere umano, il minimo sociale di vita sta divenendo appannaggio di pochi, considerati come dei privilegiati dal sistema e per questo osteggiati dai propri simili, alimentando così una guerra intestina tra i nemici, inconsapevoli e disgregati, dell’invisibile tiranno. L’interiorizzazione del sentimento di paura perenne, legata alla precarietà e alla sfuggevolezza delle condizioni lavorative e di vita, nonché delle relazioni sociali e umane sempre più sfaldate, ha generato quel caos e quell’automatica quanto inconsapevole repressione delle frustrazioni del singolo, che hanno castrato ogni anelito di ribellione.

Neoliberismo di Ilaria Bifarini
Uscire da questa eterna schiavitù, cui l’invasore ci ha condannati è impossibile, se prima non viene individuato il nemico e il campo di battaglia. di Ilaria Bifarini (autrice di “Neoliberismo e manipolazione di massa. Storia di una bocconiana redenta“) Fonte: Scenari Economici
Cavalieri del terzo millennio
A che serve un Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio come quello che ha dato alle stampe Roberto Marchesini per Sugarco? Sappiamo quale sia la reazione quasi pavloviana del mainstream. Ma perché mai avere un codice? A che ci serve? Noi facciamo quello che ci pare e piace! È il principio alla base dell’edonismo di ogni tempo: lo scopo della vita sta nella ricerca del piacere.
Ma davvero cercare il piacere vuol dire fare quello che si vuole? Qui sta precisamente l’inganno della morale del piacere. Sì, perché fare ciò che ci piace non coincide affatto col fare ciò che si vuole, ci ricorda Marchesini – che in questa sua ultima fatica riannoda le fila di un discorso iniziato sette anni fa con Quello che gli uomini non dicono. E lo prova il fatto che ci si impegni in attività faticose, che esigono sacrificio (come lo sport, lo studio, il lavoro, ecc.) senza che nessuno ci costringa a farlo. Il piacere anestetizza, solleva dalla sofferenza. Ma non può dare senso alla nostra vita. Chi pensa solo a divertirsi (dal latino divertere, cioè allontanare, deviare) in realtà è qualcuno che cerca di allontanarsi dalla sofferenza. Il divertimento sottrae per un attimo fuggente dall’angoscia di una vita senza scopo, non di più.
Eccolo, il nemico mortale della morale del piacere: l’idea che la vita abbia un télos, uno scopo intrinseco, e che la vita trovi la sua piena realizzazione soltanto col compimento di questo scopo. L’imperativo del divertimento per tutti e a tutti i costi non vale che a consegnare la vita umana a un insensato eterno presente.
In verità c’è stata nell’Antichità una scuola filosofica che considerava il piacere come lo scopo della vita: la scuola di Aristippo di Cirene. A differenza dell’amico Socrate, Aristippo non disputò mai sul fine ultimo della vita accontentandosi di affermare che la felicità stava nella ricerca del piacere. Una posizione che aveva delle precise conseguenze sul piano morale. Se solo il piacere è la misura del bene, allora la virtù e l’amicizia non sono altro che beni strumentali, utili solo per la nostra convenienza. Per la scuola cirenaica nemmeno esisteva un ordine naturale. «Nulla è giusto o bello o turpe per natura, ma solo per convenzione (nomos) e consuetudine (ethos)», si legge in uno dei frammenti dei Cirenaici.
Uno dei discepoli più coerenti di Aristippo fu un certo Egesia, il quale sosteneva l’impossibilità di raggiungere la felicità (sempre intesa come piacere) poiché quaggiù sulla terra, a causa dei dolori del corpo, i piaceri si rivelano davvero pochi. E non esistendo altri valori all’infuori del piacere e dell’utilità tanto valeva allora darsi la morte. Questo radicale pessimismo valse ad Egesia il poco lusinghiero soprannome di “persuasore di morte” (peisithanatos), visto che molti, udite le sue teorie, si davano spontaneamente la morte. Per questo gli fu vietato di insegnare la sua deleteria dottrina nelle scuole.
Inutile dire dove aleggi oggi lo spirito di Egesia. Non è difficile intravedere la sua ombra dietro all’opera di quei manutengoli senza scrupoli che accompagnano, da novelli persuasori di morte, i fragili e i deboli verso i servizi eutanasici forniti a caro prezzo da alcune cliniche svizzere. L’imperativo del piacere promette una falsa liberazione. Non porta ad altro che alla schiavitù dalle passioni, non senza prima averci illusi di aver optato liberamente per la morte. Ma c’è libertà nella scelta del nulla? Non è invece un desiderio di onnipotenza che, come quello che ghermisce Kirillov nei Demoni portandolo al suicidio, è solo il tipico prodotto di una fantasia infantile? Dunque di una volontà immatura, non pienamente realizzata?
Le passioni, insiste Marchesini, schiavizzano se non sono dominate e orientate dalla retta ragione. Come sfuggire allora ai moderni discepoli di Egesia? Innanzitutto ricordandosi che la vita è fatta per essere spesa per qualcosa di superiore alla vita stessa. La vera felicità sta nel donare se stessi. E a questa paradossale felicità si arriva coltivando virtù come il coraggio, la prudenza, la temperanza, la giustizia.
Solo così l’uomo arriva a realizzare se stesso trasformandosi, come dicevano i latini, da homo (l’essere biologicamente di sesso maschile) in vir, l’uomo pienamente tale. È la virtus a rendere virile un uomo, non la semplice biologia (il fatto di essere nato maschio). Il maschio ha il dovere di diventare un uomo, attuando così il potenziale donatogli al momento del concepimento.
Come può il maschio diventare ciò che è in potenza, cioè un uomo? La virtù è come un abito (habitus). Per manifestarsi deve perciò essere indossata. Come diceva Aristotele si diventa coraggiosi se ci si comporta da coraggiosi.
Uno dei pregi indiscutibili di Marchesini è la capacità di mostrare con chiarezza, senza nulla concedere all’ampollosità, il legame organico tra quelle che canonicamente vengono definite “virtù cardinali”. E tali sono per la loro natura di perno, dunque di base che permette di articolarsi.
La prima tra le virtù cardinali è il coraggio (o fortezza), che non ha alcun grado di parentela con la temerarietà. Essere coraggiosi non consiste nel ricercare un annientamento fine a se stesso. Il coraggio non ha nulla a che vedere con la mistica della “bella morte”. È piuttosto la disposizione ad accettare il rischio di essere feriti, anche mortalmente, nella lotta contro il male. La fortezza pertanto presuppone un discernimento lucido tra il male e il bene. E questo giudizio richiede la virtù della prudenza, che a sua volta non si identifica con quella mediocrità anodina che rifugge ogni presa di posizione. Il vero prudente è il saggio che dopo aver individuato il bene lo abbraccia con risolutezza.
Un’altra virtù indispensabile è la temperanza. Le emozioni non vanno soppresse ma guidate. L’emozione (dal latino emovere, smuovere, spingere all’azione) serve a dare forza al nostro agire, serve a dare un corpo vibrante alle idee. Ma guai quando è l’emozione, cioè la passione, a guidare l’azione dell’uomo! Una emozione come il timore paralizza se prende il sopravvento. Solo se la guida resta salda in mano alla ragione il timore assolve la sua funzione ordinaria: quella di essere un segnale che ci indica il pericolo, che ci dice di stare attenti. Per questo oltre al coraggio e alla prudenza è necessaria una terza virtù: la temperanza, che ci permette di dominare le passioni orientandole verso il bene.
Infine c’è una quarta virtù cardinale: la giustizia, la capacità di dare a ciascuno quanto gli spetta. Essere giusti è qualcosa di più che osservare la semplice “legalità” (dato che, come ci insegna l’esperienza, vi possono essere leggi ingiuste che fungono da alibi a una irresponsabilità generalizzata). E l’uomo giusto nemmeno è il cultore del “doverismo” (il dovere per il dovere di kantiana memoria). Giusto è chi riconosce una legge superiore a sé e sente impegnata la propria personale responsabilità anche quando fare ciò che è giusto potrebbe nuocergli. Non c’è amore per la giustizia senza il coraggio.
Altre qualità legate alle virtù cardinali sono la sincerità (il coraggio di dire la verità in un mondo invaso dalla menzogna), l’onore (il possesso della virtù spinto al punto di saper rinunciare anche alla propria reputazione), la lealtà (la fedeltà alla parola data, qualcosa di molto superiore al semplice rispetto della legalità), la franchezza (antidoto al cinismo), la cortesia (la volontà di dare sempre il meglio di sé, soprattutto nelle relazioni coi più deboli).
C’è mai stato qualcuno capace di incarnare in maniera esemplare questi valori? Ebbene, c’è stato: il cavaliere. Nella cavalleria medievale gli uomini imparavano a essere generosi, coraggiosi, giusti, leali, cortesi. Morire, per il cavaliere medievale, era il coronamento di una vita donata al servizio della virtù.
L’uomo del terzo millennio è rimasto sprovvisto di codici cavallereschi perché è rimasto senza telos, senza uno scopo da dare alla propria esistenza. Ecco perché oggi è smarrito, debole, incerto. Sono numerose le immagini evocate dagli osservatori più acuti per descrivere la condizione dell’uomo contemporaneo: barbaro civilizzato, homo comfort, selvaggio con telefonino, signorino soddisfatto, bimbo viziato, uomo senza qualità, ecc.
In definitiva l’essere rimasto puramente “maschio” appare sinistramente simile ai Proci, questi eterni adolescenti nemici giurati della figura virile di Ulisse, o alle Bandar-log, le orde scimmiesche che nel “Libro della giungla” di Kipling simboleggiano una psicologia immatura, incapace di rispettare la legge e pertanto letteralmente fuori controllo. Oggi vediamo personificate queste lugubri figure negli sciami anonimi di web-squadristi, pronti a scattare per azzannare e linciare senza pietà chiunque capiti loro a tiro. Senza lo spirito cavalleresco non resta che una massa di individui schiavizzati dal proliferare incontrollato delle passioni.
http://www.maurizioblondet.it/perche-tornino-battere-cuori-cavalieri/
Generazione perduta
E non basta. Non solo facciamo sempre meno figli; quei pochi, sono disoccupati. La disoccupazione giovanile in Italia tocca il 40%. Gente che non lavora, non produce; gente che non paga tasse né contributi, anzi campa a carico della famiglia, spesso della pensione del nonno; una gioventù invecchiata senza impegno, che sta perdendo quelle poche competenze che ha imparato a scuola, che non ne acquista di nuove nel posto di lavoro che non ha, né troverà..
Si (stra)parla di “generazione perduta”, e d è vero – ma senza che i governi (e la burocrazia avida e parassitaria e incompetente) abbiano mosso un dito per risolvere un così disperato problema, un così angoscioso spreco di risorse umane, e il pericolo sociale, morale, di una generazione di senza futuro che non ha davanti se non il degrado e una piccola criminalità – tipicamente lo spaccio.
http://www.maurizioblondet.it/parlamento-lo-sa-cosa-manca-ai-nostri-giovani/
A chi ve lo diceva, non avete creduto. Adesso i salari per i giovani – i pochi giovani che hanno lavoro – tendono a scendere verso le paghe dei minjob tedeschi: 480 euro al mese. Oppure occupazione coi voucher, un mese sì e due no. Perché di quei (pochi) vostri figli che lavorano, il 30% sono pure precari. Senza contare il 33 per cento delle donne che non portano alcun reddito, “stanno a casa”
http://www.lulu.com/shop/andrea-malaguti/generazioni-in-perdita/ebook/product-14615845.html
La cultura dell’egoismo
di ALBERTO G. BIUSO (filosofo; Università di Catania)
Castoriadis e Lasch partono dalla consapevolezza aristotelica che «quel che noi chiamiamo individuo è in un certo senso una costruzione sociale» (La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo, postfazione di Jean-Claude Michéa, elèuthera, pp. 68, euro 8), che «nella società attuale non stiamo più producendo individui capaci di incarnare la visione aristotelica. Abbiamo perso quell’ideale?». Sì, la sinistra lo ha perso, sostituendo la lotta di classe con una ideologia dei diritti umani di evidente impronta liberale, non certo marxiana. Invece che affiancarsi alla lotta di classe, la lotta contro le discriminazioni ha sostituito la lotta di classe, segnando in questo modo la fine della sinistra.
I dispositivi concettuali di questa autodissoluzione sono consistiti nella negazione delle invarianti antropologiche, nella rinuncia a ogni identità collettiva a favore dei diritti del singolo, nell’illusione della crescita illimitata, alla quale sono legati quelli dello «sviluppo sostenibile» e dell’equa distribuzione dei profitti del capitale. Si esprime qui una certa ironia verso coloro che al materialismo delle identità corporee preferiscono quella che Michéa definisce «l’ideologia neospiritualista». Di sinistra sarebbe piuttosto «il rifiuto della riduzione degli esseri umani allo statuto di ’atomi isolati privi di consapevolezza generale’ (Engels)».
La sinistra del XXI secolo ha dunque rinunciato alla critica nei confronti di un mondo dominato dall’iperindividualismo e ha accettato come inevitabile e ricca di opportunità «una ’società dei consumi’ basata sul credito, sull’obsolescenza programmata e sulla propaganda pubblicitaria».
È sulla base di tale consapevolezza che Castoriadis e Lasch «erano giunti ad avere lo stesso sguardo disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva ’le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato’». Un disincanto che li induce ad affermare che ormai «da lungo tempo il divario destra-sinistra, in Francia come nel resto del mondo, non corrisponde più ai problemi del nostro tempo, né riflette scelte politiche radicalmente opposte».
Ma per entrambi la possibilità della libertà nell’eguaglianza è sempre aperta. Castoriadis, in particolare, insiste sulla natura «tragica» della libertà poiché essa non possiede limiti esterni sui quali fare affidamento ed è fondata invece sulla pratica dell’autonomia, il cui modello rimangono per lui sempre i Greci. Nelle loro tragedie, infatti, «l’eroe muore a causa della sua hybris, della sua superbia, perché trasgredisce in un contesto dove non esistono limiti predefiniti. Questa è la nostra condizione».
La negazione del limite sta a fondamento della presunta razionalità liberale, il cui principio di crescita indefinita contrasta con la realtà dei limiti del pianeta, il cui principio di opportunità per tutti confligge con la realtà del profitto che moltiplica soltanto se stesso.
Questo libro non si limita a una critica argomentata e convincente dell’individualismo di sinistra. Propone alternative praticabili, fondate sul fatto che tradizione e mutamento devono essere viste e vissute in una logica non oppositiva ma inclusiva.
Un programma politico di sinistra deve «definire le istituzioni concrete grazie alle quali una ’società libera, egualitaria e decente’ (George Orwell) possa conferire tutto il proprio senso a questa dialettica creatrice tra il particolare e l’universale. (…) Ecco dove sta tutta la differenza fra una lotta politica che, sulla scorta di quella degli anarchici, dei socialisti e dei populisti del XIX secolo, mirava innanzitutto a offrire agli individui e ai popoli i mezzi per accedere a una vita realmente autonoma e un processo storico di perpetua fuga in avanti (sotto il triplice pungolo del mercato ‘autoregolato’, del diritto astratto e della cultura mainstream) che quasi più nessuno, quanto meno tra le file delle nostre sfavillanti élite, si cura di padroneggiare a fondo e che potrà solamente condurre (ancorché santificato con il nome di Progresso) a una definitiva atomizzazione della specie umana». Non si può dire che non fossimo stati avvertiti.
fonte: “il manifesto”, 1.3.2014 riportato in http://www.appelloalpopolo.it/?p=15348
La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo
Agent of chaos
Mi viene in mente un romanzo distopico di Norman Spinrad, scritto negli anni sessanta e intitolato, appunto, Agent of Chaos. In questo bel romanzo di fantascienza, al conflitto sociopolitico fra un regime totalitario, spietato e invasivo, un po’ orwelliano e un po’ huxleyano, e i ribelli democratici che rappresentano i “buoni” resistenti, si sovrappone l’efficace strategia del caos dell’inquietante confraternita degli assassini, ispirata dagli scritti di Gregor Markowitz, in cui elementi irrazionali e religiosi giocano un ruolo importante.
La narrazione del conflitto che truffaldinamente propongono i media occidentali, in relazione alla Siria epicentro dello scontro, ricorda un poco il romanzo di Spinrad. Da una parte un dittatore spietato, Bashar Al-Assad, che “stermina il suo popolo”, come ripete a ogni occasione John Kerry, segretario di stato Usa, il quale mente sapendo di mentire, dall’altra i fantomatici “ribelli moderati”, presunti buoni quanto l’opposizione democratica in Agent of Chaos, e fra i due contendenti la confraternita degli assassini, incarnata dallo stato islamico o daesh, che semina a piacimento la morte e il caos. Una lettura propagandistica e sbagliata della guerra in Siria, ma funzionale agli inconfessabili disegni dell’occidente neocapitalista e dei suoi compari, primi fra tutti Arabia Saudita, Turchia e Israele.
Daesh è l’Agent of Chaos della situazione, non solo in Siria? Sicuramente è un potente strumento di destabilizzazione che ha potuto, però, crescere a dismisura e ottenere successi inquietanti, come la presa di Raqqa, Mosul, Ramadi, Derna, Sirte, grazie ai potenti “padrini” che lo coccolano, lo vezzeggiano e lo riforniscono di tutto ciò che gli serve: soldi, armi, mercenari, Toyota e Humvee, tecnici petroliferi e molto d’altro. Dietro il Chaos seminato con successo da daesh non vi è una cosmica Entropia, più forte che qualsiasi altra cosa come negli scritti immaginari di Markowitz, ma la longa manu neocapitalista che nella guerra a puntate, in corso da qualche anno, persegue obbietti importanti.
Del resto, dietro il “softpower” obamiano, rappresentato dai media pinocchieschi come una sorta di dominazione “dolce”, destabilizzazione, scenari di guerra e caos la fanno da padroni. Torna utile daesh, come si è rivelata utile la soldataglia ucraina euronazista contro gli interessi e le popolazioni russe nel Donbass.
Il vero e più immediato rischio, dopo l’abbattimento sul confine siriano del jet russo da parte dei turchi, pappa e ciccia con americani e Nato, è lo scoppio di un conflitto diretto con la Federazione e (forse) i suoi alleati più stretti. In tal caso, la guerra non sarà più a puntate, o a pezzettini, ma di respiro planetario, coinvolgendo l’Europa e forse anche la Cina, in un rapido crescendo nucleare-batteriologico-chimico.
…
Tornando per un attimo al romanzo di Norman Spinrad, dovremmo aver compreso che sono loro i veri capi della confraternita degli assassini, i più importanti agenti del caos. Come può esistere (ed esiste!) un ordine nel caos cosmico, fra le particelle che si muovono disordinate, così la strategia del caos, applicata su vasta scala dalle élite globaliste di matrice occidentale, è finalizzata a imporre il loro ordine sociale, politico, economico.
Leggi tutto su: http://pauperclass.myblog.it/2015/11/26/strategia-del-caos-guerra-puntate-obbiettivi-delloccidente-neocapitalista-eugenio-orso/
Vaccinazioni
L’allarme (o allarmismo?) sulle vaccinazioni è stato giustificato da medici e ministero della salute con il fatto che le coperture sarebbero calate in misura tale da generare pericoli imminenti di epidemie o morti. Ma, stando ad una lettera inviata dall’associazione Assis (Associazione di Studi e Informazione sulla Salute) agli assessori regionali e ai membri delle commissioni Sanità di Camera e Senato, le coperture non paiono affatto tanto in calo. Eppure la tensione non scende e il nuovo Piano nazionale vaccini, di cui è stata rimandata l’approvazione per verificarne la copertura finanziaria, prevede addirittura l’introduzione di un buon numero di ulteriori vaccini e contiene l’esplicito invito agli Ordini dei Medici a sanzionare gli operatori sanitari che esprimono perplessità sulle vaccinazioni.
In questo dibattito aspro e durissimo si inserisce la lettera firmata da 150 medici e inviata al presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, di cui vi riportiamo il contenuto.
http://www.ilcambiamento.it/medicina/vaccinazioni_paura.html
L’io minimo
Citazione
“In un’epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza. Gli uomini vivono alla giornata; raramente guardano al passato, perché temono di essere sopraffatti da una debilitante “nostalgia”, e se volgono l’attenzione al futuro è soltanto per cercare di capire come scampare agli eventi disastrosi che ormai quasi tutti si attendono. In queste condizioni l’identità personale è un lusso, e in un’epoca su cui incombe l’austerità, un lusso disdicevole. L’identità implica una storia personale, amici, una famiglia, il senso d’appartenenza a un luogo. In stato d’assedio l’io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro le avversità. L’equilibrio emotivo richiede un io minimo, non l’io sovrano di ieri.”
Tratto dal libro di Christopher Lasch “L’Io minimo”
Effetto Dunning-Kruger
Per contrasto, le persone molto competenti sottovalutano le loro capacità, e soffrono di inferiorità illusoria. Questo causa una situazione viziosa, in cui le persone incompetenti si considerano molto superiori alle persone veramente competenti. Il fenomeno spiega anche perché la competenza vera possa indebolire la fiducia in se stessi, in quanto le persone competenti presumono, errando, che gli altri abbiano un livello di comprensione e abilità almeno equivalente al loro. La distorsione cognitiva degli incompetenti deriva da un errore di valutazione di se stessi che può portare a svalutare gli altri, mentre quella dei competenti deriva da una valutazione errata degli altri che può portare a svalutare se stessi.
L’ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza. – CHARLES DARWIN (naturalista e geologo britannico)
Elevando al cubo la distorsione cognitiva dell’incompetente entriamo nell’incubo: un incompetente fa rete con altri suoi simili e insieme cominciano a diffondere, in modo virale, idee campate in aria sgorgate dalla loro incompetenza. Per rafforzarsi, inconsapevolmente, sostengono che chi non la pensa come loro è in malafede, al soldo di qualche occulto gruppo d’interesse.
Gianluca Magi , I 64 enigmi, Sperling & Kupfer, p.115