Sulla questione del merito

Sulla questione del merito, tornata in voga in questi giorni, destra e sinistra fondano le rispettive posizioni sull’individuo e non, come invece va fatto, sulla comunità. L’obiettivo non dovrebbe infatti essere quello di elevare il singolo, ma quello di elevare la comunità, realizzando un sistema educativo e sociale capace di mettere i cittadini nelle condizioni migliori per creare valore aggiunto alla comunità, elevando la Patria.
Da un lato, c’è la destra, orientata giustamente alla valorizzazione di chi si contraddistingua per la capacità di mettere a frutto i propri talenti, con impegno e dedizione. Ma questa destra vorrebbe farlo senza rimuovere o limitare gli ostacoli economico-culturali che impediscono a chi nasca e cresca in condizioni oggettivamente inidonee alla sue propensioni innate – rispetto alle quali, come ci ha insegnato Platone, non c’è una necessaria corrispondenza tra genitori e figli – di esprimere le proprie potenzialità.
Dall’altro, c’è la sinistra, orientata giustamente a rimuovere le disuguaglianze a monte, le condizioni di iniquità oggettive che, a seconda della estrazione socio-economico-culturale, quindi anche territoriale, in una parola di ambiente, penalizzano o premiano il singolo in maniera aprioristica, quindi ingiusta. Ma questa sinistra vorrebbe farlo eliminando la gerarchia di qualunque ordine e grado, cioè livellando verso il basso la comunità, soffocando i talenti, quali che siano a seconda degli ambiti, secondo la logica – altrettanto iniqua – del sei politico.
A ciò una postilla: leggo, da una parte e dall’altra, che la madre delle questioni sarebbe l’elevazione culturale del singolo, la quale passerebbe attraverso un’istruzione necessariamente teoretico-intellettuale. Ma perché mai si dovrebbe, ad esempio, soffocare il talento di chi abbia una propensione per la manualità e scarsa attitudine all’astrazione, costringendolo a sgobbare sui libri?
L’obiettivo di una società equa e con una corretta gerarchia sociale, non è quello di realizzare una società di intellettuali, per usare un’iperbole, ma quello di mettere ciascuno nelle condizioni migliori – e non mi parlate delle borse di studio, l’equivalente di un cerotto per arrestare l’emorragia di un’arteria – per esprimere le proprie potenzialità a beneficio di sé e, soprattutto, della comunità.

Davide d’Iintino inhttps://www.ariannaeditrice.it/articoli/sulla-questione-del-merito

Progressismo

Questa variante – oggi dominante – del progressismo, che potremmo chiamare progressismo nuovista o eliminazionista, divenne prevalente nel positivismo di fine ‘800, e di nuovo a partire dagli anni ’50 del XX secolo, prima negli USA e poi in Europa. Qui il “bene” viene identificato automaticamente con il superamento del vecchio, del dato. Chi si oppone a questo movimento viene immediatamente stigmatizzato come arretrato, nostalgico, reazionario. Essere “aggiornati” (up to date), che si tratti di gadget tecnologici o capi d’abbigliamento o mode politicamente corrette, è ciò che si richiede per essere dalla parte del bene. Mettere ciò in discussione viene letto automaticamente come segno di sanzionabile ottusità.
Questo atteggiamento potrebbe far sorridere per la sua superficialità, se non fosse che tale superficialità è coniugata con la più potente forza della contemporaneità ovvero il capitale. Così come il capitale, per svilupparsi liberamente, esige la rottura di ogni radicamento e di ogni vincolo non negoziabile, così l’impianto del progressismo nuovista (o eliminazionista) edifica un’etica della cancellazione del passato in ogni sua forma.
Di ciò fa parte naturalmente ciò che è venuto agli onori della cronaca come “cultura della cancellazione” (CANCEL CULTURE), con le sue performance di spettacolare imbecillità, ma più gravemente ancora ne fa parte una cultura che assume il medesimo atteggiamento di cancellazione e superamento nei confronti di qualunque ordinamento naturale, percepito istintivamente come un vincolo insopportabile. La cultura “transumanista” occupa un ruolo importante in questa cornice, in quanto esprime la nevrosi costitutiva di un’epoca che non è più affatto in grado di percepire il valore nel dato, nel reale, nel naturale, ma soltanto nell’idea fantasticata del loro superamento. Anche la natura umana, in cui si radicano necessariamente tutte le nostre inclinazioni morali e tutte le nostre posizioni di valore, viene concepita come qualcosa di infinitamente manipolabile, adattabile, superabile. Che ciò tolga da sotto i piedi ogni criterio di bene e male non viene percepito come un problema, visto che la ragione liberale ha dall’inizio tolto il bene e il male dal piano dei contenuti obiettivi.
Sul piano culturale e teorico è abbastanza semplice mostrare l’insostenibilità strutturale del progressismo eliminazionista in tutte le sue varianti, tuttavia tale concezione è e resta il terreno ideologico prediletto dei ceti che cavalcano le spinte del capitale, e questo vi conferisce una sorta di egemonia epocale. Il movimento del capitale è la tendenza di un potere di principio di accrescersi indefinitamente. Chi progetta la propria esistenza sulla scorta dell’idea “pre- (o post-) umana” di accrescimento indefinito non può che nuotare come un pesce nell’acqua in tutte le concezioni che vagheggiano il perenne superamento, il perenne al di là, l’oltre, il di più, in quanto tali.
Questi soggetti abbracciano con pari entusiasmo progetti di ingegneria sociale o di ingegneria genetica, ed essendo organicamente privi di ogni riferimento valoriale diverso dal “nuovo” e dall’“oltre” non sono neppure in grado di percepire gli aspetti distruttivi e degenerativi di ciò che propongono.
Su questo piano la nostra epoca sta assistendo ad una vera e propria contrapposizione antropologica, irriducibile. Questa contrapposizione oggi è diventata politica.
Da un lato troviamo chi sostiene una spinta strutturalmente eliminativa delle eredità storiche e naturali, percepite come fardelli di cui liberarsi, e dall’altro chi resiste a tale spinta in quanto percepisce storia e natura come fonti primarie di valore.
Dagli esiti di questo confronto culturale e politico, che ha anche un fondamentale aspetto geopolitico, dipenderà la direzione dell’umanità futura.

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/progressismo-transumanesimo-e-ingegneria-sociale

L’uomo sciame

Ha approfondito il tema il pensatore tedesco coreano Byng Chul Han, per il quale lo sciame è la condizione dell’uomo del secolo XXI. Non più folla- neppure solitaria come per Davis Riesman- e neanche massa. Lo sciame è una molteplicità di soggetti che, pur avendo la possibilità di relazionarsi e comunicare attraverso la Rete, sono atomi solitari. La differenza con l’uomo-massa è che all’interno di una massa l’uomo perde la sua individualità, ma resta all’interno di un insieme comune. Nello sciame, che si muove secondo ritmi e itinerari sconosciuti ai singoli componenti, ciascuno resta solo, un puntino in corsa in una direzione che ignora. Lo sciame digitale non è una folla, non possiede un’anima o uno spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame è una macchia di individui isolati.

Fabianesimo

In conclusione, lo “stakeholder capitalism del XXI secolo” del professor Schwab sembra delineare una sorta di “socialismo benevolo”, un’evoluzione su scala planetaria di quel mito evergreen che è lo Stato assistenziale dei Paesi dell’Europa settentrionale. La collaborazione stretta tra grande finanza, big-tech, media e capitalismo clientelare è, ovviamente, necessaria alla realizzazione del progetto: promesse di “salute” e “sicurezza”, garantite dall’alto (nella forma di maggiori sussidi pubblici e di “reddito universale di cittadinanza”); più tasse, meno libertà (e meno responsabilità), meno privacy e meno scelta individuale. Un “socialismo liberale”, insomma, un po’ gnostico e un po’ fabiano, che intende mantenere la sovrastruttura liberal–democratica, ridotta però a un guscio vuoto, mentre le risorse e le decisioni importanti sono destinate ad essere sempre più accentrate presso “tecnici” e “competenti”, presso “cabine di regia” sempre più lontane. Una prospettiva distopica che ricorda più quella evocata nel Nuovo mondo di Aldous Huxley (1894-1963) che non quella paventata in 1984 di George Orwell (1903-1950). Quos Deus perdere vult, dementat prius: qualsiasi progetto contrario alla natura dell’uomo e all’ordine delle cose è destinato inevitabilmente al fallimento finale, ma può tuttavia arrecare dei seri danni, per molti anni a venire.

http://www.opinione.it/societa/2021/12/21/maurizio-milano_stakeholder-capitalism-a-global-economy-that-works-for-progress-people-and-planet-klaus-schwab/

Razzismo

Di fronte a una refrattarietà al vaccino che viene presentata come una sorta di follia, una pazza e irrazionale sfiducia nella Scienza, si moltiplicano le descrizioni dei No Vax come un gruppo a parte. Come si sente risuonare in molte parole anche ai massimi livelli, essi non sono più cittadini come gli altri. Troviamo sui giornali “identikit dei No Vax” dove si va da condanne morali (egoisti) e peana sulla loro ignoranza, ad esplicite istanze di psichiatrizzazione.
Quest’ultimo passo è particolarmente significativo: trattando il soggetto dissenziente come un soggetto da indagare sotto il profilo della terapia psicologica o della psichiatria, ora esso non è più considerato una persona autonoma, ma diventa un oggetto di studio, non è più un soggetto mosso dalle proprie ragioni, ma un oggetto che reagisce a cause interne, da disinnescare. Nella concettualità moderna, questa è la mossa finale nella costruzione di un gruppo destinato a divenire un capro espiatorio: i suoi partecipanti vengono separati dall’umanità ordinaria, vengono disumanizzati. O vengono disumanizzati in termini morali (si sprecano le invettive, le espressioni di disgusto, le minacce anche da parte di personaggi prominenti), o vengono disumanizzati in termini mentali (non sono davvero padroni delle proprie azioni, ma vittime di pulsioni oscure, pregiudizi o distorsioni cognitive; sono malati che non sanno di saperlo e che, a maggior ragione, meritano un trattamento sanitario obbligatorio.)
Le analogie di questa dinamica psicologica con eventi drammatici del ventesimo secolo, eventi che ritenevamo superati per sempre, è sorprendente, come è sorprendente che gente che fa a gara a darsi reciprocamente medaglie di antifascismo non lo veda minimamente. È ovvio che contesti e premesse sono diverse, lo sono sempre, visto che la storia non si ripete mai identica. Però questo non deve distogliere lo sguardo dalle analogie. Quando in questi casi sento brandeggiare l’argomento che in quei tempi bui si parlava di pregiudizi irrazionali, come il “razzismo”, mentre oggi è la Scienza a parlare contro l’Irrazionalità, non posso che ricordare sommessamente che il “Manifesto della Razza” del 1938 venne firmato da alcuni tra i più eminenti scienziati dell’epoca, che nelle università c’erano cattedre di “scienze della razza”, e che il “razzismo scientifico” è scomparso solo con gli esiti della seconda guerra mondiale.

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/identikit-del-no-vax-o-del-come-costruire-un-capro-espiatorio

Nomadi digitali

Il fatto di poter essere erratici, di vagabondare per il vasto mondo a patto di non cogliere mai l’essenza della diversità perché per poterlo fare occorre avere delle radici che semmai ci fossero vengono mozzate dagli pseudo emancipati a forza di luoghi comuni, conferisce l’illusione del libero arbitrio. E il poter scrutare nell’infinito catalogo di un pianeta trasformato in attrazione etno turistica, restituisce davvero la sensazione di essere liberi. E tutto il resto diventa accessorio , comprese le libertà fondamentali.

Quindi con un solo passaporto vaccinale si ottengono due scopi essenziali per il potere: quello di portare intere mandrie ad accettare di essere cavie di un esperimento genetico e nello stesso tempo di portare molte persone ad abiurare alle libertà di fondo senza nemmeno fare troppa resistenza. E quando qualcuno miracolosamente rinsavito dai fumi mediatici della pandemia narrativa, chiederà la restituzione del maltolto, visto che un’emergenza non può durare per sempre, si sentirà rispondere che la merce non è più disponibile. e gli saranno mostrati tutti gli atti di sottomissione con lui egli stesso ha alienato la propria libertà. Gli sarà forse consigliata una crociera per sbollire l’ira e la delusione di sé, naturalmente una crociera sostenibile, ancorché la nave consumi lo stesso carburante di prima e inquini la stessa fruizione dei paesaggi naturali e urbani. Oppure potrà pur sempre aggrapparsi a qualche “eroe” del look, perché cos’è davvero un uomo se non il suo aspetto? Non lo ha detto Balzac e nemmeno Montesquieu lo diciamo noi con la nostra quotidiana codardia.

estratto da https://ilsimplicissimus2.com/2021/09/05/il-trucco-della-liberta-154673

l covidismo, neonata religione universale

Livio Cadè – 09/05/2021

Il covidismo, neonata religione universale

Fonte: Ereticamente

“Ci sono due modi per far muovere gli  uomini: l’interesse e la paura.”
Napoleone Bonaparte

Unire l’intera umanità sotto un’unica fede è un’impresa in cui han fallito religioni venerande, nonostante millenari proselitismi. Al covidismo son bastati invece pochi mesi per radunare i popoli della Terra in una Chiesa perfettamente organizzata sul piano del dogma, della morale e della liturgia. Il segreto di tale risultato è duplice: da un lato, una congregazione mondiale de propaganda fide che ha svolto una formidabile e diuturna opera di conversione; dall’altro, un’umanità che della propaganda fa ormai il suo pane quotidiano, l’aria che respira.
Il covidismo, neonata religione universale, non soppianta le precedenti religioni o filosofie, ma le ingloba. Riunisce cristiani, marxisti, buddhisti ecc. all’interno di un unico grande pensiero ecumenico, nonostante sia per sua natura anti-cristiano, anti-marxista ecc. La neo religione attrae le masse per la sua dogmatica medico-scientista, mediatrice tra l’uomo e la salvezza.

Come dottrina metafisica, il covidismo ruota su due cardini: il  Peccato, contagio spesso asintomatico che rende l’uomo mortale, e la Grazia, speranza di immortalità mediata da un vaccino. Entrambi sono misteri della fede e in quanto tali trascendono la ragione. Come prassi morale, il covidismo è una Legge di tipo mosaico, precettistica scrupolosa e ossessiva fatta di purificazioni e interdizioni rituali. Ma è anche profetismo escatologico, sorta di millenarismo, utopia farmaceutica secondo cui i giusti, cioè i vaccinati, regneranno sulla Terra.
Il covidismo non è dottrina d’amore o verità ma di paura. Non presuppone alcuna trascendenza. Professa un’immanenza carnale e malaticcia, cui dedica un culto integralista. È incerta guerra fra una Natura satanica e un Farmaco messianico. Non promette felicità in questo o in altro mondo. Non prevede, come ogni altra religione, una salute futura; solo un’emergenza sanitaria che sempre rinasce dalle proprie ceneri, come una Fenice; un eterno stato influenzale cui opporre un perenne Stato diagnostico-terapeutico. È celebrazione di una perpetua ipocondria.
Alcuni, senza dubbio, sono covidisti per calcolo, come per convenienza furono cristiani alcuni conquistadores o schiavisti, papi e cardinali. Ma il covidista ingenuo si illude, osservando i precetti e partecipando ai Sacramenti vaccinali, di poter salvare l’umanità, o almeno sé stesso, dal peccato e dalla morte.
Politicamente, il covidismo mira a governare l’umanità ricordandole quotidianamente la sua precarietà biologica, sorta di assillante memento mori. Soddisfa così l’oscura voluttà con cui tanti amano la sofferenza e la paura. Il covidista gode delle sue catene, prova una dissimulata libidine nel sottomettersi. Psicologicamente, il covidismo è quindi una nevrosi masochistica. Prospera perché pesca in quella sterminata massa che da sempre ama la servitù volontaria.

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-covidismo-neonata-religione-universale

Fuori legge Spinoza

DIstrazione

. Il potere disciplinare svelato da Michel Foucault si concretizza nell’intuizione di Gilles Deleuze sull’uomo condotto dalle varie oligarchie neocapitaliste, alleate nel progetto di dominio a una nuova soggettività di gregge legata al desiderio, alla compulsione, al primato dell’impulso, da cui deve essere espunta la dimensione riflessiva, critica, etica e spirituale. Viviamo in un regime post democratico e post liberale, in cui il prefisso post definisce una condizione mobile, non ancora ricondotta al nuovo paradigma, a metà del guado, scissa tra ieri e domani, dominata dal Grande Adesso. Il risultato voluto è quello di un gregge meno numeroso (denatalità, omosessualità, svalutazione della paternità e della maternità, egoismo, soggettivismo, dipendenze, abortismo, eutanasia) unificato nel consumatore globale a taglia unica, pensiero unico, sesso unico.

Fa sorridere il passo di Shakespeare in cui il bardo fa dire a un personaggio del Giulio Cesare che il re sa tutto, conosce tutto, con mezzi che nemmeno si possono immaginare. Appare superata anche la riflessione di Spinoza. “ se fosse tanto facile comandare sulle menti come sulle lingue, l’impresa di governare gli uomini sarebbe molto più semplice poiché tutti vivrebbero secondo la volontà di coloro che comandano e giudicherebbero il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, esclusivamente in base ai loro mandati” Ognuno, invece, aggiungeva Spinoza, crede di possedere sufficiente capacità di giudizio per valutare le cose da sé, di modo che “esiste tanta differenza tra le teste come tra le bocche “. Generose anticaglie, temiamo.

Poco consola il testo costituzionale in cui, all’articolo 21, si afferma che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.”  Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Si chiedeva Dante nel canto XVI del Purgatorio. La pretesa del legislatore di trasformare in delitti certe opinioni e i pensieri che le generano dovrebbe trovare il suo limite nei diritti fondamentali di coscienza. Non è più così, segno tangibile che siamo transitati nell’epoca post liberale e post democratica. Credenza ingenua la convinzione che certi diritti di libertà fossero blindati, fossero, per così dire, per sempre. Nel 1670 Spinoza scriveva che in uno Stato libero “è contrario alla libertà di tutti impadronirsi del libero giudizio di chicchessia, costringendolo in qualsiasi forma.” E’ l’inizio del Trattato Teologico Politico, il cui obiettivo era dimostrare che “in uno Stato libero è permesso che ciascuno pensi ciò che vuole e dica quello che pensa”, come si legge nel capitolo conclusivo.

La democrazia dei pensieri illeciti

 

Ortega y Gasset

Riprendendo la critica di Nietzsche all’intellettualismo, di cui Socrate fu maestro, Ortega afferma che il tema del nostro tempo consiste nel «sottomettere la ragione alla vitalità», nel «mostrare che sono la cultura,  la ragione, l’arte, l’etica a dover servire la vita.» È una visione più ampia, più articolata quella proposta dal filosofo spagnolo, che parte dalla vita di ciascuno, dalla necessaria coesistenza con le cose, dal drammatico confronto tra io e mondo. La realtà non può che offrirsi in prospettive individuali, sicché  «tutte le epoche e tutti i popoli hanno posseduto la loro congrua porzione di verità.» Ogni popolo ed ogni epoca, anzi ogni generazione (è questa una nozione fondamentale per Ortega, se si vuole davvero comprendere il perché della storia, che è di continuo e sempre mutamento) ha una propria sensibilità vitale, che le consente di raggiungere alcune verità e di non percepirne altre: «Da diversi punti di vista due uomini guardano lo stesso paesaggio. Eppure non vedono la stessa cosa. (…) Ognuno dei due uomini percepirà porzioni di paesaggio  che non arrivano agli occhi dell’altro. Avrebbe senso che ciascuno dichiarasse falso il paesaggio dell’altro? Evidentemente no; è reale  tanto l’uno quanto l’altro. E non avrebbe senso nemmeno che i due uomini, poiché i loro paesaggi non coincidono, si mettessero d’accordo e li giudicassero illusori. (…) La realtà, come un paesaggio, ha infinite prospettive, tutte egualmente veridiche ed autentiche. La sola prospettiva falsa è quella che pretende di essere l’unica.» 

Oggi il razionalismo trionfa nello scientismo. Anticipando i rilievi critici mossi allo scientismo dai filosofi dell’ecologia (da Arne Naess a Rupert Sheldrake), Ortega trova le radici della fisica moderna e, più in generale, di un atteggiamento dello spirito che sopravvaluta la costruzione razionale a scapito della spontaneità e immediatezza della vita, nella filosofia di Cartesio: «L’entusiasmo di Cartesio per le costruzioni della ragione lo portò a realizzare un’inversione completa della prospettiva naturale dell’uomo. Il mondo immediato ed evidente che i nostri occhi contemplano, che le nostre mani palpano, che le nostre orecchie percepiscono, è composto di qualità: colore, solidità, suono ecc. Questo è il mondo in cui l’uomo era vissuto e vivrà sempre. Ma la ragione non è in grado di maneggiare le qualità.  Un colore non può essere pensato, non può essere definito. Deve essere visto. In altre parole, il colore è irrazionale. Al contrario il numero coincide con la ragione. Attenendosi soltanto a se stessa, essa può creare l’universo delle quantità attraverso concetti dai contorni chiari e ben marcati. Con eroica audacia, Cartesio decide che il vero mondo è quello quantitativo, quello geometrico; l’altro, il mondo qualitativo e immediato, che ci circonda pieno di grazia e di suggestione, viene squalificato e considerato in un certo senso come illusorio.»  

Da tale atteggiamento dello spirito, che avrebbe di lì a poco dominato nei salotti, nelle piazze e nei laboratori, nasce il temperamento rivoluzionario che vedremo all’opera nel 1789 e nel 1917. Se infatti ciò che conta è la ragione, se è solo la ragione che può decretare come dev’essere ogni istituzione politica, allora le istituzioni tradizionali sembreranno inette e ingiuste, e il passato e il presente potranno essere soppiantati da un futuro costruito a tavolino. Sennonché, chiosa il filosofo spagnolo, «incominciamo a sospettare che la storia, la vita, non possa né debba  essere governata da princìpi, come accade nei libri di matematica. È un’incongruenza ghigliottinare il principe e sostituirlo con il principio.» La filosofia della ragione vitale, contro l’utopismo e il progressismo, ci permette di cogliere il senso della vita. E «il senso della vita non è altro che accettare ognuno la propria inesorabile circostanza e, nell’accettarla, trasformarla in una creazione nostra.» 

estratto da https://www.barbadillo.it/91486-ortega-y-gasset-e-la-lotta-contro-le-false-verita-progressiste/

Eric Voegelin

Era questo, in estrema sintesi, l’assunto centrale delle tematiche care a Eric Voegelin – dimenticato, ma non da tutti, maestro di filosofia e lettore dei “nostri” tempi – che nei suoi scritti spiegò bene quanto «in questa società massificata quel che manca è proprio… la consapevolezza dell’individuo» (4). Un individuo, in altre parole, che pensa di poter aver un ruolo attivo nei processi decisionali ma che, invece, lo è solo in un susseguirsi scenografico di metodi di rappresentazione (in qualunque forma essi si palesino, dalle tradizionali elezioni a quelle virtuali sulle piattaforme pentastellate passando per le primarie amatriciane piddine), previsioni legislative, regolamentazioni amministrative, assistenza e tutela statale.

Non a caso più sono perfetti i meccanismi per il movimento dell’intero quadro istituzionale – oggi resi tali da realtà sovranazionali come l’UE e dal cosiddetto “turbocapitalismo” monolitico – tanto minore risulta la possibilità di una partecipazione effettiva, dal basso, non manipolata, dismessa – con boria da buona parte di sociologi, politologi, economisti e quanti altri allineati e inglobati nella matrix democratista – come proposta anacronistica, se non risibile.

In tal senso la figura dell’intellettuale rappresenta la cartina di tornasole della deriva delle nostre società: l’uomo colto, il sapiente, il filosofo, finisce per essere fagocitato nel complesso organismo di cui si è detto svolgendo, per esso, una funzione tra le tante ben lontana dalla mission platonica di “uscire dalla caverna”. Da ciò, già nel 1977, Norberto Bobbio aveva messo in guardia: ancor prima dell’entrata in scena dei palcoscenici mediatici delle Tv private e del social web egli aveva previsto quanto sarebbe stato inevitabile per l’intellettuale assumere, magari inconsapevolmente, un ruolo funzionale al potere fino a divenirne un efficace strumento di razionalizzazione (5).

La destoricizzazione della cultura e la fine dello Stato nazionale hanno velocizzato e incoraggiato tutto ciò. Ed il risultato è piuttosto paradossale: il “concetto” ha sostituito le cose e i rapporti concreti, la “persona” l’individuo, la “personalità” le sue caratteristiche, lo “Stato” l’equilibrio precario delle forze collettive, la “Chiesa” e la “religione” hanno surrogato ogni interiorità che non si disponga sul piano di una morale convenzionale. Tutto, dunque, «risponde alle esigenze di un ordine prestabilito, che è la sola garanzia di vita societaria» (6).

Il caso italiano fornisce un’irrinunciabile esempio di questo paradosso: oggi è molto più difficile svolgere un ruolo etico positivo rispetto all’Italia tra le due guerre. La storia della censura del Secondo dopoguerra rivela – a chi voglia leggerla senza pregiudizi ideologici né derive revisionistiche – una triste verità: «Togliamoci dalla testa l’idea che, finito il fascismo, finita la guerra, sia finita l’attività censoria di controllo della libertà di espressione» (7).

Anzi, tutt’altro: a differenza di Trotskij a Mosca e degli Strasser a Berlino è stato molto più semplice per Croce avere un ruolo più politico che filosofico durante il Ventennio – pubblicando indisturbato le annate de “La Critica”, stilando “Manifesti” e dirigendo egocentricamente il catalogo delle edizioni Laterza – che per Arrigo Cajumi scrivere su “Il Mondo” un articolo sulle responsabilità di Don Benedetto davanti al fascismo, per Gioacchino Volpe difendersi dall’epurazione antifascista ai Lincei o per Renzo De Felice condurre placidamente i suoi studi su Mussolini qualche anno dopo.

E l’elenco potrebbe continuare rievocando «la costante, aggressiva corrosione dell’idealismo da parte della cultura comunista del dopoguerra da “Rinascita”, a “Società”, al “Contemporaneo”» nonché i «micidiali interventi censori dell’apparato editoriale comunista, fin dalla prima edizione dei “Quaderni” di Gramsci, o alle becere interdizioni democristiane di accesso a “libri proibiti”» (8).

Quale la premessa, la radice di tale paradosso? La risposta è rinvenibile nelle pagine ancora attuali di Adorno e Horkheimer sul potere contemporaneo che si è imposto nel Secondo dopoguerra “senza fretta ma senza tregua” ricorrendo «attraverso i Mass Media a un’azione “preventiva” di condizionamento che abituando l’individuo ad una ricezione passiva e meccanica dei messaggi, gli introgetta un’immagine predeterminata, univoca ed asettica della realtà che “lo persuade” ad adottare un tipo di linguaggio e di comportamento impersonale e stereotipato, con l’effetto finale di inibirgli sia le funzioni immaginative che quelle critico-riflessive» (9).

Una persuasione, quindi, non meno violenta della forza coattiva ma molto più sottile, paralizzante, insidiosa e inattaccabile che fa della democrazia un democratismo il quale trae la sua linfa vitale nel determinismo di derivazione marxista che rigetta, per sua natura, qualsiasi intellettualità o filosofia.

Destrutturata la cultura, insomma, il “marxiano” 2.0 viene usato «indiscriminatamente a fini demagogici e di potere, senza mai contare gran che nella pratica di una decisione politica» trasformando gli epigoni dei censori del Secondo dopoguerra in “gerarchi” del pensiero unico, «mezze-figure, capipopolo senza scrupolo dediti esclusivamente alla soddisfazione di ambizioni insaziabili e al proprio tornaconto personale» (10).

Figure deprecabili, certo, ma che purtroppo confermano, non a caso, l’assunto di Voegelin secondo il quale «ogni società riflette nel suo ordine il tipo di uomo del quale si compone» (11).

Roberto Bonuglia, 1 febbraio 2020

Note

1) R. P. Wolff, Barrington Moore Jr., H. Marcuse, A Critique of pure tolerance, Boston, Beacon Press, 1965.

2) J. L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, Londra, Secker & Warburg, 1952.

3) P. Simoncelli, intervento al Convegno Oltre Salerno. Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica, del 28 settembre 2014, ora in G. Di Leo, Atti del Convegno di Pescasseroli e Pescina, Roma, Aracne, 2015, p. 162.

4) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, in Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale, Roma, Astra, 1980, p. 19.

5) N. Bobbio, Gli intellettuali ed il potere, in «Mondoperaio», del novembre 1977, pp. 63-72.

6) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, cit., p. 39.

7) P. Simoncelli, cit., p. 162.

8) Ivi, p. 161.

9) T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966.

10) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, cit., p. 16.

11)  E. Voegelin, Die Neue Wissenschaft der Politik, Monaco, Anton Pustet, 1959, pp. 93-95.