In un suo articolo Luciano del Vecchio, fa notare come la colonizzazione passi anche attraverso l’uso ed abuso dell’inglese (vedi il recente “Job act”, che certo non si giustifica per la mancanza di parole sostitutive dell’italiano); per ragioni che mi sfuggono un nutrito gruppo di commentatori contesta “su basi scientifiche” tale tesi.
Per non rifare il manzoniano dibattito sulla questione della lingua, vediamo di analizzare il problema di fondo che è quello della esportazione dell’ american way of life ai popoli asserviti (neocolonialismo), trasponendo l’esempio sull’abbigliamento.
Quando, nei primi anni ’80 andai negli USA, ebbi modo di notare (oltre ai numerosi poveri che rovistavano nei bidoni della spazzatura) come in Italia anche chi comprava i vestiti al mercato fosse mediamente più elegante e vario degli americani che vestivano casual e in modo uniforme.
Inutile che vi descriva come, visto che qui, adesso tutti vestono con felpe, scarpe “da ginnastica”, t-shirt anche d’inverno e berretti da baseball con visiera (anche i pensionati sulle panchine).
Da noi che le producevamo, ed eravamo famosi nel mondo per questo, non si trovano più scarpe in pelle con la suola di cuoio,( che duravano una vita, erano igieniche e si potevano risuolare) a meno di non farsele fare su misura con mille e più euro.
Idem dicasi per l’abbigliamento “classico” da uomo, giacca, pantaloni gilet che ormai solo i parlamentari si possono permettere; ovviamente gli stessi guasti sono stati prodotti anche nel campo della moda femminile in cui eravamo leader indiscussi, assieme ai francesi.
Concludendo, mi sembra ovvio che dalla colonizzazione abbiamo più perso (e continuiamo a perdere molto velocemente) che guadagnato; e naturalmente chi guadagna sono le multinazionali a spese del nostro tessuto economico industriale, che va disgregandosi con la nostra complicità.
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