Le sciagure d’una nazione, la quale, piena di coraggio e di forze, le rivolge furiosamente contro i suoi figli, e prepara allo straniero la via, consumando miseramente se stessa, saranno sempre alto argomento di dolore, e di pianto a chi sente. E diciamo di dolore, e di pianto, perché in ogni tempo i più s’appagano di gemere, e di tacere sovra infortunii, a cui non possono porre riparo. Ma in tutti i secoli v’hanno delle anime di fuoco, che non possono acquetarsi all’universal corruttela, né starsi paghe d’uno steril silenzio.
Collocate dalla natura ad una immensa altezza comprendono in un’occhiata la situazione, e i bisogni de’ loro simili; straniere a’ vizi de’ loro contemporanei, tanto più vivamente ne sono affette; uno sdegno santo le invade; tormentate da un prepotente desío di far migliori i loro fratelli, mandano una voce possente e severa, come di Profeta, che gridi rampogna alle genti; voce, che il più delle volte vien male accolta da coloro, a’ quali è dirizzata, come da fanciulli la medicina. Ma chi dirà doversi anteporre la lusinga d’un plauso fugace alla riconoscenza più tarda de’ posteri?
A questa sola Dante mirava, e lo esprimeva in quei versi, che non dovrebbero obbliarsi mai da chi scrive
“E s’io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro,
Che questo tempo chiameranno antico”.
Parad., c. XVII
Giuseppe Mazzini