Cupio dissolvi

È l’italiano, ovviamente. In pochi decenni l’italiano, questa complessa costruzione di tre millenni, contraddittoria e feconda, multiforme e geniale, è stata vilipesa, mediocrizzata, evirata, prevaricata da una cultura non sua, stupida e vociferante.
I pochi sopravvissuti, coloro che, intimamente, si sentono ancora italiani, sono avviati, dalla consueta spietatezza dell’assolutismo PolCor, a sempre più ristrette riserve antropologiche.
Tutti sottostimano l’accelerazione di questi tempi.
È davvero sbagliato confrontare le mutazioni storiche del passato con la velocità del presente. È come vivere in un razzo sparato a velocità della luce che annienta ciò che si è stati e divora un futuro inesistente. Solo ciò che accade nel breve attimo che preserva la nostra esistenza ha valore: l’hic et nunc verrebbe da dire, ma liofilizzato, reso meschino, utilizzabile. Il cono di luce della sapienza si restringe sempre più; la memoria del pesce rosso, evocata satiricamente per significare la cio che è dimenticanza dell’uomo postmoderno, un deraciné, soprattutto, slargato da affetti di sangue, da ciò che fu la sua civiltà e felice d’essere gettato nel circo godereccio dell’indifferenza, non è più una metafora. È realtà.
Viviamo la rivoluzione digitale e tecnica inarrestabile. Non vi è progressione, solo uno scarto epocale. Un cambiamento di stato effettivo, dallo stato liquido a quello aereo. Dopo decenni di bollitura edonista l’italia e gli italiani sono pronti all’evaporazione totale.
Cos’è, in fondo, questo decantato postmoderno? Sostanzialmente nulla. Tolti i brevi attimi di godimento l’uomo nuovo si aggira in un inferno senza confini e limiti. Ogni istituzione e fondamento, vilipeso e dileggiato nei decenni, è scomparso con uno sbuffo di fumo. Grandi feste, ovviamente. Finalmente non abbiamo più oppressori! Chiesa, patriarcato, morale, giustizia … disciolto in un acido tiepido che fa friccicare la pelle. Comprendere che tali istituzioni, anche le più apparentemente folli, sono nate per preservare un popolo dal proprio annientamento è evidentemente troppo difficile oramai.
Ovviamente l’uomo nuovo è infelice. Crede di essere felice poiché scambia qualche piacevole gadget per felicità. In realtà, inconsciamente, ricerca ciò che egli stesso ha liquidato. Lo intravede con l’istinto di quel residuo sangue che ancora gli indica la retta via. Lo brama, senza saperlo, ma quella visione è dietro un vetro ingannevole … ed egli continua a battere contro quel vetro come una mosca impazzita. Poi, quando la sua anima è sfinita, ed egli è preda della disperazione, si rigetta nel consueto ciclo dell’eterno presente: chat, commenti digitali, incontri estemporanei, chiacchiere, pop corn e altri memorabilia del nulla.
Forse dovrei dichiararmi fortunato per aver avuto l’onore di assistere a un tale spettacolo, immane e ripugnate assieme; i nostri tempi, e che tempi!, sono un loggione privilegiato per assistere, fra cupio dissolvi e disgusto, alla svaporazione dell’Italia, l’Italia!, e del suo mirabile passato.
Siamo come quel personaggio dell’Orlando Furioso che ancora fa la voce grossa ma è già morto. La cultura, intesa come retaggio e tutela di ciò che fu l’Italia nei tre millenni addietro, si sta smaterializzando sotto i nostri occhi e le nostre mani, giorno dopo giorno.
Ci si culla nell’illusione. Alberto Angela licenzia grandiosi documentari sul Colosseo, le strade romane, il Rinascimento. Ma sono documentari da presa in giro, come certi resoconti della BBC che mostrano il rinoceronte, la tigre, l’elefante. In un mondo che vede la prossima dipartita della tigre, del rinoceronte, dell’elefante. Presto si arriverà alla celebrazione della tigre in assenza di tigre, o a una fastosa celebrazione del Colosseo in assenza di Colosseo. Sono reperti funebri, necrologi.
L’Italia sta sparendo, come l’Italiano e gli Italiani.
Tornare indietro? Come potremmo?
Tra l’altro non vi sono segnali di ravvedimento, pur minimi. Anzi, si avverte, in alcuni traditori, uno spasimo di gioia nell’accorgersi di queste lente sparizioni.
Chiese, ponti, edifici patrizi, affreschi, dimore storiche, l’intera letteratura … tutto questo non è contemplato dall’uomo nuovo italiano, l’imbecille del clic.
Vi è una cesura netta, un taglio immedicabile. Da un certo punto di vista rimpiango l’aristocrazia e il clero che, nella loro iattanza, riuscivano almeno a preservare il tesoro della tradizione.
Tornare indietro? Anche gli schiavi negri in America volevano tornare indietro. Se non nella loro terra, almeno alle loro radici. Il blues delle origini rappresenta tale aspirazione titanica. Riprodurre, in terra ostile, gli strumenti e i timbri originali dell’Africa; spesso improvvisandoli, questi nuovi strumenti. Fu uno sforzo che non andò a buon fine. Intere culture annientate … Aztechi, nativi americani, africani … stavolta tocca a noi, perché non potrebbe essere? Un momento, qualcuno obietterà, indios, pellirossa e africani, ci sono ancora. Certo, dico io, ma sono derivazioni genetiche, non culturali. Un Navajo che gestisce un casinò o un aborigeno australiano costretto a mendicare nelle periferie cosa sono?
L’italiano è ancora italiano? E, soprattutto, che lingua parla? Quale rapporto intrattiene col proprio vocabolario? Esso lo controlla? Qui c’è poco da fare: meno parole si conoscono, meno realtà si comprende. Solo così si capisce la strenua lotta del potere attuale contro le facoltà umanistiche: italiano, greco, latino, storia, filosofia, storia dell’arte. C’è una comunanza? Certo, qui si impara a capire cosa c’è dietro, a dissezionare le intenzioni, a ricollegare il passato al presente, a forgiare il buon gusto. Ovvio che tutto questo deve essere emarginato. L’umanista deve essere ridotto nell’immaginario collettivo a una figura farsesca, obsoleta, da scherno. Ci servono medici, ingegneri, tecnici! cianciano i traditori. Benissimo, sono d’accordo, ma questa è la base da cui partire. Gli architetti col retroterra classico sono Nervi e Piacentini (mi limito, per carità di patria, al Novecento). I supertecnici sono Meyer e Fuksas. Guardate cosa hanno eretto questi ultimi due teppisti a Roma e confrontatelo con le opere dell’Eur 1942. Esercitate la professione indolente del flâneur e scoprirete cosa significa essere italiani. Nervi era un italiano, Fuksas no. Basta andare all’Eur … i prodotti di due epoche sono uno accanto all’altro. Il prodotto dell’architettura italiana, pur spinto nel futuro, e il prodotto del nichilismo contemporaneo.
Devastare i nostri licei è un operazione di potere purissimo.
Dissolvere il passato significa fare a meno di quella camera di decantazione naturale che ci fa accettare il bello e rigettare il brutto, quasi istintivamente. Se un italiano non ha più in sé tali anticorpi egli accetterà tutto: il brutto, l’ingiusto, il male.
Senza le ataviche coordinate culturali si è allo sbando. Si scambia un’isola per il dorso d’un mostro.
Cos’è la lingua italiana, in fondo? La differenza tra comprendere e subire, non altro. Abolire la ricchezza del nostro vocabolario, le nuances di una parola, gli incastri delle subordinate, barattandole con un discorso piatto e funzionale equivale a rendersi schiavi.
Meno parole meno libertà.
Meno rigore nell’ortografia, meno ricchezza nella punteggiatura equivale a meno libertà.
Sopprimere un frasario tutto nostro con un pidgin internazionale composto da frasi fatte, rapide, funzionali, in cui abbondano abbreviazioni tecniche, grossolanità da quotidiano digitale, equivale a divenire servi.
Persino in questo momento io sto tradendo l’Italiano.
Perché sto scrivendo con un iPad. Scrivere con un iPad porta inevitabilmente  alla neolingua da Orwell, alla distruzione dell’italiano. Il blocco note della Apple contempla a fatica gli accenti gravi e acuti delle vocali, le elisioni, le dieresi; anche i due punti e il punto e virgola sono faticosi da digitare. La tastiera ordita dal siriano Jobs, alla lunga, reca surrettiziamente la banalizzazione; una prosa scipita, piatta, inosservante delle fastidiose regole della scrittura.
E questo perché la lingua dei conquistatori è quella che viene imposta.
La neolingua tecnica angloamericana dei PC e degli smartphone conforma strutturalmente a sé stessa qualunque ricchezza della cultura locale. Dopo l’espressività dei dialetti, si sta perdendo ineluttabilmente anche la forma dello scrivere italiano, le regole basiche, l’arcobaleno della dialettica, la musicalità del testo di cui la punteggiatura costituisce la regola così come diesis e bemolle costituiscono l’ortografia d’uno spartito.

NOTA: Sottolineature, corsivi, grassetti sono miei e vi invito a leggere la versione integrale al link qui riportato

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Generazione perduta

E non basta. Non solo facciamo sempre meno figli; quei pochi, sono disoccupati. La disoccupazione giovanile   in Italia tocca il 40%.  Gente che non lavora, non produce; gente che non paga  tasse né contributi,  anzi campa a  carico della famiglia, spesso della pensione del nonno;  una gioventù  invecchiata senza impegno, che  sta perdendo quelle poche competenze che ha imparato a scuola, che non ne acquista di nuove nel posto di lavoro che non ha, né troverà..

Si (stra)parla di “generazione perduta”,  e d è vero – ma senza che i  governi (e la burocrazia avida e parassitaria e incompetente) abbiano mosso un dito per risolvere un così disperato problema, un così angoscioso spreco di risorse umane, e il pericolo sociale, morale, di una generazione di senza futuro che non ha davanti se non il degrado e una piccola criminalità –   tipicamente lo spaccio.

http://www.maurizioblondet.it/parlamento-lo-sa-cosa-manca-ai-nostri-giovani/

A chi ve lo diceva, non avete creduto. Adesso i salari   per i giovani – i pochi giovani che hanno lavoro – tendono a scendere verso le paghe dei        minjob tedeschi: 480 euro  al mese. Oppure occupazione   coi voucher, un mese sì e due no. Perché di quei (pochi) vostri figli che lavorano, il 30% sono pure precari. Senza contare il 33 per cento delle donne che non   portano alcun reddito, “stanno a casa”

http://www.lulu.com/shop/andrea-malaguti/generazioni-in-perdita/ebook/product-14615845.html

La caduta delle trentenni

Ci troviamo così ad essere uno dei paesi avanzati in cui si arriva più tardi alla decisione di avere un figlio ma anche, come ben noto, uno di quelli più carenti di strumenti per la conciliazione tra lavoro e famiglia. La conseguenza di tutto questo è che più facilmente ci si trova a rinunciare ad avere figli o a limitarsi ad un figlio solo.

Fino a qualche anno fa, tuttavia, la consistenza numerica delle trentenni era ampia e questo ha limitato la caduta del numero delle nascite nel Paese. Stiamo però ora entrando in una nuova fase, in cui le potenziali madri sono esse stesse in riduzione perché provengono dalle generazioni nate dopo il 1985, quando la fecondità italiana è precipitata ai livelli tra i più bassi al mondo. Più precisamente la fascia 30-34 anni, che contava oltre 2 milioni e 300 mila donne nel 2000, è scesa oggi sotto 1 milione e 800 mila. Di fatto significa una perdita di oltre una donna su cinque. Viceversa è cresciuto il numero di donne nella fase conclusiva del periodo fertile.

figura 1

Si tratta di un processo anticipato da vari studi e ricerche ma che ora risulta pienamente in atto, mostrando anche come l’immigrazione non sia riuscita a compensarlo se non in parte limitata.

L’Italia sta quindi scivolando in una spirale demografica negativa in cui i pochi figli del passato determinano una progressiva riduzione delle madri, vincolando così al ribasso le nascite di oggi e di domani.

Alessandro Rosina in http://www.neodemos.info/la-caduta-delle-trentenni-che-inguaia-la-demografia-italiana/

Questo paese

di Roberto Pecchioli

A primavera, tornano le rondini e torna la pubblicazione annuale dell’Istat , intitolata ottimisticamente “100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo”. Ottimisticamente, perché i dati raccolti dall’istituto non sembrano interessare nessuno, a parte il primo giorno , con gli articoli dei quotidiani ed  i servizi delle televisioni generaliste . Soprattutto, non destano un dibattito culturale vero, né tantomeno, vengono analizzati da chi dirige il Paese. Lo chiamiamo così’ anche noi, oggi, poiché Patria è troppo impegnativo .

La fotografia dell’Istat è impietosa: diminuiscono le nascite, meno di mezzo milione nel 2015, ed è il dato più basso dall’unità nazionale, 155 anni fa: 1,37 figli per donna in età fertile ( solo l’indice tedesco è più basso) e ci vuole una media di 2,1 per garantire il ricambio generazionale. Ci si sposa pochissimo, solo 3, 2 matrimoni ogni mille abitanti. I giovani sono ampiamente superati , in numero, dagli anziani , 100 contro 157, ed è un dato impressionante. Si campa abbastanza a lungo, 80 anni gli uomini, 85 le donne, ma c’è una certa diminuzione della speranza di vita rispetto agli anni scorsi. Gli stranieri, che contribuiscono alle nascite con percentuali ormai a due cifre quasi dappertutto, sono cinque milioni, tanti quasi i disoccupati. Il loro numero è aumentato anche nel 2015, pur se l’aumento è il più contenuto da molti anni ( 55.000).

Un dato raccapricciante è costituito dal numero- 2,3 milioni- e dalla percentuale (25,7 %) dei giovani che non studiano e non lavorano, oggi classificati con l’acronimo NEET  ( non impegnati nel lavoro, nello studio e che non ricevono formazione) .  Una generazione perduta, afferma pensoso Mario Draghi, che, essendo banchiere, farebbe meglio a chiedersi quali siano le responsabilità della classe dirigente di cui egli è simbolo, che precarizza, flessibilizza, non fa credito, e fornisce un’istruzione da terzo mondo, con l’inflazione delle lauree brevi  e dell’ignoranza lunga. Non a caso, si leggono  pochissimi quotidiani ed ancor meno libri che non siano , così spesso, i cosiddetti “libroidi” scritti, o almeno firmati, dai personaggi dello sport o dello spettacolo.

In compenso si divorzia molto, 8,6 divorzi ogni diecimila abitanti e si è vittime di tanti furti e rapine che spesso non si fa neppure più denuncia. Il Prodotto Interno Lordo pro capite segnala un divario Nord Sud che aumenta e che si avvicina al 50%.

Questa è la fotografia, e del resto un istituto di statistica ha l’unica funzione di fornire dati, cifre, percentuali. Per valutare , progettare rimedi, imprimere svolte, dovrebbero scendere in campo altri. E questo è, purtroppo, il punto. Il livello delle nostre classi dirigenti è sotto gli occhi di chi riesce ancora a vedere, non solo guardare: i ministri sono in lotta tra loro, ciascuno rappresenta una lobby o un comitato d’affari, nessuno ha la sguardo rivolto al futuro, o possiede un’ idea di bene comune.

L’ultima che ha dovuto dimettersi, la dottoressa Guidi, titolare dello Sviluppo Economico, ceto dirigente dalla nascita, in quanto figlia dei titolari dell’industria Ducati, la quale, tanto per contribuire alla ricchezza nazionale, è una di quelle che ha delocalizzato produzioni in Romania. La bella signora avrebbe fornito informazioni d’ufficio riservate al suo “compagno”, un imprenditore di quelli che alcuni anni fa vennero definiti “furbetti del quartierino”. Messa alle strette, ha affermato che costui è “solo” il padre di suo figlio. C’è tutta l’Italia di oggi, nella signora ministra ( si deve dire così….) . Brigano sin dall’adolescenza per incarichi dirigenziali , si laureano magna cum laude con l’aiutino, vivono nell’arroganza, la loro vita sentimentale è variabile come il tempo d’aprile, e poi, quello è solo il padre di mio figlio……..

Un maestro della mia generazione politica, Beppe Niccolai, ci ammoniva a non guardare alla realtà con le categorie della sociologia, ma con quelle della storia e della filosofia.  Invece, la lezione vincente resta quella di Max Weber, grande sociologo inventore dell’avalutatività come criterio di quella conoscenza , oltreché teorico del “politeismo dei valori” nelle società moderne.

E sia, la sociologia, che si serve della statistica, ha il diritto di essere imparziale, secondo la prescrizione weberiana, e di classificare con cura tassonomica i dati, scomporli e ricomporli secondo modelli matematici stabiliti. Ma la scienza politica no, deve conoscere, ragionare, giudicare, progettare, organizzare. Soprattutto, deve fornire, con l’aiuto della storia , della filosofia e del comune buon senso, un giudizio di valore, a partire dal quale realizzare i correttivi per cambiare rotta. Aveva ragione Massimo Fini a definire questo tempo e le generazioni al comando come un treno che corre senza un macchinista ( c’è il mercato…) su di un binario che si interromperà, prima o poi.

A me viene in mente la celebre scena finale di “Thelma e Louise”, quando le due donne lanciano l’automobile a gran velocità e, consapevolmente , precipitano se stesse nel burrone, dopo l’avventura “on the road” con cui hanno creduto di dare un senso alle loro vite.

Corriamo ridendo verso precipizi, ma nessuno si chiede se sia un bene o un male che non nascono bambini, che i matrimoni non si celebrino o durino pochissimo, che i giovani non lavorino né studino, se gli stranieri siano qui per motivi economici o per distruggere progressivamente , insieme con il mercato del lavoro, il tessuto comunitario delle nostre regioni.  Non ci chiediamo più neppure perché si abortisca, o perché si viva un po’ meno a lungo, o perché la criminalità faccia così paura. Celebriamo ogni giorno, senza saperlo un pezzetto del nostro stesso funerale, intanto abbiamo rimosso la morte e siamo indifferenti al futuro. Se non ho figli, che mi importa del dopo ? Fulminante fu la battuta di Woody Allen , ebreo, americano, progressista, cittadino della Grande Mela, dunque interprete perfetto della cosmopoli odierna: “Perché mi devo preoccupare dei posteri ? Che cosa hanno fatto i posteri per me ? “

Comunque, pretendiamo diritti, e se conviviamo, respingiamo i doveri del matrimonio, ma rivendichiamo la reversibilità, diritti di successione ed assegni familiari. A questo si riducono, infine, le unioni civili.  I figli sono un ingombro, vanno accuditi, mantenuti, persino educati , ah no , a quello pensi lo Stato, con le tasse che paghiamo ! I vecchi sono troppi, apriamo ospizi e, soprattutto, chiamiamo eutanasia (buona morte) il diritto di toglierceli dai piedi da malati.  Poi magari spargeremo in mare le ceneri, o le terremo sul comodino in un’urna, così il funerale costerà meno e non pagheremo sepolture.

Tante cose ci dicono, a volerle ascoltare, le nude cifre dell’Istat . Ugo Foscolo ci aveva avvertito che la civiltà nacque “dal dì che nozze e tribunali ed are /dier alle umane belve esser pietose / di sé stesse e d’altrui”. Le nozze non si celebrano più, solo unioni effimere , per dividere le spese, andare in vacanza ed avere comodità nei rapporti intimi, dei tribunali non ci si fida, con molte buone ragioni, e non si denunciano più furti, rapine, malversazioni , soprattutto non si percepiscono neppure più come ingiustizia, inciviltà o degrado le mille condotte negative di ogni genere di cui siamo testimoni .  Quanto agli altari, aboliti in nome della ragione umana che tutto può, tutt’al più derubricati ad agenzia assistenziale .

Torniamo alla denatalità ed alla crisi drammatica dell’unione matrimoniale. Ascoltiamo distratti dati pesantissimi, e subito passiamo oltre, ci inseguono altre notizie, altre “ultima ora”. Il problema è che uguale comportamento hanno i governi e le élite culturali. L’Istat  dice bene , nel suo titolo “il paese in cui viviamo”. Niente di più: è un paese, un luogo qualsiasi, non la nostra casa , la nostra terra, la nostra civiltà. Ci viviamo e basta, trasciniamo le nostre vite qui , ma se fossimo a Oslo, Timbuctù o Giacarta sarebbe lo stesso. Uno è il mondo, questo paese ( lo chiamano proprio così, nelle loro pensose intemerate, quelli “de sinistra” ,questo paese) è solo uno dei tanti: ci viviamo, ma solo per caso o per necessità, domani magari saremo a Los Angeles, beninteso dopo una vacanza a Sharm elSheyk, terroristi permettendo.

Come possiamo integrare , o almeno accogliere con la nostra dignità gli stranieri, se non vogliamo offrire un valore che ci distingua, un principio morale qualsiasi, un modello di vita che non sia quello di mangiare, bere e farsi i fatti propri ? Non ci chiediamo se sia bene o male che non nascano più figli di “questo Paese”, oggi è così, domani chissà, ci penserà qualcun altro.

Se la gente non si sposa e non vuole eredi, non è solo perché la vita non è semplice: nel passato le cose andavano assai peggio, certamente leggi a favore della famiglia aiuterebbero molto, ma ciò che l’Istat non può fotografare, e la sociologia non sa indagare è che un immenso sistema di potere, la cui catena di comando è nelle solite mani sporche di finanzieri, azionisti di multinazionali e persuasori al loro servizio, è sfavorevole alla vita, alla famiglia, all’amore di sé, della Patria, delle proprie tradizioni e cose.

Dobbiamo quindi ritornare senza paura a dare giudizi, ad additare colpevoli, a indicare soluzioni. E’ un male l’agonia dell’Italia, è un male terribile che si disfino le famiglie, e si ricompongano a caso, per poco tempo. E’ un male considerare l’aborto un diritto: semmai è una triste necessità in casi particolari e definiti, è un male l’orrore invincibile del nostro tempo per la sofferenza , da nascondere in appositi lazzaretti ed interrompere a richiesta, con domanda online, previa acquisizione del pin per comunicare con l’ufficio competente.

E’ una terribile perdita allontanare da sé l’esperienza concreta della morte : conosco persone che non hanno neppure il coraggio di andare all’obitorio per visitare un parente od un amico morto.Proprio Massimo Fini , che pure si dichiara ateo, ha pronunciato parole semplici e concretissime, al riguardo :  morire è facile, prima o poi ci riescono tutti.  Ed è una carenza di sentimento, dunque di vita, rinunciare volontariamente all’esperienza della paternità e della maternità, che adesso chiamano, con un neologismo orribile e burocratico, “genitorialità”.

Ma un potere possente ed immenso come forse mai nella storia ( ecco un altro giudizio di valore ) ci vuole così. Hanno allentato la catena di trasmissione: quella tra le generazioni, quella della civiltà, della cultura, dell’amore di sé. A spezzarla definitivamente , però, ci abbiamo pensato noi , come provano le cento statistiche diramate dall’ISTAT. Spettatori annoiati, obbligati a porre sempre più in alto l’asticella delle emozioni di un attimo, senza padri, nubili, celibi, di stato libero, membri provvisori e rigorosamente part –time di legami  arcobaleno , indifferenti all’idea stessa di un Dio qualunque, senza figli, tanto al mondo alcuni miliardi di soldatini premono per essere i nostri successori a basso costo, imbottiti di medicinali e di ritrovati spesso inutili perché occorre essere, anche dopo gli ottanta , più sani e più belli. Altrimenti, non vale la pena vivere, e tutto si può risolvere con una punturina asettica, tra i camici bianchi edi sorrisi artefatti dei psicologi di sostegno. Goethe, morendo, sembra abbia detto “Più luce” .

Noi, lo certifica l’Istat nell’indifferenza dei superiori , indaffarati a fare denaro, cambiare partner che, magari, saranno solo genitori del figlio in comune , desideriamo evidentemente spegnerla la luce di questa Patria rugosa, vizza e cialtrona . Abbiamo voluto , ci hanno dato, la libertà di vivere a nostro gusto, spezzare una catena .

Ma l’animo nobile aspira ad un ordine e ad una legge. Il resto è plebe: “questo paese”.

Roberto Pecchioli

L’articolo L’Italia dell’ISTAT. Si è spezzata la catena di trasmissione. è tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.

Vetrina Italia

Chi ha voluto questa etichetta di Patrimonio dell’Umanità?

Ma i produttori di Barolo, che domande!, quelli che se ne fottono beatamente della cultura, della storia, della letteratura e dei buonismi vari che dovrebbero restituire un’immagine del premiato paesaggio vitivinicolo Langhe-Roero e Monferrato, variegata alla granella di nocciola, accompagnata da vino chinato e dalla lettura di storie di ordinaria imperialità romana e di Resistenza contro i krukki.

Altro che krukki, qui si tratta di Kulaki straricchi che cedono porzioni sempre più vaste del territorio ai miliardari Russi, Cinesi, Angloamericani, Sauditi che sono in grado di acquistare, senza problemi di liquidità, un ettaro di vigna a Barolo spendendo fino a 2 milioni di euro e oltre, facendo elevare i prezzi del vino a dismisura, tanto che a New York, nella brillante Manhattan di Woody Allen, una bottiglia gustata dai luculliani neosuperagiati, può costare fino a 800 dollari! (un’inezia rispetto a un Richbourg  imbottigliato da Henri Jayer nella Côte-d’Or della Borgogna francese che si aggira sui 14000 euro la bottiglia… ma si punta a quelle vette).

E che dire del ritorno in occupazione?

Caporalato in mano ai mercanti di schiavi e permessi di soggiorno lavorativi dell’Est Europa!
Tra le vigne, in questi ultimi giorni di vendemmia, senti parlare in tutte le lingue degli sfruttati, tranne che in italiano.
Mi dice un coltivatore di dolcetto: “Finirà che i padroni saranno loro, (si riferisce a slavi, bulgari, albanesi) che il dolcetto sparirà dai vini venduti all’estero, tutto per i soldi, tutto per l’avidità. I nostri figli non vogliono fare i vignaioli, non vogliono saperne di spezzarsi la schiena, sono trentanni che abbiamo deciso un po’ tutti che conveniva vendere agli stranieri (si riferisce ai paperoni) piuttosto che continuare le tradizioni di famiglia.”

Ma per vendere bene agli stranieri, occorreva entrare nella lista dei paesi baciati dalla Dea Unesco.

Leggi tutto su http://pauperclass.myblog.it/2015/09/24/lunesco-comanda-il-barolo-servito-il-poliscriba/

 

 

I due barbieri

Una bella descrizione dell’Italia d’oggi di “Alceste” in

http://pauperclass.myblog.it/2015/04/14/storia-due-barbieri-alceste/

che riporto integralmente:

Il mio barbiere di fiducia chiude i battenti.
Un vecchio immigrato siciliano a Roma, fine anni Sessanta.
Negli ultimi anni s’era un po’ intristito.
Ogni volta che entravo nella bottega (dieci-quindici metri quadri) vedevo sul tavolinetto plichi rigonfi e candidi, con caratteri regolari stampigliati sopra. Giacevano lì, uno sopra l’altro, squarciati con modesta regolarità. Non c’era bisogno di leggervi intestazioni o contenuti; già sapevo di cosa si trattava. Anche a distanza quelle missive trasudano la copiosa e burocratica ferocia nichilista propria degli apparati statali o parastatali quando si rapportano all’utente o al cittadino, il loro servo della gleba.
Quasi parallelamente i nostri brevi dialoghi avevano mutato indirizzo e tono; dal calcio e dai pettegolezzi s’erano spostati prime a vaghe considerazioni politiche (genere: va tutto a rotoli), quindi a tematiche da commercialisti.
Ogni bimestre aveva la sua pena. Rimborsi, Inps, Irpef, AMA, intimazioni di chiarimenti, richieste di dichiarazioni. Ogni tanto, nella concitazione, fermava pettine e forbici per inseguire un pensiero, poi ricominciava, quindi, preso da un’ispirazione incontrollabile, abbandonava i ferri per prendere i faldoni burocratici e squadernarmeli davanti. Come a dire :”Non ci credi? Ecco qua!” e aggiungere, di soppiatto: “Vedi un po’ cosa si può fare!”.
E io leggevo, ma, mi tocca ammetterlo, non capivo nulla. E non è un modo di dire: non capivo assolutamente nulla di quel gliuommero di citazioni e rimandi da leguleio psicopatico. Nonostante mi picchi di vantare un’intelligenza dei testi superiore alla media, a fronte a quell’intrico di “ex art” o “in seguito all’avvenuta approvazione …” mi sentivo sfiorare, per usare un’espressione di Baudelaire, dall’ala dell’imbecillità.
Di fronte a quel siciliano antico gettare la spugna era però difficile senza gettar via anche un po’ d’onore. Quindi, spesso, tergiversavo, cambiavo discorso, o rimandavo al giudizio degli organismi competenti – quegli organismi, insomma, che, essendo competenti, avrebbero tagliato il nodo di Gordio dell’incomprensibilità.
E mentre mettevo in atto questa tattica dilatoria (facevo ammuina, insomma) mi veniva in mente un periodo della mia vita in cui avevo persino cercato di capire. Le procedure Equitalia, ad esempio; mi ero persino provveduto di un bel volume delle edizioni Simone: ero insomma deciso a fare chiarezza in quell’intrico di norme prassi e iter della burocrazia italiota; un tempo felice, in fondo: corrispondeva a un certo ingenuo illuminismo del mio animo teso ancora a credere in una buonafede delle istituzioni – buonafede macchiata (peccato!) solo dal consueto gergo fantozzian-impiegatizio … solo col tempo capii che l’essenza di quei mandala esattoriali risiedeva nella totale incomprensibilità … ovviamente dolosa … e passai dall’illuminismo a una sorta di odio permanente verso ogni formalismo … (a puro titolo di cronaca: il volume della De Simone lo mollai a pagina 60).
Ma ritorniamo al nostro barbiere.
Un anno prima ricevette un colpo ferale: i finanzieri intercettarono un suo cliente privo della ricevuta fiscale. 500 euro di multa. I due (barbiere e cliente) spergiurarono che la ricevuta c’era (in effetti c’era, sul tavolo succitato) e che era stata una svista, una dimenticanza, mica evasione. La coppia di gendarmi replicò, non senza ragione, che quella ricevuta poteva stare lì dalla mattina per giustificare anche dieci, venti, trenta clienti senza ricevuta in una ripetizione da inganno seriale. E comunque avevano poca voglia di parlare e questionare (i gendarmi); e furono irremovibili. 500 euro.
L’episodio mi sorprese particolarmente. Per la tenacia dei finanzieri, e l’incredibile dedizione alla causa. Solo dei servitori della nazione insolitamente ligi alle regole della sedicente repubblica italiana potevano appostarsi in una via secondaria di una frazione d’un quartiere secondario sito al limitare del suburbio di una città di più di tre milioni di abitanti. Chapeau! E così sia.
Un paio di mesi fa, però, egli dovette arrendersi; senza condizioni. Erano arrivati gli studi di settore. Ballavano migliaia di euro. Una chiamata dal commercialista. Un paio di rapidi conti: affitto, fornitura elettrica e del metano, versamenti in anticipo et cetera. Accorto soppesare spese-guadagni … infine il rovello fu sciolto: si chiude.
Una resa lungamente attesa, come può attenderla un malato terminale a cui abbiano tolto illusioni e speranze e che abbia deciso, con atto di supremo stoicismo, di mettersi il cuore in pace e rassegnarsi al Fato. “Non lo sapevi? Chiudo … dopo quarantaquattro anni … il lavoro mi piace anche se si guadagna poco … tolte le spese ci prendevo i soldi per le bollette e il condominio … però così, non mi conviene proprio … in fondo la vita mia l’ho fatta … “.
Gli comunicai il mio dispiacere. Lui sorrise e attaccò una tirata sugli immigrati che non pagano tasse: “Tre, quattro, cinque anni … poi non li trovi più e … riaprono con altro nome … di cugini figli padri cognati … vanno avanti per anni … tornano da dove sono venuti belli ricchi e ti saluto e sono …”. Una tirata comune fra i negozianti romani. Ma fu una tirata breve … al mezzo si interruppe ridendo di quel rancore represso … la prendeva alla leggera, come se quell’odio, covato per anni, si liberasse con calore di fiamma lontana … ma sì aveva passato i settanta, era acciaccato, poteva starsene otto al giorno in piedi per raccattare cinquecento seicento euro puliti al mese? “Ah, com’è dolce la rassegnazione quando possiamo permettercela!” sembrava dire … ma in fondo voleva anche inveire contro di noi, più giovani: “La mia vita l’ho fatta … che devo dirvi? Affari vostri!”.
E mentre mi tagliava i capelli per l’ultima volta si lanciò in una dissertazione sul perché gli uomini d’oggi sono tutti pelati. “Ma non hai visto i film degli anni Settanta? Quelli di polizia e banditi … con Franco Nero e quell’altro attore biondo … chi era?”. “Maurizio Merli?”. “Eh sì, mi sembra … non hai visto quanti peli hanno … capelli lunghi barbe baffi peli sul petto sulle spalle sulle cosce … quelli erano davvero uomini … tanti peli tanti tagli tanti soldi … bei tempi, no? Adesso … girano tutti pelati … tutti pelati …”.

* * * * *

E così mi son messo a cercare un altro barbiere. E l’ho trovato. Si chiama Jameel. Lo deduco da un foglio incorniciato che lo qualifica, a forza di timbri azzurrini, quale acconciatore.
Il negozio, anonimo, sta a piazza Giureconsulti, Boccea, Roma, Italia.
Tutta la zona è stata riconvertita quasi completamente in esercizi di immigrati romeni, nordafricani, bengalesi, cinesi, filippini. Resistono ancora, in qualche caso, le vecchie insegne dei negozi italiani dismessi: “Alimentari”, oppure, addirittura commovente, “Salsamenteria”.
Il barbiere Jameel ha una bottega spartana, a dir poco. Tre sedie, qualche attrezzo del mestiere, un po’ di sedie per l’attesa. Il ritmo è veloce. Una catena di montaggio. Fatico a capire chi siano i dipendenti. Quattro o cinque persone si alternano al taglio. I convenevoli sono al minimo. Si bada al sodo. Nessuno parla italiano. Non sono previsti lavaggi o frizioni. Vengo subito munito di un collare di carta, per evitare che i capelli tagliati entrino nel colletto della camicia, e d’un lenzuoletto, sempre di carta, che mi avvolge per intero. Jameel, o chi per lui, inizia a scalparmi senza attendere il becco d’un indicazione. Gli dico solo: “Corti!”, ma non sembra darsene cura. Lavora di pettine e tagliacapelli con velocità, poi passa alle forbici, con più accortezza. Cinque minuti e il taglio è bello che fatto. Rifinisce le basette, lavora di rasoio sui pelucchi del collo e via. Otto euro, tre in meno del siciliano. Gli ammollo l’ammontare esatto. Incassa, passa i soldi a un suo collega poco indietro, che intasca in silenzio. Anche Jameel ha una ricevuta già compilata sul tavolo; forse vuole prenderla, forse no; gli faccio capire che non fa niente, che va bene lo stesso, e lui si rilassa impercettibilmente.
Intanto l’atmosfera all’interno della barberia s’è ulteriormente animata. Un tizio ha steso un tappetino e s’è messo a pregare obliquamente, vicino alla cassa, con estrema naturalezza.
Qualcuno ha acceso una televisione enorme, ultimo modello, che, prima, quand’era spenta, non avevo nemmeno notato. È sintonizzata su Bollywood Channel … trasmette una sorta di telenovela indiana. Mi fermo a guardare un poco. Gli attori più giovani sono vestiti all’occidentale, sia gli uomini che le donne. Mi sembrano molto in salute, belli, scattanti. Una ragazza dai lineamenti orientali, ma biondissima, attira subito l’occhio. I protagonisti più anziani sono, invece, vestiti in modo tradizionale: fanno la parte dei burberi preoccupati per le mattane dei figli. Le scene si susseguono rapide: si passa continuamente da interni a esterni; il tutto è ben ritmato e girato in modo impeccabile; dai dettagli si intuisce una certa opulenza della produzione.
I sottotitoli in arabo e inglese lasciano presagire una distribuzione più ampia del continente indiano: Africa, Medio Oriente, ex colonie britanniche, Hong Kong.
Nonostante non capisca una mezza parola son quasi affascinato: s’intuisce un respiro commerciale enorme, che coinvolge miliardi di persone. Anche nei film cinesi, sotto la pelle del drago insomma, possiamo percepire questo anelito irresistibile all’ascesa, all’espansione.
In una pellicola che ammiravo pochi giorni fa, ad esempio. Una fra le tante: Fulltime killer, di Johnnie To e Wai Ka-fai (un film del 2001). A parte la bravura degli interpreti (tutti: primi attori e comprimari), la forza delle scene d’azione e la semplicità con cui tutti i sentimenti vengono resi, salta all’occhio, da subito, che il film è parte di un universo amplissimo e in movimento: dialoghi in cinese (cinese mandarino e cantonese), in giapponese e in inglese; accenni a realtà indiane o mediorientali.
Un intero mondo in marcia, di quattro miliardi di persone, pronto ad allagare l’Occidente. Vivo, dinamico, sicuro di sé, ricco di potenzialità e prospettive, persino tumultuoso; e soprattutto vitale, vitalissimo, di quella vitalità che schianterà l’Italia come un vecchio mobile tarlato.
Un mobile certo pregiato, di taglio patrizio, apparentemente solido, ma ormai attraversato dai mille cunicoli dei tarli della stupidità e del malaffare … lo sento, basterà un calcio ben assestato e crollerà miseramente a terra con uno sbuffo di polvere …
Questa nostra nazione … come definirla? Zombificata? Burocratizzata? Dissanguata?
Una salma in attesa della tumulazione.
Ex Oriente lux … certo, la luce, ma anche la distruzione … tutte le infezioni più micidiali, come la peste, vennero da oriente … anche le epidemie che schiantarono i popoli nativi del Sudamerica (vaiolo, influenza, morbillo) vennero da oriente … dall’Europa, che, di fatto, l’Oriente del Sudamerica …
In fondo ce lo meritiamo d’essere spazzati via, con la nostra sicumera, la supponenza d’essere il centro del mondo, la celebrazione necrofila d’un passato che non è più presente.
Povero siciliano mio, microscopica vittima della globalizzazione!
Esco dalla barberia nordafricana che è quasi sera. Ritrovo la solita metropoli lercia, sgangherata, infetta. Dai muri i manifesti del nuovo film del nostro intellettuale di punta: Mia madre. Già lo immagino: la consueta tirata crepuscolare da tinello borghese medio-alto. I critici in estasi, le comparsate, gli articoli compiacenti, roba da sfinire un toro …
Ah, povera Italia mia, come sei ridotta … coi tuoi riti immutabili, la tua piccineria, la pervicacia della tua stupidità.
Intanto i venti della storia rinforzano, il mondo ruota veloce … gira su cardini invisibili, implacabile, soverchiante.

 

Diminuiscono matrimoni, divorzi e nascite, ma crescono le unioni libere

Le ridotte possibilità di contare su un reddito sicuro, di acquisire autonomia abitativa e di accumulare ricchezza rallentano il passaggio alla vita adulta, la formazione di nuove famiglie e la realizzazione dei progetti riproduttivi. E questo è particolarmente grave per l’Italia, dove la percentuale di giovani che ancora vivono nella famiglia di origine, pur se non aumentata rispetto agli anni pre-crisi, è molto elevata in confronto ad altri paesi europei. Prosegue, infatti, e si aggrava negli anni della crisi, il calo dei matrimoni, passati dai 247mila del 2008 ai 207mila nel 2012. Va segnalato, però, un timido aumento delle convivenze pre-matrimoniali (Pirani e Vignoli, 2014) che, non implicando i costi per l’organizzazione dell’evento nuziale, potrebbero rappresentare una valida alternativa all’unione coniugale in un momento di difficoltà economica.

Anche tra chi è già in coppia la situazione economica è decisamente peggiorata, specie tra i giovani al di sotto dei 35 anni, i quali soffrono di un significativo aumento tra il 2007 ed il 2011 delle difficoltà ad arrivare a fine mese e di più elevati livelli di deprivazione economica. In questa situazione, si può supporre che la famiglia continui a svolgere il ruolo di ammortizzatore sociale e di sostegno alle giovani generazioni. In effetti, il sistema-famiglia sembra reggere bene all’urto della crisi. Negli ultimi anni l’instabilità coniugale appare più contenuta: tra il 2009 e il 2012 si osserva una riduzione della divorzialità, da 181 a 173,5 per 1.000 matrimoni, interrompendo una crescita decennale e anche il trend di crescita del numero di separazioni appare cristallizzato. Contemporaneamente – così come sta avvenendo in altri paesi colpiti dalla crisi – si osserva un aumento dei giovani adulti che vivono in famiglie con più nuclei e che comprendono quelli costretti a rientrare nella famiglia paterna a seguito di un fallimento di coppia o per esigenze economiche.

Uno degli effetti più attesi della crisi economica si osserva sui comportamenti riproduttivi. In tutta Europa, dopo il picco negativo della metà degli anni ’90, la fecondità stava lentamente risalendo. La crisi sembra aver dato il colpo di grazia: il numero medio di figli per donna che era pari a 1,42 nel 2008 è sceso a 1,39 nel 2013, quando sono stati iscritti in Anagrafe per nascita poco più di 514mila bambini, circa 62mila in meno rispetto al 2008. Un calo prevedibile (Mencarini e Vignoli, 2014), ma non in questa misura, e aggravato dal fatto che, per la prima volta nell’ultimo decennio, si sono contratte anche le nascite da donne straniere.

http://www.neodemos.info/la-demografia-italiana-ai-tempi-della-crisi-e-sotto-la-lente-dellaisp/

Cent’anni dopo

Cent’anni dopo il 1848, con la carta costituzionale Italiana e la nascita della Repubblica si può dire si sia compiuta la vicenda risorgimentale con una vittoria delle idee liberali e mazziniane; ma sappiamo tutti che qualcosa poi non ha funzionato.

Se leggete la biografia di Parri, primo presidente del consiglio, capite subito perché:

avevamo perso la guerra;

come al solito, continuammo a litigare tra di noi;

le nostre scelte politiche erano pesantemente condizionate dalle forze occupanti

l’idea di nazione fu subito accantonata dai globalizzatori

Il risultato lo vediamo chiaramente adesso:

essere un vaso di coccio tra vasi di ferro
  • • Essere indifesi in mezzo a persone o avvenimenti pericolosi; essere costretti a trattare con un prepotente, o con una persona più forte o più abile, senza essere in grado di contrastarla. Quindi, in senso lato, rischiare di rimetterci fortemente.
  • Il detto riprende una favola di Esopo (Favole,354) in cui si narra che un giorno un Vaso di coccio si trovò trascinato dalla corrente di un fiume che aveva travolto il carico in cui si trovava. Quando vide che vicino a lui navigava un Vaso di metallo si spaventò, e lo pregò di tenersi alla larga per non rischiare uno scontro dal quale sarebbe uscito in pezzi. La favola è ripresa da La Fontaine (Fables,V,2) e da Flavio Aviano (Favole,11) ed è ricordata da Alessandro Manzoni nel primo capitolo dei Promessi Sposi a proposito di Don Abbondio.

http://dizionari.corriere.it/dizionario-modi-di-dire/V/vaso.shtml

Don Abbondio

Va’ pensiero

In realtà, come spiega wikipedia, nel testo originale non c’è l’apostrofo:

Va, pensiero, sull’ali dorate;

Va, ti posa sui clivi, sui colli,
Ove olezzano tepide e molli
L’aure dolci del suolo natal!

Del Giordano le rive saluta,

Di Sïonne[3] le torri atterrate…
Oh mia patria sì bella e perduta!
Oh membranza sì cara e fatal!

Arpa d’or dei fatidici vati,

Perché muta dal salice pendi?
Le memorie nel petto raccendi,
Ci favella del tempo che fu!

O simile di Solima[4] ai fati

Traggi un suono di crudo lamento,
O t’ispiri il Signore un concento
Che ne infonda al patire virtù! ( 4 volte)’
Era il 1961 e, per il centenario dell’unità d’Italia, il nostro insegnante di musica delle medie ci fece studiare e cantare proprio questo inno che ricordo tuttora.
Ora provate a immaginare che cosa potevamo capire dei riferimenti colti di cui parla wikipedia, ma anche Bruno Belli in http://www.classicaonline.com/inviato/appuntamenti/14-03-11.html
Eppure il fascino della musica è innegabile, tanto che è stato proposto anche come alternativa all’inno nazionale italiano e adottato come tale dagli esuli di Istria e Dalmazia dopo la seconda guerra mondiale.
Nell’originale (il Nabucco) gli esuli erano gli ebrei in Babilonia, ma, fin dal suo debutto nel 1842, ci fu una piena immedesimazione (come per molte opere Verdiane) con i destini della liberazione dell’Italia dallo straniero.

Cara Italia ti scrivo…

Cara Italia ti scrivo, anche se Tu non hai mai scritto a me.

Il 1° settembre 2014 ho preso servizio in qualità di docente a tempo indeterminato nella Direzione Dattica di Zola Predosa, a seguito di un trasferimento chiesto in previsione d’intraprendere una convivenza.

Il mio rapporto di coppia all’improvviso s’ interrompe ed io mi ritrovo spiazzata. Fin qui sfiga, vado in pace, Amen.

Comincio a cercare un monolocale in affitto e penso di trovarlo in fretta, in quanto statale assunta a tempo indeterminato, ma così non è.

Le mie proposte vengono regolarmente scartate, perché la mia busta paga è troppo bassa rispetto al prezzo dell’affitto.

Un’agenzia mi chiede di stipulare una fideiussione bancaria annuale, un’altra un garante disposto a pagare la locazione nel caso in cui io risultassi inadempiente.

Mio padre, che riceve mensilmente una pensione statale,  si offre di firmare in qualità di garante, ma dalla sua dichiarazione dei redditi non risultano immobili a lui intestati, ma solo terreni, quindi l’agenzia richiede un secondo garante a cui siano intestati beni immobiliari.

Devo pregare anche a mia madre di firmare la garanzia.

Nel frattempo inizio a lavorare e mi ritrovo a fare avanti e indietro da Modena quasi ogni giorno. Inizio a chiedermi se stia cercando di affittare un appartamento o se abbia inconsciamente inviato domanda d’assunzione alla NASA.

E porta la valigia e cambia il guardaroba, via i sandali, dentro le ballerine, nell’armadio gli abiti estivi, fuori quelli autunnali e verifiche d’ingresso da correggere, quintali di quadernoni da portarsi appresso, fotocopie da stampare e lezioni da programmare in automobile col sottofondo di Julio Iglesias.

Ieri l’altro scopro che serviranno due cedolini del mio stipendio e la mia dichiarazione dei redditi. Il tutto è gelosamente custodito dentro un sito che si chiama “Noipa”, al quale non posso accedere senza conoscere la password provvisoria.

Mi reco in segreteria per essere identificata e conoscere il tanto agognato codice segreto: mi viene risposto che devo procedere da sola e attuare il primo accesso, ma io obietto che per accedere serve sta benedetta password, che io non conosco, cazzo! Vengo liquidata malamente da una segretaria, la quale mi informa che in ufficio hanno ben altre cose più importanti da fare. Io sono senza casa, ma questo è soltanto un piccolo, insignificante particolare.

Cara Italia ti chiedo: che cosa deve fare un cittadino italiano che lavora per affittare un monolocale di 40 mt. quadri?

A me ormai hanno chiesto anche il culo! Pardon, il lato b che, francamente, non mi sento di concedere , dato che già mi serve per pagare tasse astronomiche, spese e bollette!

Ho capito. Devo emigrare, ottenere la cittadinanza di un Paese sottosviluppato,  poi tornare e pretendere una casa gratis.

Cara Italia ti scrivo, anche se so che Tu non scriverai mai a me ed una sola cosa che serbo nel cuore voglio dirti: ma vaffanculo!

Ornella Anastasia Pigati

postata su Facebook(TM)  il 20 settembre 2014