Il senso della fine e la fine del senso

… La frase apparsa su Vulture ricorda un passaggio de La società dello spettacolo di Guy Debord: l’insoddisfazione è diventata una merce. In questo caso la brandizzazione della distopia, pur presentandosi come narrazione massimamente politica, avrebbe così un effetto depoliticizzante.
Il senso del disastro imminente è strettamente connesso a un’esuberanza della capacità immaginativa. Immanuel Kant nel 1794 fa pubblicare sulla Berlinische Monatsschrift un piccolo saggio intitolato La fine di tutte le cose. Il filosofo tedesco si chiede, tra le varie riflessioni intorno al tema della fine, perché gli uomini di ogni cultura e di ogni luogo si aspettino una fine del mondo e siano, per di più, inclini a pensarla in termini terribili. «L’idea di una fine di tutte le cose non trae la sua origine da ragionamenti relativi all’ambito fisico, ma da riflessioni sul corso morale delle cose di questo mondo». La corruzione del genere umano, evidenziata da segnali mondani come l’ingiustizia crescente tra ricchi e poveri, non può avere che una fine drastica. Il mondo dura finché gli esseri razionali sono «all’altezza dello scopo finale della loro esistenza». Altrimenti, il mondo sarebbe come un’opera teatrale senza conclusione. L’intento di Kant è trasformare la fine di tutte le cose nel fine di tutte le cose: vale a dire il senso della fine, che trascende la nostra esperienza, è un ente di ragione che ci spinge a rendere morale lo scopo finale della nostra esistenza. È la fine come completamento della maturità dell’umanità, vale a dire il momento in cui l’uomo riesce, tramite la ragione pratica, a mettere un freno alla sua opulenza e all’egoismo. Oggi siamo consapevoli di qualcosa di più. La “corruzione del genere umano”, per dirla con Kant, sconfina nel mondo fisico e diventa una variabile causale dei cataclismi. Le forme sociali tramite cui abitiamo il pianeta stanno avendo una diretta influenza sull’ecosistema alterandolo a livello fisico, chimico e biologico. L’homo sapiens per la prima volta è diventato un agente geologico, una variabile ingombrante nella complessità del globo. Com’è noto, secondo una parte della comunità scientifica, sulla scia di un fortunato testo del chimico Paul Crutzen, la nostra era geologica andrebbe rinominata Antropocene.
Cinque estinzioni di massa si sono succedute sulla terra in 540 milioni di anni. Il motivo principale è stato quasi sempre l’aumento di carbonio nell’atmosfera. Secondo alcuni ricercatori, come Daniel Rothman, geofisico al MIT di Boston, siamo all’inizio di un processo che nel giro di 100 anni potrebbe portare alla sesta estinzione di massa.

estratto da https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=61555

Il mito dell’equità naturale

di Ugo Foscolo

Adunque, veduti i mortali nella storia d’ogni epoca e ne’ costumi di qualunque comunità, appare che ogni loro azione deriva dalla inimicizia reciproca, e ogni loro pace dalla stanchezza. Invano la religione, e la santissima fra le altre, esortava il genere umano a lasciarsi giudicare nelle sue liti dalla paterna giustizia d’ Iddio. Gli astuti e i potenti hanno abusato di questo divino compenso, ed affilate armi a più feroci discordie; e ne hanno agguerrito l’infinita moltitudine de’ violenti e bestiali, gridandole: — Ti sbramerai santamente di sangue! —.

Adorai l’arcana sapienza del Cielo. Invano i giurisprudenti celebrarono il diritto delle genti: lo trovai potentissimo nel timore di due nazioni che non ardivano di affrontarsi, o si collegavano contro un’altra più forte; ma, cessata la causa, cessava il vigor del diritto. Non essendovi tribunali, nè profossi, nè patiboli tra’ due principi, la forza inframmetteva inappellabilmente la sua sentenza, e la scrivea con la spada, finchè il terrore delle altre nazioni, e il fremito del genere umano contro l’usurpazione non suscitasse nuove forze per abbattere il vincitore.

Frattanto i vinti obbedivano; i popoli vittoriosi onoravano il principe che li facea ricchi e temuti, i vicini lo rispettavano, e i lontani e i posteri lo ammiravano.

Conchiusi che la natura opera per mezzo della discordia di tutti i mortali onde agitare, trasformare e far sempre rivivere con moto perpetuo di distruzione e di rigenerazione a certi ricorsi di tempi le cose tutte, [e] gli uomini; che se la concordia fosse legge della natura, sarebbe infrangibile; i giurisprudenti non esorterebbero i principi a mantenerla, e i popoli non si guerreggerebbero mai.

[Della servitù dell’Italia, Discorso primo, 1815]

estratto da http://www.appelloalpopolo.it/?p=15511

Quando gli imprenditori sognavano

di Sergio Di Cori Modigliani

Una storia lunga 80 anni, che viene da molto lontano, e che oggi perdura condizionando le nostre esistenze, soprattutto la politica italiana.

Correva l’anno 1937 e, per un caso fortuito della meteorologia bislacca, quell’anno, in California, la primavera era assurdamente fredda. Per i nativi, inconcepibile.
Un giovane artista e imprenditore di Chicago, che abitava a Los Angeles, considerato da alcuni un visionario astro nascente, mentre altri invece pensavano si trattasse di un pazzo maniaco, tornava a casa alle ore 16, contrariamente alle sue abitudini, in preda all’angoscia e al turbamento.
Si chiamava Walt Disney e stava sull’orlo del fallimento.
L’impresa nella quale aveva investito tutta la sua esistenza, sia spirituale che materiale, era nei guai, strozzata dai debiti con le banche. Il suo primo lungometraggio che rivoluzionava, allora, l’inesistente tecnica dei cartoni animati, si stava rivelando molto più costoso e faticoso delle previsioni. Mentre i disegnatori erano al lavoro per completare l’opera (“Biancaneve e i sette nani”) lui si era già messo al lavoro per realizzare, finalmente, la sua vera ossessione di sempre: fare un film su Pinocchio. Ma non era riuscito ad avere tutta la documentazione iconografica di cui aveva bisogno per iniziare il lavoro. Uno dei suoi assistenti, qualche settimana prima gli aveva regalato una succulenta informazione: in Italia, nel mezzo del nulla, in una casa di campagna, abitava un altro pazzo come lui, altrettanto maniaco, che possedeva un rarissimo tesoro, unico al mondo.
Proprio quello di cui lui aveva stabilito avesse bisogno.
E così gli aveva scritto una lunga lettera presentandosi, e comunicandogli la sua curiosità.
Entrambi nutrivano diverse passioni in comune, tra cui la passione per la pedagogia e gli scambi epistolari. Alla fine di un nutrito carteggio, il giovane editore italiano alle prime armi, Arnoldo Mondadori, invitò Walt Disney e sua moglie a casa sua, per mostrargli il tesoro.
Era un viaggio molto lungo e lontano, ed era stato più volte rimandato, ma date le circostanze, l’americano quel giorno decise che era meglio per lui andarci.
Entrò a casa sorprendendo sua moglie, Lylianne, una brillante disegnatrice di moda, che  aveva convinto ad associarsi a lui nell’impresa dei cartoni animati. Da quando si erano sposati (sei anni prima) non avevano mai preso neppure un giorno di ferie e il viaggio di nozze era stato rimandato perchè durante i giorni del matrimonio lui doveva seguire il lancio dei suoi primi cortometraggi, rivelatisi dei totali fallimenti sia di pubblico che di critica.
Non era mai accaduto che tornasse a casa a quell’ora e sua moglie si preoccupò.
Walt Disney le disse: “Ho due notizie per te, una è bellissima, l’altra è pessima”. Lei non si scompose più di tanto. Come lui stesso ha raccontato nella sua biografia, gli rispose: “Se quella pessima riguarda una questione di salute, dimmi subito di che cosa si tratta. Vale anche se riguarda il fatto che da domattina non abbiamo neppure i soldi per comprarci un litro di latte. Altrimenti, voglio sapere soltanto quella buona”. E così, Walt Disney non le raccontò del suo imminente fallimento e le comunicò che di lì a pochi giorni se ne andavano, finalmente, in viaggio di nozze in Italia.
“Dove?”
“A Ostiglia”
“E dov’è?”
“Vicino a una cittadina che si chiama Mantova”
“Sarebbe?!”
“Non ne ho la minima idea, so soltanto che sta in mezzo alla campagna, sembra vicino a un fiume”
“A fare che?”
“A cambiare vita”.
E così, dopo venti giorni si imbarcavano a New York sul piroscafo Regina Elena per andare a incontrare un tipografo che aveva aperto una piccola casa editrice di nicchia e che sosteneva quanto fosse importante investire nella educazione giovanile.
Arrivarono all’appuntamento con un giorno di ritardo, perchè si persero nella pianura padana.
Anche Arnoldo Mondadori era molto eccitato all’idea di quell’incontro. Anche lui aveva i suoi problemi.
Abile imprenditore italiano, spregiudicato e intelligente, aveva aderito al fascismo fin da subito, mettendosi a disposizione per stampare nella sua tipografia il materiale propagandistico del Duce, e con i proventi (e le relazioni ottime che aveva stabilito con Starace, il segretario del partito fascista) aveva fondato nel 1933 la sua casa editrice, che avrebbe dovuto diffondere la grande cultura italiana nel mondo. Ma subito dopo iniziarono i guai, perchè Mondadori aveva inventato la collezione Medusa, per un ristretto pubblico di lettori colti, traducendo i più importanti scrittori stranieri, soprattutto quelli inglesi e americani, odiati dal regime. Ed era entrato in rotta di collisione con il potere politico di Roma.
L’incontro tra Walt Disney e Arnoldo Mondadori invece che una visita di cortesia durata poche ore, si trasformò in una sosta durata quattro giorni dove le due intelligenze si incontrarono soddisfacendo i diversi appetiti strategici. Fu soltanto al terzo giorno che Mondadori si decise a mostrare a Disney il suo grandioso tesoro, celato in una stanzetta chiusa a chiave dentro la quale non poteva mai entrare nessuno, neanche la cameriera. Si trattava della più grande collezione privata al mondo di tutte le edizioni originali (in 126 lingue diverse) della favola di Pinocchio, corredata di disegni. Erano 356 volumi. C’era perfino una edizione scritta in aramaico, pubblicata in Syria con delle illustrazioni di un famoso pittore iracheno emigrato a Parigi. Rimasero chiusi dentro quella stanza per una intera giornata. Alla fine ne uscirono entrambi soddisfatti. La sera andarono a festeggiare insieme alle mogli nel centro di Mantova e il mattino dopo si recarono da un notaio internazionale a Milano dove firmarono l’accordo. Mondadori cedeva l’intera collezione a Disney. In cambio, l’americano cedeva, per 50 anni, tutti i diritti mondiali relativi a Topolino, quel Mickey Mouse che in Usa non era piaciuto alla critica. Gli unici territori che Disney mantenne furono gli Usa, il Canada e Cuba. Inoltre, i due, fondarono una società comune, la joint venture Disney-Mondadori, denominata Associazione Periodici Italiani, per pubblicare materiale illustrato per i più piccini.
E Disney se ne ritornò in California.
Tre anni dopo usciva Pinocchio, un clamoroso successo negli Usa, con un profitto netto corrispondente a circa 250 milioni di euro di oggi.
Per Mondadori, invece, in Italia cominciavano i guai, finiti con la fuga sua e della famiglia in Svizzera, dove rimasero in esilio dal 1943 al 1947.
Ma nel 1949, venne distribuito in tutto il mondo il film “Fantasia” che irruppe nell’immaginario collettivo dell’epoca determinando un colossale successo di tutti i personaggi di Topolino, stampato poi come giornaletto a fumetti in 170 nazioni del mondo.
E i soldi della royalties andavano tutti alla Arnoldo Mondadori Editore.
La casa editrice si avvalse pertanto di questa cassaforte che i concorrenti gli invidiavano. Ogni anno, la Mondadori incassava circa 25 milioni di euro senza fare nulla. E con quei soldi costruirono il loro impero editoriale. Arnoldo rimase legato a Walt da sincera amicizia. La fotografia della bacheca li ritrae insieme nel 1960, nel corso delle olimpiadi a Roma. Mondadori lo ringraziò per la sua consulenza di qualche anno prima, quando Disney lo aveva consigliato caldamente di lanciarsi nell’editoria popolare pubblicando la prima enciclopedia di massa per un pubblico dai 7 ai 15 anni.
Quando nel 1976, il grande Mario Formenton divenne presidente della Mondadori, essendo anche lui un abile imprenditore lungimirante, si rese conto che di lì a breve sarebbe scaduto il contratto con la Disney. Per due anni trattò il rinnovo dei diritti ma la cifra chiesta dagli eredi era eccessiva. E così nel 1978 capì che bisognava anticipare i tempi con un’accorta politica industriale, visto che dieci anni dopo, nel 1988, la Mondadori avrebbe perso la sua cassaforte.
Dopo un anno di ricerche decise di imbarcare quelli che considerava i due più abili e spregiudicati finanzieri del mercato mediatico italiano, Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, pensando che avere dentro due maghi della finanza sarebbe stato il modo migliore per affrontare quel passaggio. Quando nel 1986 Formenton morì, era convinto di aver lasciato agli eredi Mondadori la traccia per reggere l’impatto con il mercato editoriale internazionale.

estratto da: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2013/09/quando-gli-imprenditori-sognavano-e.html