Maurice Hauriou

Il giurista francese non credeva che l’umanità vada in una sola direzione (del progresso) ma che periodi di progresso e di decadenza si alternino – e indicava come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; e come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso. Prevedeva anche che lo spirito economicista finisce per distruggere perfino le proprie creature (come la speculazione finanziaria fa con l’economia reale).

Quanto allo spirito critico – che oggi si direbbe relativismo – la demistificava in una linea di pensiero che va da Vico ai pensatori controrivoluzionari come Maistre e Bonald, l’idea che il relativismo possa legittimare autorità e istituzioni. Non foss’altro perché, queste esistono per dare certezze. Senza certezze, senza fede, una comunità umana non può (alla lunga) avere un’esistenza. Può anche credere in un assoluto non trascendente, ma deve necessariamente avere un ubi consistam. Ogni popolo trova il suo: quel che è impossibile è non averlo. O averne uno incompatibile con la tradizione, lo “spirito” e i valori della comunità.
Nel concludere il libro Socci ricorda come il Risorgimento italiano fu viziato da un errore “l’idea  di unificare l’Italia non per via pacifica e federale come prospettava il papa, ma per via militare e sotto una sola dinastia fu devastante anche per il meridione d’Italia, dove da secoli governava una monarchia legittima quanto quella sabauda” Il nuovo regno nacque così (più per caso che per volontà del genio di Cavour) da una guerra civile e da una frattura col cattolicesimo (il non expedit), una cesura tra la tradizione nazionale e la novità istituzionale. Indebolendo così l’istituzione-Stato nazionale fin dalla nascita. Questa gracilità, aumentata dall’esito della seconda guerra mondiale, ci ha dato istituzioni, in particolare quelle della Repubblica, poco idonee a superare i momenti di crisi e a proteggere così la comunità nazionale, come successo in questi ultimi trent’anni.

Cupio dissolvi

È l’italiano, ovviamente. In pochi decenni l’italiano, questa complessa costruzione di tre millenni, contraddittoria e feconda, multiforme e geniale, è stata vilipesa, mediocrizzata, evirata, prevaricata da una cultura non sua, stupida e vociferante.
I pochi sopravvissuti, coloro che, intimamente, si sentono ancora italiani, sono avviati, dalla consueta spietatezza dell’assolutismo PolCor, a sempre più ristrette riserve antropologiche.
Tutti sottostimano l’accelerazione di questi tempi.
È davvero sbagliato confrontare le mutazioni storiche del passato con la velocità del presente. È come vivere in un razzo sparato a velocità della luce che annienta ciò che si è stati e divora un futuro inesistente. Solo ciò che accade nel breve attimo che preserva la nostra esistenza ha valore: l’hic et nunc verrebbe da dire, ma liofilizzato, reso meschino, utilizzabile. Il cono di luce della sapienza si restringe sempre più; la memoria del pesce rosso, evocata satiricamente per significare la cio che è dimenticanza dell’uomo postmoderno, un deraciné, soprattutto, slargato da affetti di sangue, da ciò che fu la sua civiltà e felice d’essere gettato nel circo godereccio dell’indifferenza, non è più una metafora. È realtà.
Viviamo la rivoluzione digitale e tecnica inarrestabile. Non vi è progressione, solo uno scarto epocale. Un cambiamento di stato effettivo, dallo stato liquido a quello aereo. Dopo decenni di bollitura edonista l’italia e gli italiani sono pronti all’evaporazione totale.
Cos’è, in fondo, questo decantato postmoderno? Sostanzialmente nulla. Tolti i brevi attimi di godimento l’uomo nuovo si aggira in un inferno senza confini e limiti. Ogni istituzione e fondamento, vilipeso e dileggiato nei decenni, è scomparso con uno sbuffo di fumo. Grandi feste, ovviamente. Finalmente non abbiamo più oppressori! Chiesa, patriarcato, morale, giustizia … disciolto in un acido tiepido che fa friccicare la pelle. Comprendere che tali istituzioni, anche le più apparentemente folli, sono nate per preservare un popolo dal proprio annientamento è evidentemente troppo difficile oramai.
Ovviamente l’uomo nuovo è infelice. Crede di essere felice poiché scambia qualche piacevole gadget per felicità. In realtà, inconsciamente, ricerca ciò che egli stesso ha liquidato. Lo intravede con l’istinto di quel residuo sangue che ancora gli indica la retta via. Lo brama, senza saperlo, ma quella visione è dietro un vetro ingannevole … ed egli continua a battere contro quel vetro come una mosca impazzita. Poi, quando la sua anima è sfinita, ed egli è preda della disperazione, si rigetta nel consueto ciclo dell’eterno presente: chat, commenti digitali, incontri estemporanei, chiacchiere, pop corn e altri memorabilia del nulla.
Forse dovrei dichiararmi fortunato per aver avuto l’onore di assistere a un tale spettacolo, immane e ripugnate assieme; i nostri tempi, e che tempi!, sono un loggione privilegiato per assistere, fra cupio dissolvi e disgusto, alla svaporazione dell’Italia, l’Italia!, e del suo mirabile passato.
Siamo come quel personaggio dell’Orlando Furioso che ancora fa la voce grossa ma è già morto. La cultura, intesa come retaggio e tutela di ciò che fu l’Italia nei tre millenni addietro, si sta smaterializzando sotto i nostri occhi e le nostre mani, giorno dopo giorno.
Ci si culla nell’illusione. Alberto Angela licenzia grandiosi documentari sul Colosseo, le strade romane, il Rinascimento. Ma sono documentari da presa in giro, come certi resoconti della BBC che mostrano il rinoceronte, la tigre, l’elefante. In un mondo che vede la prossima dipartita della tigre, del rinoceronte, dell’elefante. Presto si arriverà alla celebrazione della tigre in assenza di tigre, o a una fastosa celebrazione del Colosseo in assenza di Colosseo. Sono reperti funebri, necrologi.
L’Italia sta sparendo, come l’Italiano e gli Italiani.
Tornare indietro? Come potremmo?
Tra l’altro non vi sono segnali di ravvedimento, pur minimi. Anzi, si avverte, in alcuni traditori, uno spasimo di gioia nell’accorgersi di queste lente sparizioni.
Chiese, ponti, edifici patrizi, affreschi, dimore storiche, l’intera letteratura … tutto questo non è contemplato dall’uomo nuovo italiano, l’imbecille del clic.
Vi è una cesura netta, un taglio immedicabile. Da un certo punto di vista rimpiango l’aristocrazia e il clero che, nella loro iattanza, riuscivano almeno a preservare il tesoro della tradizione.
Tornare indietro? Anche gli schiavi negri in America volevano tornare indietro. Se non nella loro terra, almeno alle loro radici. Il blues delle origini rappresenta tale aspirazione titanica. Riprodurre, in terra ostile, gli strumenti e i timbri originali dell’Africa; spesso improvvisandoli, questi nuovi strumenti. Fu uno sforzo che non andò a buon fine. Intere culture annientate … Aztechi, nativi americani, africani … stavolta tocca a noi, perché non potrebbe essere? Un momento, qualcuno obietterà, indios, pellirossa e africani, ci sono ancora. Certo, dico io, ma sono derivazioni genetiche, non culturali. Un Navajo che gestisce un casinò o un aborigeno australiano costretto a mendicare nelle periferie cosa sono?
L’italiano è ancora italiano? E, soprattutto, che lingua parla? Quale rapporto intrattiene col proprio vocabolario? Esso lo controlla? Qui c’è poco da fare: meno parole si conoscono, meno realtà si comprende. Solo così si capisce la strenua lotta del potere attuale contro le facoltà umanistiche: italiano, greco, latino, storia, filosofia, storia dell’arte. C’è una comunanza? Certo, qui si impara a capire cosa c’è dietro, a dissezionare le intenzioni, a ricollegare il passato al presente, a forgiare il buon gusto. Ovvio che tutto questo deve essere emarginato. L’umanista deve essere ridotto nell’immaginario collettivo a una figura farsesca, obsoleta, da scherno. Ci servono medici, ingegneri, tecnici! cianciano i traditori. Benissimo, sono d’accordo, ma questa è la base da cui partire. Gli architetti col retroterra classico sono Nervi e Piacentini (mi limito, per carità di patria, al Novecento). I supertecnici sono Meyer e Fuksas. Guardate cosa hanno eretto questi ultimi due teppisti a Roma e confrontatelo con le opere dell’Eur 1942. Esercitate la professione indolente del flâneur e scoprirete cosa significa essere italiani. Nervi era un italiano, Fuksas no. Basta andare all’Eur … i prodotti di due epoche sono uno accanto all’altro. Il prodotto dell’architettura italiana, pur spinto nel futuro, e il prodotto del nichilismo contemporaneo.
Devastare i nostri licei è un operazione di potere purissimo.
Dissolvere il passato significa fare a meno di quella camera di decantazione naturale che ci fa accettare il bello e rigettare il brutto, quasi istintivamente. Se un italiano non ha più in sé tali anticorpi egli accetterà tutto: il brutto, l’ingiusto, il male.
Senza le ataviche coordinate culturali si è allo sbando. Si scambia un’isola per il dorso d’un mostro.
Cos’è la lingua italiana, in fondo? La differenza tra comprendere e subire, non altro. Abolire la ricchezza del nostro vocabolario, le nuances di una parola, gli incastri delle subordinate, barattandole con un discorso piatto e funzionale equivale a rendersi schiavi.
Meno parole meno libertà.
Meno rigore nell’ortografia, meno ricchezza nella punteggiatura equivale a meno libertà.
Sopprimere un frasario tutto nostro con un pidgin internazionale composto da frasi fatte, rapide, funzionali, in cui abbondano abbreviazioni tecniche, grossolanità da quotidiano digitale, equivale a divenire servi.
Persino in questo momento io sto tradendo l’Italiano.
Perché sto scrivendo con un iPad. Scrivere con un iPad porta inevitabilmente  alla neolingua da Orwell, alla distruzione dell’italiano. Il blocco note della Apple contempla a fatica gli accenti gravi e acuti delle vocali, le elisioni, le dieresi; anche i due punti e il punto e virgola sono faticosi da digitare. La tastiera ordita dal siriano Jobs, alla lunga, reca surrettiziamente la banalizzazione; una prosa scipita, piatta, inosservante delle fastidiose regole della scrittura.
E questo perché la lingua dei conquistatori è quella che viene imposta.
La neolingua tecnica angloamericana dei PC e degli smartphone conforma strutturalmente a sé stessa qualunque ricchezza della cultura locale. Dopo l’espressività dei dialetti, si sta perdendo ineluttabilmente anche la forma dello scrivere italiano, le regole basiche, l’arcobaleno della dialettica, la musicalità del testo di cui la punteggiatura costituisce la regola così come diesis e bemolle costituiscono l’ortografia d’uno spartito.

NOTA: Sottolineature, corsivi, grassetti sono miei e vi invito a leggere la versione integrale al link qui riportato

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Il dolore di essere italiani

genioNaturalmente, sono le vie mediane le più battute. Si può, per esempio, in alcune occasioni, omettere una ricevuta fiscale o accettarne la mancanza; si può cercare, in casi particolari, una raccomandazione; si può, talvolta, compiere un abuso edilizio, certi di poterlo prima o poi sanare; si può non mettere in regola la colf se lei stessa lo richiede – così come un politico può, entro certi limiti, peraltro indefiniti, patteggiare favori e attenzioni in cambio di voti, un industriale può dare in via riservata cifre consistenti a dei partiti con lo stesso atteggiamento con cui investe somme analoghe in pubblicità, e i commissari di un concorso possono accordarsi fra loro per far vincere un certo candidato, magari per molte ottime ragioni, a scapito di altri più meritevoli. Nessuno di questi comportamenti viene in assoluto considerato condannabile, sebbene, più o meno, si convenga sul fatto che in teoria lo sarebbe.

La zona grigia fra il rispetto delle regole e la loro violazione è di vastità immane e indecifrata, variabile, spesso enigmatica per gli stessi italiani. L’etica italiana è molteplice come le cucine regionali, con tutte le loro infinite varianti locali e familiari contraddistinte da una normatività che, sebbene accompagnata dalla ferma adesione della comunità di cui sono espressione, è sempre suscettibile di dibattito.
In questi ultimi anni, con tutto ciò, la tensione fra le diverse dis-appartenenze si è accentuata, senza che si intravedano gli enzimi capaci di metabolizzare il pesante groviglio morale, politico e infine culturale che blocca l’Italia.

Giulio Savelli, Il dolore di essere italiani, Narcissus 2014
estratto da http://www.uncommons.it/village/il-dolore-di-essere-italiani-572

Milano vs.Roma

Genealogia di un’eterna rivalità

Fondata dai galli “Insubri” nel VI sec. a.c. è conquistata dai romani nel 222 d.c. e ribattezzata “Mediolanum”. Il marchio “romano” è indelebile e peserà sull’orgoglio meneghino sin dall’inizio.

Non va meglio con la proclamazione -prima ed ultima volta nella sua storia- di Capitale…dell’ Impero “romano” d’Occidente nel 286 d.c. Il motto della città è: Senatus Popolusque Romanus. La città è un “franchising” dell’impero di Roma.

Sant’Ambrogio era un romano originario di Treviri. Mal volentieri accettò di rimanere a Milano: « Quale resistenza opposi per non essere ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l’ordinazione fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami. ».

Parlando di “stereotipi” e mitografie, l’autorappresentazione efficientista di Milano ha illustri e antichi precedenti già nelle cultura del secolo dei Lumi.
I pregiudizi antiromani di Pietro Verri, ricordano il leghismo della prima ora e forgiano i luoghi comuni contro l’ “indolenza” dei romani. Non si risparmia il dialetto romanesco:”quando sento parlar romano, sento il sapore delle fave verdi”. Due secoli dopo, il milanese Alberto Arbasino ricorderà quando a Ostia, passeggiando lungo la spiaggia, sentiva “nell’aria come un ronzio di calabroni: erano i giovanotti romani che parlavano fittamente tra loro dicendo ‘cazzo, zozzo, borzetta’ “.

Alla fine del settecento la storiografia di Vincenzo Cuoco e dei sostenitori dell’esistenza di una civiltà italiana precedente, culturalmente superiore e contrapposta all’imperialismo romano (etruschi, greci, etc.) farà la fortuna di tutti i campanilismi italiani da nord a sud. Alcune suggestioni di Giambattista Vico andavano in questo senso.

Grande fortuna -inizio ottocento- per il saggio L’Italia avanti il dominio dei romani (1810) del livornese Giuseppe Micali; uno scritto che negli ambienti eruditi contribuisce ai giudizi moralistici contro Roma antica e a negarne la funzione di paradigma della storia italiana.
Il secolo, tutto medievaleggiante, trova eroi e campioni nei comuni italiani e nella Milano contro il Barbarossa. Se così comincia la Storia delle repubbliche italiane del de Sismondi: “L’italia antica aveva perso la sua libertà a causa delle conquiste della Repubblica romana” il resto è grande enfasi per la Lega Lombarda, i giuramenti di Pontida…

Il grande debutto internazionale della “milanesità” e dello sciovinismo meneghino avviene nel 1844 con il VI Congresso degli scienziati italiani. Contributi giungono da Carlo Cattaneo e da Cesare Cantù. Si magnificano le ascendenze celtiche, l’operosità “ambrosiana”, si stigmatizza l’immoralità degli antichi romani, si elogia la capacità dei milanesi di modificare il territorio. Non ci sono passati gloriosi da rimpiangere: contano il futuro, l’autonomia e l’iniziativa. In questo senso, siamo agli inizi del “primato morale”.

Le cose non vanno meglio dopo la proclamazione del Regno d’Italia: La sferzata ai romani che-han-perduto-gli-anticorpi (provati dal fallimento della Repubblica del 49′) arriva anche Giuseppe Garibaldi. In un appello del 1862: “Grande o romani è anche l’obbligo vostro. Moltiplicate l’energia, respingete i codardi che vi consigliano il sonno. imitate Milano di fronte agli austriaci”.

Negli anni 60′ dell’ottocento, il Bossi d’antan è Massimo D’Azeglio. Per criticare la scelta di Roma come futura Capitale della nazione, nelle Questioni urgenti (1861) stigmatizza i “2500 anni di miasmi di violenze materiali, pressioni morali esercitate dai suoi successivi governi sul mondo”, auspicando che “L’Italia e il mondo abbian finalmente il diritto di domandare se abbia da durare eternamente questo Campodoglio” e chiedendosi -centoquindici anni prima del libello Contro Roma di Moravia, Russo e altri intellettuali- se “alle moli degli anfiteatri…non sia preferibile lo spettacolo di una locomotiva”. Alla retorica del passato si sovrappone quella della “modernità”.

Con le esposizioni Internazionali del 1881 e del 1906 la grandeur milanese trova il riconoscimento ufficiale e definitivo, sempre però paragonato in modo provinciale e campanilistico a Roma, capitale “bizantina” della politica politicante, parassita e ciarliera. Il germe dell’antipolitica è quintessenziale alla grandeur milanese che ama autorappresentarsi con le idee e le ideologie della classe dominante borghese. Roma è invece sottoproletaria. Se Milano ha i caffè, noi abbiamo le osterie…

Nel 1910, un noto “socialista” poteva così rivolgersi a Turati per perorare la causa del trasferimento dell’ Avanti! a Milano: “Roma, città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, preti e burocrati, Roma -città senza proletariato degno di questo nome- non è il centro della vita politica nazionale, ma sibbene il centro e il focolare d’infezione della vita nazionale.”. Il Manlio Cancogni dell’epoca era un Benito Mussolini ancora ben lungi dagli innamoramenti per Roma “[…] enorme città-vampiro che succhia il miglior sangue della nazione.”.
Nihil sub sole novi. La guerra continua…
Andrea Costa

E mentre litighiamo tra noi qualcun altro ci governa da sempre

L’idea di Nazione

chabod“Lottando sotto la bandiera della solidarietà internazionale dei lavoratori, i comunisti di ogni singolo paese, nella loro qualità di avanguardia delle masse lavoratrici, stanno saldamente sul terreno nazionale. Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e l’internazionalismo proletario poiché l’uno e l’altro si fondano sul rispetto dei diritti, delle libertà dell’indipendenza dei singoli popoli. E’ ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono stroncare le loro radici vitali. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trust internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio. Essi non soltanto vendono, ma si vendono volentieri al migliore offerente tra gli imperialisti stranieri.” (P. Togliatti)

“Possiamo concludere che il vero sentimento nazionale (di cui l’amore per la lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma , al contrario , tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista che é sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista”. (J. C. Michéa)

“La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato e non con la spericolata globalizzazione forzata. Ogni Nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più Nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali. Cancellare il ruolo delle Nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire. Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare.” (B. Craxi)

“Il decennio ’76/’86 ha visto morire il comunismo nella sua tradizionale dimensione politica delle masse […] Dal punto di vista dell’immaginario ideologico, questo decennio ha visto gli intellettuali italiani passare dallo storicismo progressista ad un disincanto post-moderno di epigoni subalterni di ‘nuovi filosofi’ e di Lyotard.
Di fatto, si è smesso di parlare della superiorità del socialismo sul capitalismo, e del comunismo sull’imperialismo; ci si è messi a parlare della “superiorità morale” dei comunisti (intesi come una classe politica: il PCI diventato PDS; DS, PD, ecc.) e dell’’inferiorità morale’ dei democristiani e dei socialisti. Il nemico diventava un nemico moralmente corrotto (prima Craxi, poi Berlusconi), ed è in questo modo che ci si è preparati ideologicamente ad affrontare senza dolore la rovina prossima della Casa comunista di referenza, attraverso una sorta di ‘colpo di stato moralistico’. La legittimazione dell’accesso al potere (non per il socialismo, ma per un capitalismo ‘moralizzato’) non consisteva più in una maggioranza elettorale ottenuta pacificamente, ma in una sorta di ‘golpismo’ giudiziario per il bene, destinato a rimpiazzare persone corrotte e immorali con persone oneste.” (C. Preve)

“Né il Partito democratico né la sinistra democratica diranno alla gente: «Vedete, il vostro problema è che negli anni Settanta siamo stati tra i fautori di un processo di finanziarizzazione dell’economia e di svuotamento del sistema produttivo. Per questo il vostro salario e il vostro reddito ristagnano da trent’anni, mentre la ricchezza prodotta rimane nelle tasche di pochi. Tutto questo è il frutto delle nostre politiche».” (N. Chomsky)

estratto da http://www.appelloalpopolo.it/?p=14486

di PIERLUIGI BIANCO (ARS Puglia)

Cent’anni dopo

Cent’anni dopo il 1848, con la carta costituzionale Italiana e la nascita della Repubblica si può dire si sia compiuta la vicenda risorgimentale con una vittoria delle idee liberali e mazziniane; ma sappiamo tutti che qualcosa poi non ha funzionato.

Se leggete la biografia di Parri, primo presidente del consiglio, capite subito perché:

avevamo perso la guerra;

come al solito, continuammo a litigare tra di noi;

le nostre scelte politiche erano pesantemente condizionate dalle forze occupanti

l’idea di nazione fu subito accantonata dai globalizzatori

Il risultato lo vediamo chiaramente adesso:

essere un vaso di coccio tra vasi di ferro
  • • Essere indifesi in mezzo a persone o avvenimenti pericolosi; essere costretti a trattare con un prepotente, o con una persona più forte o più abile, senza essere in grado di contrastarla. Quindi, in senso lato, rischiare di rimetterci fortemente.
  • Il detto riprende una favola di Esopo (Favole,354) in cui si narra che un giorno un Vaso di coccio si trovò trascinato dalla corrente di un fiume che aveva travolto il carico in cui si trovava. Quando vide che vicino a lui navigava un Vaso di metallo si spaventò, e lo pregò di tenersi alla larga per non rischiare uno scontro dal quale sarebbe uscito in pezzi. La favola è ripresa da La Fontaine (Fables,V,2) e da Flavio Aviano (Favole,11) ed è ricordata da Alessandro Manzoni nel primo capitolo dei Promessi Sposi a proposito di Don Abbondio.

http://dizionari.corriere.it/dizionario-modi-di-dire/V/vaso.shtml

Don Abbondio