La irresistibile tendenza ad agglutinarsi davanti a qualunque maxi schermo e a cantante pop o sagra, è condivisa dalle masse in tutto l’Occidente, specie (ma non solo) giovanili. Può esser dovuta nei giovani, ma anche nei trentenni o quarantenni millennials, alla sensazione (ahimé fondata) di vuoto ontologico. Alla oscura angosciosa consapevolezza di non ”essere”, che si cerca di placare con un surrogato, l’”esserci”: essere là dove sono tutti i coetanei poco essenti, fare le loro stesse cose nello stesso momento. Nell’agglomerarsi degli italiani mi sembra però di vedere un sovrappiù, molto più antico. Quello di cui già parlò Leopardi: “Tutta vestita a festa, la gioventù del loco…per le vie si spande – e mira ed è mirata e in cor s’allegra”.
L’italiano d’oggi fa tanta fatica ad essere un uomo all’altezza del moderno e della sua complessità, che quando può cerca di affondare il suo quasi inesistente Io nell’antico rito paesano-cafonesco, meridionale e contadino dello “struscio”. Allora è beato, e in cor s’allegra: oggi come nell’800. Il punto è che in una grande città, uno struscio di 30 mila sopravvenuti diventa qualcosa d’altro, e comporta dei rischi che il villan rifatto non è in grado di valutare.
So quel che dico. Ormai da una vita vedo rigurgitare nell’italiano collettivo questo riflusso rurale, anzi bracciantile, e mi domando: dopo un secolo di sviluppo industriale, dopo essere stati la quinta potenza economica, come mai questi sembra che abbiano appena lasciato la vanga, abbiano ancora le scarpe nella zolla e si siano ripuliti i calli dal terriccio? E’ un mistero. E’ un sedimento di contadineria, che bisogna riconoscere ineliminabile, dopo tanto sviluppo.