Lo stato di eccezione

Gli stati moderni sono governati de facto da oligarchie finanziarie e dopo la breve stagione democratica del secondo dopoguerra ora stanno implementando forme di controllo di radicalità un tempo impensabili. 

Sul piano tecnologico e repressivo gli stati contemporanei sono oggi in grado di esercitare livelli di controllo storicamente inediti. 

L’unico limite all’esercizio di questo controllo, potenzialmente illimitato, è rappresentato dal guscio residuo dello “stato di diritto democratico”, che richiede qualche scusa pubblicamente spendibile per poter essere esercitato. 

La forma di questa scusa è il “richiamo alle armi” di fronte al “pericolo comune”. 

Sia la “guerra” che la “pandemia” sono istanziazioni classiche di tale “pericolo comune” illimitato, che richiede decisioni centrali inflessibili e indiscutibili “per il bene comune”, che ha legittimità a silenziare ogni richiesta e protesta, che ha il diritto di spezzare ogni volontà insufficientemente “responsabile”. Durante la pandemia abbiamo di fatto vissuto un assaggio di “legge marziale” ufficiosa. E credere che l’attuale guerra – in fase di progressiva escalation – sia vissuta come un problema da parte delle oligarchie economiche al potere è un patetico errore. Chiedersi di fronte alle marionette che ci governano “com’è possibile che non si rendano conto che ci portano sempre più in basso” presuppone ingenuamente che non ci vogliano in basso.

L’oggetto primo della pulsione capitalista è sì il denaro, ma in quanto potere, non in quanto “mezzo per il consumo”. Sono i morti di fame a pensare al denaro soprattutto come un mezzo per soddisfare desideri, per ottenere beni. Per i vertici del sistema il denaro è sempre disponibile in vasta eccedenza rispetto a qualunque consumo concepibile, mentre il suo ruolo effettivo consiste nell’assicurare gradi di influenza e potere. 

Tirando le somme, il quadro prevalente (almeno) in Occidente è il seguente: oligarchie finanziarie – abitate al loro stesso interno da gruppi leader – tirano le fila della politica in vista di una forma di controllo e indirizzo centrale inedito nella storia precedente. Essi hanno l’interesse dominante a fomentare una condizione di “pericolo comune permanente”, che tolga di mezzo ogni opposizione, innanzitutto mentale. 

Qui la lezione di Orwell resta più lucida e attuale che mai: una condizione di guerra permanente è un desideratum fondamentale per le èlite mondiali. Si tratta di una condizione da cui possono trarre solo vantaggi in termini di potere e controllo, e come ricorda Orwell, il potere non ha bisogno di ulteriori motivazioni. Che ci sia o non ci sia un qualche ulteriore “piano complessivo” (“depopolamento”, “transumanesimo”, ecc.), questo è contendibile e inessenziale: probabilmente per alcuni c’è, per altri no. Su ciò ci possono essere divergenze. Ma sull’interesse nel mantenere un controllo assoluto, che metta al riparo questa nuova casta da ogni pericolo “eversivo”, da ogni minaccia alle proprie posizioni consolidate, su ciò la convergenza è assicurata. 

Ciò che il presente e il futuro ci riservano è una spinta continua, un rinfocolamento costante di una condizione di “guerra permanente”: guerra per procura o guerra sotto casa, guerra metaforica a qualche virus o guerra preventiva a qualche cataclisma incipiente. 

Questa è la forma del meccanismo storico in cui siamo entrati. 

E non illudiamoci: saperlo di per sé non ci rende meno succubi, deboli, impreparati o impotenti.

Andrea Zhok

Idiocrazia

1) Idiocrazia.
La rinuncia definitiva degli Stati democratici al tentativo di portare il popolo sovrano all’altezza dei problemi del proprio tempo sta al primo posto.
Siccome per affrontare una questione del genere bisognerebbe impiegare vaste risorse, economiche e di ingegno, per implementare un sistema di educazione pubblica permanente, la soluzione economicamente ottimizzante è stata invece dichiarare che il popolo non aveva bisogno di nessuna educazione, e che chi dice il contrario è uno sciagurato paternalista antidemocratico.
Come ovvio e necessario risultato la ‘semplificazione per venire incontro al popolo’ non ha nessun pavimento, nessun livello terminale, e procede fino alla totale abolizione di ogni contenuto.
2) Mediocrazia.
In secondo luogo, – dipendente dal primo – il peso crescente delle attività propagandistiche basate sull’immagine, che hanno il vantaggio dell’immediatezza comunicativa, dell’estensione numerica massiva e di non richiedere come controparte soggetti capaci di leggere, scrivere e far di conto.
Si tratta di un sistema che quando funziona al meglio delle proprie capacità seleziona guitti dalla battuta pronta. (Ma raramente funziona al meglio, perché anche per riconoscere un buon attore ci vuole uno spettatore decente.)
3) Plutocrazia.
In terzo luogo, – dipendente dal secondo – la necessità, per competere nella contesa pubblicitaria e mediatica, di poter contare su poderosi finanziamenti. Ciò garantisce che chiunque si presenti a competere sia necessariamente lì in prioritaria rappresentanza di potenti interessi economici (personali e/o di lobby).
L’insieme di queste tre principali condizioni garantiscono con matematica certezza che la democrazia contemporanea si spenga ignominiosamente, ridotta in definitiva ad una contesa rabbiosa e caotica tra una moltitudine di gruppi di pressione economici. Un passo indietro rispetto alle più ottuse oligarchie.
Andrea Zhok

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/missione-compiuta

Christopher Lasch

Anche se il premier Giuseppe Conte non lo ha citato esplicitamente, l’opposizione tra “popolo” ed “élite” che il governo giallo-verde e i suoi rappresentanti  hanno ormai inserito nella dialettica politica proviene dalla sfida teorica di Christopher Lasch (1932-1994).

Lo studioso statunitense se ne occupò agli inizi degli anni Novanta individuando, in alternativa all’ideologia progressista, ciò che identifica il populismo: produzionismo, difesa della professionalità in pericolo, timore dell’erosione delle competenze artigiane di fronte al progredire della divisione del lavoro, opposizione alla struttura della finanza moderna, forte senso di identità locale. Secondo Lasch l’etica dei populisti non è né liberale né piccolo-borghese, ma anticapitalistica. A suo avviso l’uomo contemporaneo aveva bisogno di recuperare due categorie essenziali per un retto realismo morale: lasperanza e la memoria. La memoria è quella che consente di rinnovare i miti fondatori del passato; la speranza è fede nella vita piuttosto che nel progresso. Il realismo morale “dissolve” nell’uomo la sua illusione di autosufficienza e gli rammenta i limiti della condizione umana.

Infine, secondo Lasch, il futuro della democrazia è condizionato dal fattore populismo: se non si rimette al centro del dibattito il tema della disparità sociale si resterà ancorati al liberalismo classico, insufficiente a dare risposte mentre nei cittadini è necessario sollecitare la crescita di una “responsabilità civica” per renderli partecipi della vita pubblica.

A questo substrato teorico attingono molte delle idee agitate dal M5S e dalla Lega, pur se in modo a volte abborracciato e demagogico. Ma non vi è dubbio che l’incapacità della sinistra di confrontarsi con queste istanze, con quello che si potrebbe definire come “populismo buono”, rappresenta di sicuro una delle cause dell’insuccesso della visione progressista in Italia. Se si dovesse continuare a negare legittimità a queste idee, magari identificandole col fascismo che aveva altri connotati ideologici (si pensi all’idea rivoluzionaria dell’uomo nuovo, alla nazionalizzazione delle masse e al modernismo reazionario) si andrebbe dritti verso una radicalizzazione dei conflitti già esistenti. Infatti, come avverte Alain de Benoist, quando emerge il populismo si è già in presenza di una crisi di legittimità politica che mina il sistema di rappresentanza. Le élite hanno già fallito quando il populismo convince il “popolo sovrano” e gli addita i nuovi nemici: il mercato, il denaro, lo Stato terapeuta, la morale relativista. Occorre allora accettare il confronto, all’interno di una idea davvero pluralista della democrazia, e non demonizzare o deridere questo background, pena l’impoverimento della democrazia stessa, che ci riguarda tutti e da vicino.

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=60637

Il quinto stato

il Quinto Stato. L’ho incontrato a pochi passi da casa, una mattina qualunque, perché per una volta ci ho fatto caso. Accanto al supermercato in apertura staziona un giovane maschio africano, sbarcato da qualche barcone e portato qui dalla Marina Militare.  Per nulla denutrito, meno male, sorridente, ospitato a spese nostre per non fare nulla, per non essere nulla, mi appare come un gadget vivente e inconsapevole della contemporaneità. Ha uno smartphone con le cuffie, la maglietta di un gruppo rock, il giubbetto con cappuccio e scarpe sportive d’imitazione delle grandi marche che producono in Asia. Vuole un suo piccolo posto nel grande circo del mercato globale, non cerca né si aspetta più un’esistenza “normale”.

Oltre l’elemosina, aiuta le signore con il carrello della spesa, ogni tanto dà una mano a pulire qualche giardino privato. Quando i commerci sono chiusi ciondola con altri come lui – sembrano fabbricati con lo stampino – e poi sale sul bus, dove ovviamente non fa il biglietto e non viene multato, tanto non potrebbe pagare. Stamane gli è passato accanto un ragazzo con tatuaggi tribali e un piercing nel naso, zainetto di marca sulle spalle, lo stesso smartphone, le medesime cuffie, abbigliamento e andatura fotocopia, la differenza è che le griffe di abiti e scarpe sono autentiche. Va a scuola “firmato”, è un po’ in ritardo ma non si affretta, i professori saranno abituati. Dalle movenze e dal suono attutito dalle cuffie, sta ascoltando un rap, probabilmente Young Signorino (Mhh, ma che buona/ questa dolce droga bu, bu / Mhh, ma che buona bu, bu) o Sfera Ebbasta, al secolo Gionata Boschetti, re del Trap, la cui popolarissima Tran Tran parla di uno cui non frega niente di nulla, mentre altrove celebra la sua ragazza interessata unicamente a soldi e droga.

Giusto il tempo di riavermi, e il quinto Stato, se preferite la Moltitudine desiderante di Negri e Hardt, la vecchia plebe di Hegel, ricompare nelle sembianze di un giovane uomo trafelato, malvestito, forse italiano, forse sudamericano, che, sceso da un ciclomotore da rottamare con una gran borsa a tracolla, si informa su un indirizzo. Consegna posta: se la sua condizione è simile a quella del figlio ultratrentenne di conoscenti, ha la partita IVA (un imprenditore!), lavora almeno nove ore al giorno nel traffico- i rischi sono tutti suoi, è un autonomo, magari rientra nelle statistiche delle start-up– racimolando al massimo tra i 700 e gli 800 euro al mese. Mangia cibo di strada da un cartoccio sporco, porcheria consegnata da un povero cristo come lui, un altro del Quinto Stato.

La mia meta è il negozio di un grande gestore telefonico che ha appena “mangiato” qualche decina di euro per servizi e applicazioni che non ho chiesto, ma solo incautamente digitato credendo di rifiutarle (un giochetto molto comune, sembra) mi metto in fila, ma il Quinto Stato è in agguato. Ha la fisionomia di un corpulento giovanotto sulla trentina accompagnato dalla moglie – più probabilmente la compagna – con bimbo al collo. Indossa una camicia trasandata mai stirata, con pantaloni corti jeans a vita così bassa che mostrano ampie porzioni di un imbarazzante lato B, gambe e braccia rivelano tatuaggi multicolori. Ha un linguaggio pressoché incomprensibile, grugnisce pochi vocaboli anglo dialettali inframmezzati dall’immancabile “cazzo”, manifestamente capisce poco di quanto gli dice il commesso, e si rivolge per soccorso verso la ragazza che scuote la testa, mostrando con una certa fierezza due ciliegie tatuate dietro un orecchio. Il Calibano del Quinto Stato conosce perfettamente tutti i piani tariffari dei gestori telefonici e possiede l’abbonamento a Netflix.

Rassegnato al nuovo che avanza, esco dal tempio dei telefoni cellulari e delle tariffe “all inclusive” per imbattermi in un ulteriore, insidioso esponente del Quinto Stato. Ha le sembianze civilizzate di un compito giovin signore in giacchetta, cravattino e valigetta 24 ore. Figlio di famiglia, spiega di essere socio di un’agenzia immobiliare, cerca appartamenti vuoti da vendere o affittare, dà del tu a tutti e fa capire che pagherà qualcosa per ogni segnalazione positiva ricevuta; nel frattempo cerca di vendere contratti per grossisti di energia elettrica. Un imbroglioncello laccato già pronto ad assumere il ruolo di impiegato d’ordine della globalizzazione.

In mezz’ora ho visto e toccato con mano un universo che vent’anni fa era inimmaginabile. Avanza al passo del gambero una nuova imponente classe sociale del tutto ignara di esserlo. Non possiede alcuna coscienza collettiva, né sembra interessata all’impegno: politico, sociale, civile, etico. Vive e tanto basta. E’, in mille forme diverse, il Precario Globale Desiderante. La nuova classe dei perdenti dominati ignari: il Quinto Stato.

Roberto Pecchioli

estratto da:  https://www.maurizioblondet.it/il-quinto-stato/

Citazione

E’ terribile pensare che il mondo potrebbe un giorno essere pieno di nient’altro
che di piccoli denti di ingranaggio, di piccoli uomini
aggrappati a piccole occupazioni che ne mettono in moto altre più grandi […].

Questo affanno burocratico porta alla disperazione […]
e il mondo potrebbe un giorno conoscere nient’altro che uomini di questo stampo:
è in un’evoluzione di tal fatta che noi ci troviamo già invischiati,
e il grande problema non verte quindi sul come sia possibile
promuoverla e accelerarla,
ma sui mezzi – viceversa – da opporre a questo meccanismo,
al fine di serbare una parte dell’umanità da questo smembramento dell’anima,
da questo dominio assoluto di una concezione burocratica della vita.

Max Weber, Discorso in occasione di una riunione del Verein für Sozialpolik, 1909

in http://gabriellagiudici.it/weber/

L’amore che non c’è

L’istituto di sociologia dell’Università di Berkeley, in California, dal 1958 conduce una interessantissima indagine sulla formazione dell’immaginario collettivo degli americani, sulla loro idea di sessualità, di amore, di relazione tra maschio e femmina. La ricerca viene rinnovata ogni dieci anni e pubblicata all’alba della nuova decade per identificare i big data e i megatrends che saranno poi fondamentali nello stabilire che tipo di società sarà quella nella quale noi viviamo. La particolarità di questa ricerca consiste nel fatto che le domande sono sempre le stesse, fisse, il che l’accredita (dopo 50 anni di documentazione acquisita negli archivi) di un indubitabile valore di riferimento sociologico.
Nel 1958, quando ebbe inizio il lavoro scientifico, tra i 55 quesiti scelti, si poneva la seguente domanda: “Una giovane donna dichiara sono in cerca d’amore, secondo lei, che cosa sta cercando?”. In quell’anno, la maggioranza delle risposte indicava “un buon marito, fedele e instancabile lavoratore, con il quale costruire una famiglia solida”. Nel 1968 la percezione era completamente cambiata. Il 62% delle risposte indicava invece una forte tendenza pacifista “un giovane coetaneo con il quale poter far l’amore senza alcun pregiudizio, sentendosi autonoma, indipendente, libera, senza sensi di colpa, sapendo che lui sceglierà sempre l’amore piuttosto che la guerra o la carriera”. Nel 1978, la risposta che andava per la maggiore era “sesso libero senza lacciuoli, senza tante domande e senza condizioni”.
Nel 2008 la risposta più allarmante (a mio avviso) tra tutte: “un incontro romantico e appagante con un uomo molto ricco, possibilmente un vip”.

Sergio  Di Cori Modigliani

Leggi tutto: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2014/07/lamore-che-non-ce-lamore-di-cui-tutti.html