Questo paese

di Roberto Pecchioli

A primavera, tornano le rondini e torna la pubblicazione annuale dell’Istat , intitolata ottimisticamente “100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo”. Ottimisticamente, perché i dati raccolti dall’istituto non sembrano interessare nessuno, a parte il primo giorno , con gli articoli dei quotidiani ed  i servizi delle televisioni generaliste . Soprattutto, non destano un dibattito culturale vero, né tantomeno, vengono analizzati da chi dirige il Paese. Lo chiamiamo così’ anche noi, oggi, poiché Patria è troppo impegnativo .

La fotografia dell’Istat è impietosa: diminuiscono le nascite, meno di mezzo milione nel 2015, ed è il dato più basso dall’unità nazionale, 155 anni fa: 1,37 figli per donna in età fertile ( solo l’indice tedesco è più basso) e ci vuole una media di 2,1 per garantire il ricambio generazionale. Ci si sposa pochissimo, solo 3, 2 matrimoni ogni mille abitanti. I giovani sono ampiamente superati , in numero, dagli anziani , 100 contro 157, ed è un dato impressionante. Si campa abbastanza a lungo, 80 anni gli uomini, 85 le donne, ma c’è una certa diminuzione della speranza di vita rispetto agli anni scorsi. Gli stranieri, che contribuiscono alle nascite con percentuali ormai a due cifre quasi dappertutto, sono cinque milioni, tanti quasi i disoccupati. Il loro numero è aumentato anche nel 2015, pur se l’aumento è il più contenuto da molti anni ( 55.000).

Un dato raccapricciante è costituito dal numero- 2,3 milioni- e dalla percentuale (25,7 %) dei giovani che non studiano e non lavorano, oggi classificati con l’acronimo NEET  ( non impegnati nel lavoro, nello studio e che non ricevono formazione) .  Una generazione perduta, afferma pensoso Mario Draghi, che, essendo banchiere, farebbe meglio a chiedersi quali siano le responsabilità della classe dirigente di cui egli è simbolo, che precarizza, flessibilizza, non fa credito, e fornisce un’istruzione da terzo mondo, con l’inflazione delle lauree brevi  e dell’ignoranza lunga. Non a caso, si leggono  pochissimi quotidiani ed ancor meno libri che non siano , così spesso, i cosiddetti “libroidi” scritti, o almeno firmati, dai personaggi dello sport o dello spettacolo.

In compenso si divorzia molto, 8,6 divorzi ogni diecimila abitanti e si è vittime di tanti furti e rapine che spesso non si fa neppure più denuncia. Il Prodotto Interno Lordo pro capite segnala un divario Nord Sud che aumenta e che si avvicina al 50%.

Questa è la fotografia, e del resto un istituto di statistica ha l’unica funzione di fornire dati, cifre, percentuali. Per valutare , progettare rimedi, imprimere svolte, dovrebbero scendere in campo altri. E questo è, purtroppo, il punto. Il livello delle nostre classi dirigenti è sotto gli occhi di chi riesce ancora a vedere, non solo guardare: i ministri sono in lotta tra loro, ciascuno rappresenta una lobby o un comitato d’affari, nessuno ha la sguardo rivolto al futuro, o possiede un’ idea di bene comune.

L’ultima che ha dovuto dimettersi, la dottoressa Guidi, titolare dello Sviluppo Economico, ceto dirigente dalla nascita, in quanto figlia dei titolari dell’industria Ducati, la quale, tanto per contribuire alla ricchezza nazionale, è una di quelle che ha delocalizzato produzioni in Romania. La bella signora avrebbe fornito informazioni d’ufficio riservate al suo “compagno”, un imprenditore di quelli che alcuni anni fa vennero definiti “furbetti del quartierino”. Messa alle strette, ha affermato che costui è “solo” il padre di suo figlio. C’è tutta l’Italia di oggi, nella signora ministra ( si deve dire così….) . Brigano sin dall’adolescenza per incarichi dirigenziali , si laureano magna cum laude con l’aiutino, vivono nell’arroganza, la loro vita sentimentale è variabile come il tempo d’aprile, e poi, quello è solo il padre di mio figlio……..

Un maestro della mia generazione politica, Beppe Niccolai, ci ammoniva a non guardare alla realtà con le categorie della sociologia, ma con quelle della storia e della filosofia.  Invece, la lezione vincente resta quella di Max Weber, grande sociologo inventore dell’avalutatività come criterio di quella conoscenza , oltreché teorico del “politeismo dei valori” nelle società moderne.

E sia, la sociologia, che si serve della statistica, ha il diritto di essere imparziale, secondo la prescrizione weberiana, e di classificare con cura tassonomica i dati, scomporli e ricomporli secondo modelli matematici stabiliti. Ma la scienza politica no, deve conoscere, ragionare, giudicare, progettare, organizzare. Soprattutto, deve fornire, con l’aiuto della storia , della filosofia e del comune buon senso, un giudizio di valore, a partire dal quale realizzare i correttivi per cambiare rotta. Aveva ragione Massimo Fini a definire questo tempo e le generazioni al comando come un treno che corre senza un macchinista ( c’è il mercato…) su di un binario che si interromperà, prima o poi.

A me viene in mente la celebre scena finale di “Thelma e Louise”, quando le due donne lanciano l’automobile a gran velocità e, consapevolmente , precipitano se stesse nel burrone, dopo l’avventura “on the road” con cui hanno creduto di dare un senso alle loro vite.

Corriamo ridendo verso precipizi, ma nessuno si chiede se sia un bene o un male che non nascono bambini, che i matrimoni non si celebrino o durino pochissimo, che i giovani non lavorino né studino, se gli stranieri siano qui per motivi economici o per distruggere progressivamente , insieme con il mercato del lavoro, il tessuto comunitario delle nostre regioni.  Non ci chiediamo più neppure perché si abortisca, o perché si viva un po’ meno a lungo, o perché la criminalità faccia così paura. Celebriamo ogni giorno, senza saperlo un pezzetto del nostro stesso funerale, intanto abbiamo rimosso la morte e siamo indifferenti al futuro. Se non ho figli, che mi importa del dopo ? Fulminante fu la battuta di Woody Allen , ebreo, americano, progressista, cittadino della Grande Mela, dunque interprete perfetto della cosmopoli odierna: “Perché mi devo preoccupare dei posteri ? Che cosa hanno fatto i posteri per me ? “

Comunque, pretendiamo diritti, e se conviviamo, respingiamo i doveri del matrimonio, ma rivendichiamo la reversibilità, diritti di successione ed assegni familiari. A questo si riducono, infine, le unioni civili.  I figli sono un ingombro, vanno accuditi, mantenuti, persino educati , ah no , a quello pensi lo Stato, con le tasse che paghiamo ! I vecchi sono troppi, apriamo ospizi e, soprattutto, chiamiamo eutanasia (buona morte) il diritto di toglierceli dai piedi da malati.  Poi magari spargeremo in mare le ceneri, o le terremo sul comodino in un’urna, così il funerale costerà meno e non pagheremo sepolture.

Tante cose ci dicono, a volerle ascoltare, le nude cifre dell’Istat . Ugo Foscolo ci aveva avvertito che la civiltà nacque “dal dì che nozze e tribunali ed are /dier alle umane belve esser pietose / di sé stesse e d’altrui”. Le nozze non si celebrano più, solo unioni effimere , per dividere le spese, andare in vacanza ed avere comodità nei rapporti intimi, dei tribunali non ci si fida, con molte buone ragioni, e non si denunciano più furti, rapine, malversazioni , soprattutto non si percepiscono neppure più come ingiustizia, inciviltà o degrado le mille condotte negative di ogni genere di cui siamo testimoni .  Quanto agli altari, aboliti in nome della ragione umana che tutto può, tutt’al più derubricati ad agenzia assistenziale .

Torniamo alla denatalità ed alla crisi drammatica dell’unione matrimoniale. Ascoltiamo distratti dati pesantissimi, e subito passiamo oltre, ci inseguono altre notizie, altre “ultima ora”. Il problema è che uguale comportamento hanno i governi e le élite culturali. L’Istat  dice bene , nel suo titolo “il paese in cui viviamo”. Niente di più: è un paese, un luogo qualsiasi, non la nostra casa , la nostra terra, la nostra civiltà. Ci viviamo e basta, trasciniamo le nostre vite qui , ma se fossimo a Oslo, Timbuctù o Giacarta sarebbe lo stesso. Uno è il mondo, questo paese ( lo chiamano proprio così, nelle loro pensose intemerate, quelli “de sinistra” ,questo paese) è solo uno dei tanti: ci viviamo, ma solo per caso o per necessità, domani magari saremo a Los Angeles, beninteso dopo una vacanza a Sharm elSheyk, terroristi permettendo.

Come possiamo integrare , o almeno accogliere con la nostra dignità gli stranieri, se non vogliamo offrire un valore che ci distingua, un principio morale qualsiasi, un modello di vita che non sia quello di mangiare, bere e farsi i fatti propri ? Non ci chiediamo se sia bene o male che non nascano più figli di “questo Paese”, oggi è così, domani chissà, ci penserà qualcun altro.

Se la gente non si sposa e non vuole eredi, non è solo perché la vita non è semplice: nel passato le cose andavano assai peggio, certamente leggi a favore della famiglia aiuterebbero molto, ma ciò che l’Istat non può fotografare, e la sociologia non sa indagare è che un immenso sistema di potere, la cui catena di comando è nelle solite mani sporche di finanzieri, azionisti di multinazionali e persuasori al loro servizio, è sfavorevole alla vita, alla famiglia, all’amore di sé, della Patria, delle proprie tradizioni e cose.

Dobbiamo quindi ritornare senza paura a dare giudizi, ad additare colpevoli, a indicare soluzioni. E’ un male l’agonia dell’Italia, è un male terribile che si disfino le famiglie, e si ricompongano a caso, per poco tempo. E’ un male considerare l’aborto un diritto: semmai è una triste necessità in casi particolari e definiti, è un male l’orrore invincibile del nostro tempo per la sofferenza , da nascondere in appositi lazzaretti ed interrompere a richiesta, con domanda online, previa acquisizione del pin per comunicare con l’ufficio competente.

E’ una terribile perdita allontanare da sé l’esperienza concreta della morte : conosco persone che non hanno neppure il coraggio di andare all’obitorio per visitare un parente od un amico morto.Proprio Massimo Fini , che pure si dichiara ateo, ha pronunciato parole semplici e concretissime, al riguardo :  morire è facile, prima o poi ci riescono tutti.  Ed è una carenza di sentimento, dunque di vita, rinunciare volontariamente all’esperienza della paternità e della maternità, che adesso chiamano, con un neologismo orribile e burocratico, “genitorialità”.

Ma un potere possente ed immenso come forse mai nella storia ( ecco un altro giudizio di valore ) ci vuole così. Hanno allentato la catena di trasmissione: quella tra le generazioni, quella della civiltà, della cultura, dell’amore di sé. A spezzarla definitivamente , però, ci abbiamo pensato noi , come provano le cento statistiche diramate dall’ISTAT. Spettatori annoiati, obbligati a porre sempre più in alto l’asticella delle emozioni di un attimo, senza padri, nubili, celibi, di stato libero, membri provvisori e rigorosamente part –time di legami  arcobaleno , indifferenti all’idea stessa di un Dio qualunque, senza figli, tanto al mondo alcuni miliardi di soldatini premono per essere i nostri successori a basso costo, imbottiti di medicinali e di ritrovati spesso inutili perché occorre essere, anche dopo gli ottanta , più sani e più belli. Altrimenti, non vale la pena vivere, e tutto si può risolvere con una punturina asettica, tra i camici bianchi edi sorrisi artefatti dei psicologi di sostegno. Goethe, morendo, sembra abbia detto “Più luce” .

Noi, lo certifica l’Istat nell’indifferenza dei superiori , indaffarati a fare denaro, cambiare partner che, magari, saranno solo genitori del figlio in comune , desideriamo evidentemente spegnerla la luce di questa Patria rugosa, vizza e cialtrona . Abbiamo voluto , ci hanno dato, la libertà di vivere a nostro gusto, spezzare una catena .

Ma l’animo nobile aspira ad un ordine e ad una legge. Il resto è plebe: “questo paese”.

Roberto Pecchioli

L’articolo L’Italia dell’ISTAT. Si è spezzata la catena di trasmissione. è tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.

Felicità

Periodicamente qualche organo di informazione pubblica classifiche di paesi o città per qualità della vita; come sa chiunque lavora con le statistiche tutto dipende dal campione intervistato e dai parametri scelti. Quella dell’ OECD permette, in qualche modo, di personalizzarla, ma (come fa notare il lettore di cui riportiamo il commento) intervengono poi altri fattori di soggettività:

“Sto commentando, per così dire, a braccio, non avendo il tempo di approfondire con la dovuta attenzione il metodo adottato dall’OCSE per determinare il livello di felicità delle 36 Nazioni prese in esame.

Ma, se come mi sembra di capire, sono stati i 65.000 Cittadini intervistati a stabilire il livello della loro felicità, allora è necessario osservare che, più che di una valutazione oggettiva da parte dell’OCSE, si tratta, invece, di una percezione soggettiva da parte dei Cittadini intervistati. E si sa che questi rispondono ai parametri culturali a cui appartengono.

Per un Cittadino di cultura Anglosassone, per esempio, è motivo di soddisfazione di vita il loro connaturato rispetto ed osservanza delle leggi, mentre un Cittadino – si fa per dire – Italiano trae grande soddisfazione di vita dal loro oltraggio ed elusione, al punto da commiserare il raro povero fesso che le rispetta. La stessa cosa dicasi – per fare un altro esempio – del rapporto con le varie mafie: culturalmente spontanea – e fonte anche di soddisfazione di appartenenza – la sottomissione degli Italiani specialmente del Sud, mentre sarebbe una gravissima sofferenza, al punto della non accettazione, per una popolazione di cultura Anglosassone, ipoteticamente posta la loro esistenza nel contesto di questa cultura.

Se gli Italiani potessero tornare alle condizioni lavorative-economiche degli anni 70, 80 e forse anche 90, sono certo che – a dispetto di essere la più corrotta Nazione Europea, a dispetto di vivere sotto una dittatura partitica e mediatica, ed essere una vera e propria porcilaia al posto di Società Umana – sarebbero la Nazione numero UNO in termini di soggettivamente percepita felicità.

Ma se poi dovessimo poi chiedere all’OCSE di fare la sua brava obiettiva valutazione, allora le cose si capovolgerebbero, e pure di brutto. Perché al di sopra di ogni soggettivismo c’è l’oggettivismo di valutare civile o barbara una cultura.

E la nostra risulterebbe appartenere – a nostra completa insaputa – alla barbarie del profondo medioevo!”

estratto da http://www.libero-pensiero.net/quanto-siamo-felici-ecco-la-nuova-classifica-sulla-qualita-della-vita-su-36-nazioni-siamo-al-28esimo-posto/

Qualche riflessione

Lo sterminio dei sani
Noti fattori di rischio (livelli di pressione arteriosa o colesterolo, indice di massa corporea ecc.) sono in relazione lineare e diretta con l’esito paventato (morte, infarto, ictus). Al di so­pra di una certa soglia, più alta è la pressione o la glicemia o il colesterolo, maggiore sarà il rischio di morte o infarto o ictus. Se la soglia del rischio s’abbassa, aumenta il numero dei pa­zienti che dovranno essere trattati e, ovviamente, il numero di pillole vendute.
Questo fenomeno si scontra con le esigenze di politica sa­nitaria e la necessità di risparmiare. Chi paga, regione o Sta­to, ha interesse a innalzare le soglie dei fattori di rischio; chi vende ha interesse ad abbassarle.
La gara tra chi abbassa e chi alza è in genere vinta dall’in­dustria e dalle lobby specialistiche sponsorizzate. Prima che esista una dimostrazione d’efficacia del trattamento sull’ab­battimento del rischio, linee guida aggiornatissime abbassano sempre più i livelli di colesterolo e di pressione arteriosa ‘de­siderabili’. In effetti tali sembrano, ma pochi si chiedono per chi siano veramente desiderabili: per il paziente (vero o pre­sunto), il suo farmacista, il laboratorio d’analisi e per i molti altri coinvolti. Riuscendo a trasformare in malattia quelle che sono semplici variazioni sulla normalità, si fabbrica un nume­ro enorme di sani che consumano come malati. Il risultato è quello di dissanguare ulteriormente una società già prostrata dalla medicalizzazione (1)

In un altro testo vengono illustrati alcuni degli elementari trucchi statistici usati per vendere quei medicinali a persone altrimenti sane:
Adesso immaginate che il vostro medico vi abbia appena detto che avete questo ‘fattore di rischio’ per le malattie cardiovascolari, magari è qualco­sa tipo pressione alta o colesterolo alto.
Abbiamo un farmaco che cura questo fattore di rischio, non ha effetti col­laterali e il suo costo è coperto da un piano sanitario. Vi presenterò i risul­tati di tre diversi studi e vi chiederò se, in base a tali risultati, sareste dispo­sti a prendere questo farmaco tutti i giorni per i prossimi cinque anni. Non c’è una risposta giusta o sbagliata, siete voi che dovete decidere.
A questo punto di solito James proietta un lucido. “Prendereste un farmaco tutti i giorni per cinque anni se
1.     Abbassasse del 33% le probabilità di avere un infarto?
2.     Abbassasse le probabilità di avere un infarto dal 3% al 2%, una diffe­renza dell’1%?
3. Salvasse dagli infarti una persona su cento, ma non c’è modo di sape­re in precedenza chi sarà quella persona?

“Bene, allora quanti prenderebbero il farmaco visti i risultati del primo stu­dio, lo studio A?” Chiede James. Di solito circa l’80-90% degli anziani in sala alza la mano.
“Nei casi B e C?” Circa il 20% dei presenti solleva il braccio.
James e Bob fanno una pausa ad effetto prima di pronunciare la loro battu­ta. “Mi dispiace dirvelo, ma vi abbiamo preso in giro, perché quello che vi abbiamo appena detto è il risultato di uno stesso studio riferito in tre modi diversi”.
Spesso dal pubblico sale un “Eh?” generale. Alcuni degli anziani strabuz­zano gli occhi increduli, altri sono irritati o perplessi. Ma a questo punto della conferenza molti di loro in genere sono già seduti sul bordo della sedia: vogliono tutti saperne di più.
Bob prende il microfono a James: “okay, ora vi spiego il trucco, ma non rimaneteci male, anche i medici ci cascano sempre. Vedete, se il vostro
rischio iniziale di infarto è del 3%, potrei darvi una medicina per ridurlo del 33% e farlo scendere al 2%. Capite? Due è il 33% in meno di tre. Ma è anche una differenza dell’1%. Come sa persino la gente handicappata in matemati­ca come James, se avete un 3% e scendete a un 2%, la differenza è dell’1%. Semplice, no?”.
In genere si scorgono ancora delle fronti aggrottate sparse tra il pubblico.
James riprende la parola. “Mettiamola così, invece del rischio di infarto, parliamo dell’acquisto di un vestito. Diciamo che il prezzo normale di un vestito è di 300 dollari e che adesso è in svendita con lo sconto del 33%, quan­to lo pagate?”
“Duecento dollari”, rispondono molti dei presenti.
“Giusto, e se il vestito costasse solo 3 dollari, e ci fosse il 33% di sconto, quanto lo paghereste? Due dollari, vero?”
A questo punto quando Bob e James perlustrano il mare di capelli grigi davanti a loro di solito vedono che il pubblico inizia a capire. “Caspita, ci siete arrivati più in fretta dei medici a cui abbiamo fatto questa stessa conferenza stamattina!” commenta Bob ridacchiando.
Il motivo per cui tale rivelazione è così importante è che spesso i tarmaci vengono pubblicizzati utilizzando questo espediente statistico che fa sembra­re più grandi i benefici. Gli annunci pubblicitari rivolti a medici e pazienti affermano ad esempio che un farmaco offre una riduzione del rischio di infar­to del 33%, senza spiegare che in pratica bisogna assumere il medicinale per cinque anni al fine di abbassare i rischi dal 3% al 2%. Come Bob e James spie­gano tutte le volte che tengono la loro conferenza, in termini relativi questa è una riduzione del 33%, in termini assoluti è una riduzione dell’1%, dal 3% al 2%. Diversi studi hanno dimostrato che è meno probabile che le persone prendano un farmaco se messe di fronte alle cifre assolute. Purtroppo, anche molti servizi dei media sui medicinali tendono a utilizzare le versioni più appariscenti, e omettono invece di dare le cifre assolute più indicative.”
In un certo senso la promozione di questi medicinali è obbligata a ingran­dirne i benefici, perché spesso è diretta a persone complessivamente in buona salute che magari pensano di non avere bisogno di cure. Per quanto riguarda la pressione sanguigna, il bacino di potenziali pazienti che per gli altri aspet­ti sono sani è stato ampliato di recente. Nelle nuove direttive ufficiali statuni­tensi compare una nuova categoria di malattia chiamata “pre-ipertensione”.
“No, non so nemmeno cosa sia.”
“Okay” dice James al pubblico, “prendiamo un uomo medio di sessanta­cinque anni come questo signore. Non è un fumatore, non ha mai avuto infar­ti né angina, ma gli hanno detto che ha la pressione ‘alta’, diciamo per ipote­si intorno ai 90-160 o giù di lì. Se il suo medico ritiene che sia ad alto rischio, quale probabilità pensate che abbia questa persona di subire un infarto nei prossimi cinque anni?” Qui James si rivolge al pubblico.
“Alzate la mano se pensate che sia meno del 10%”. Nessuna mano.
“Okay, dal 10 al 20%?” Solo qualche mano.
“Dal 20 al 30%? Dal 30 al 40%?…” Solo quando James arriva al 40-50% la maggior parte del pubblico alza la mano.
“Quindi direi che la maggior parte di voi crede che un ‘alto’ rischio sia tra il 40 e il 50%”.
La gente annuisce.
“Beh, è una cosa normale – anzi, persino i medici si sbagliano – però avete stimato il rischio quasi dieci volte più di quello che è realmente. Perché vede­te, per un uomo di 65 anni con la pressione alta, che non fuma, il rischio di avere il primo infarto nell’arco di cinque anni è del 5-6% circa”.
Per rendere ancora più chiaro il concetto James usa la spiegazione del “gemello identico”, che dimostra in che misura la pressione alta influisce sulle probabilità di un futuro infarto.
“Mettiamo che io e Bob fossimo gemelli identici… lo stesso patrimonio genetico”, dice James.
“Dio ce ne scampi” geme Bob.
“E che Bob abbia la pressione ‘normale’ e io la pressione ‘alta’”, prosegue James.
“In tal caso, la mia pressione ‘alta’ aumenta il rischio di infarto del 2-3% circa rispetto al rischio di Bob. In altre parole, per me il rischio nell’arco di cin­que anni è del 5-6% circa perché ho la pressione alta, mentre per Bob è del 3-4% perché non ce l’ha”.
“Sta scherzando, è davvero così?” Chiede qualcuno.
“Così stanno le cose” dice James. “Possiamo abbassarlo dell’I-2% e avvici­narlo al rischio del fratello gemello con la dieta o i farmaci, ma non si ridurrà mai a zero, e probabilmente neppure a quello del caro fratellino gemello. E naturalmente, sarà più alto se uno è un fumatore o ha il diabete e così via. Ma il medico deve poter essere in grado di dirvi quale sia il vostro rischio in base alla vostra situazione personale”.
Concludendo questa sezione, Bob consiglia: “quindi, una volta che sapete quale sia il vostro rischio e una volta imparato di quanto un farmaco può abbassare tale rischio, le domande che dovete porvi sono: voglio davvero prendere questa medicina tutti i giorni, spendere dei soldi, andare in farma­cia tutti i mesi e magari affrontare degli effetti collaterali non proprio piace­voli? Queste sono le cose che dovete chiedervi”. (2)

NOTE: (1) Cornaglia-Ferraris, Malati di spreco, Laterza 2004, p.111
(2)Moynihan,Cassels, Farmaci che ammalano, Nuovi Mondi media pp.88 e ss.